Montanari e Trione: Contro le mostre / Mostrare l’arte

16 Gennaio 2018

Anime. Di luogo in luogo, l’importante mostra antologica sugli ultimi trent’anni di lavoro di Christian Boltanski che è stata di recente curata da Danilo Eccher al MAMbo di Bologna, riusciva a emozionare in profondità i suoi visitatori. Boltanski da sempre si è posto l’obiettivo di portarci a riflettere sulla fragilità della condizione umana, costretta a confrontarsi con la potenza della sua memoria ed esposta all’inesorabile incedere del tempo. E nella mostra del MAMbo, strutturata secondo l’affascinante modello architettonico delle cattedrali, il visitatore era spinto a diventare un soggetto attivo, che vaga in un tempo sospeso, immerso uno spazio di non vita e di non morte. Uno spazio che si concludeva con la magia dell’assordante installazione Amimitas (blanc), incentrata su un lungo video di 11 ore, secondo episodio del ciclo Amimitas dedicato da Boltanski alle quattro stagioni in quattro diversi luoghi del Pianeta. Un’installazione dove le anime sembravano quasi prendere vita e apparivano come se volessero interpellarci direttamente. Non è probabilmente a mostre come questa che pensavano Tomaso Montanari e Vincenzo Trione quando hanno scritto a quattro mani il loro polemico libro Contro le mostre (Einaudi). La tesi che i due autori hanno voluto sostenere è espressa molto chiaramente attraverso numerosi esempi: oggi in Italia, nel campo dell’arte, si produce un’eccessiva quantità di mostre. E tali mostre, soprattutto, sono solitamente costruite, più che per fornire stimoli culturali ai loro visitatori, per colpire l’attenzione dei media e attirare di conseguenza notevoli masse di persone. Sono cioè mostre “usa e getta”, progettate per essere rapidamente consumate. 

 

Gli strali di Montanari e Trione sono rivolti principalmente contro la natura superficiale delle mostre che vengono di solito organizzate nel nostro Paese, ma il fenomeno purtroppo è esteso a tutto l’Occidente. I due autori sembrano contrapporre la natura effimera della mostra alla lunga durata del museo. Laddove questo accumula per tutelare e conoscere, il primo si presenta come un puro evento. D’altronde, il museo è nato a partire dal Rinascimento grazie allo sviluppo della consapevolezza che era necessario cercare di proteggere quello che lo sviluppo industriale e sociale tendeva inevitabilmente a distruggere. Prima dell’Ottocento però i musei erano solamente un fatto privato, singole collezioni frutto di una scelta individuale di appartenenti a importanti famiglie aristocratiche, mentre dalla seconda metà del Settecento l’intera società ha sentito la necessità di creare dei luoghi accessibili a tutti dove potessero essere conservate la storia e la cultura umana per evitare che venissero disperse. Questo modello si è progressivamente sfaldato via via che ha preso forza al suo interno la cultura del consumo e ciò è avvenuto in tutto l’Occidente. Jean Baudrillard ha chiamato tale fenomeno «effetto Beaubourg», dal nome del museo che, alla fine degli anni Settanta, per la prima volta ha messo in luce che l’arte, come la società, stava inevitabilmente sottomettendosi al dominio dei flussi circolatori delle merci.

 

 

Lo statunitense George MacDonald è andato oltre il concetto di «effetto Beaubourg», sostenendo qualche anno fa che i musei contemporanei praticano il modello di Disney World, cioè il modello Disney del parco a tema. Parlare di “disneyficazione” per i musei forse è eccessivo, ma è certo comunque che negli ultimi decenni questi luoghi sono profondamente cambiati per effetto soprattutto della necessità di fare fronte alla progressiva riduzione dei fondi statali, in conseguenza del diffondersi delle politiche neoliberiste. È cominciato così l’inseguimento a sponsor e mecenati, ma anche il ricorso a tutto ciò che potesse ottenere una qualche visibilità nei media, come mostra efficacemente il recente film The Square del regista svedese Ruben Östlund. 

I musei hanno sempre più cominciato perciò a praticare delle vere e proprie strategie comunicative e a farsi contaminare dalla cultura del consumo. Non a caso il Louvre, il più grande museo al mondo e anche il più visitato (con oltre 7 milioni di visitatori annuali), è stato anche il primo a dotarsi di un centro commerciale interno. D’altronde, oggi tutti i musei cercano di prendere a modello la struttura di luoghi che godono di un grande successo popolare come i centri commerciali. 

 

Nessuna meraviglia allora se i musei adottano la stessa strategia che caratterizza il comportamento delle marche aziendali. Una strategia basata sulla ricerca di visibilità e necessariamente globale. Guggenheim già da tempo ha aperto vari musei nel mondo, a cominciare da quello realizzato a Bilbao su progetto di Frank Gehry, una gigantesca e spettacolare scultura di titanio color argento che trasmette la sensazione di un ammasso di forme esplose e “collassate”. E un altro ne aprirà presto ad Abu Dhabi, a fianco del nuovo e sorprendente museo Louvre firmato da Jean Nouvel. E la stessa strategia propria delle marche aziendali è stata adottata anche da parte di Tate, che ha costruito negli ultimi anni in Inghilterra quattro sedi museali: Tate Britain e Tate Modern a Londra, Tate Liverpool e Tate St Ives. 

 

Ciò che colpisce è però soprattutto che oggi anche la logica seguita nei musei di tutto il mondo per organizzare le collezioni permanenti e per progettare e allestire le mostre è profondamente influenzata dalla cultura del consumo, dove tutto viene mescolato senza distinzioni di sorta. Dove cioè non esistono criteri distintivi, né di ordine temporale né di altro tipo. Così, le opere d’arte vengono organizzate non più secondo una logica cronologica che consenta al visitatore non esperto di conoscere l’evoluzione storica, ma secondo grandi temi considerati equivalenti tra loro, come avviene d’altronde nell’eterno presente del consumo. E dove spiccano unicamente i pochi “artisti-star” o le poche “opere-star”, cioè quello che è in grado di attirare l’attenzione, esattamente come i testimonial famosi della pubblicità delle marche. 

Si comprende così perché, come mettono bene in luce Montanari e Trione, anche all’esterno dei musei oggi le mostre che vengono realizzate in Italia, comprese quelle prestigiose della Biennale di Venezia, non siano frutto di un progetto culturale innovativo, ma concepite per essere di facile accesso, come avviene negli odierni spazi commerciali. D’altronde, si è creato un vero e proprio mercato, al cui interno si sono abilmente inserite delle aziende private che perseguono finalità di profitto e non certamente di tipo culturale. Quello che conta per loro è avere sempre maggiori quantità di visitatori, cioè fare del fatturato. Sorprende però che anche gli amministratori pubblici, che dovrebbero avere delle finalità di altro tipo, abbiano sposato questo modello. Un modello dove, come hanno scritto Montanari e Trione, «Le mostre non devono far riflettere, educare, insegnare qualcosa. Devono essere spettacolo».

 

Montanari e Trione hanno proposto delle regole da seguire per modificare e migliorare la situazione esistente. Ma il processo di degenerazione che hanno minuziosamente descritto è probabilmente troppo avanzato oggi per poter pensare di correggerlo. Forse è tardi cioè per far sì che l’arte, invece di essere rassicurante e facilmente consumabile, possa ridiventare un oggetto disorientante e che ci costringe a interrogarci sul senso della nostra vita. O forse qualche speranza possiamo ancora nutrirla, se è vero che si organizzano mostre come quella di Eccher su Christian Boltanski. 

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