Quale è il ruolo della critica letteraria nell'epoca della crisi dei mediatori? / Per una critica della vita privata

29 Marzo 2016

Qual è il ruolo della critica letteraria nel secolo di Amazon? Ha ancora senso dare credito a una figura professionale come quella del recensore di libri, che sembra nata con la civiltà dei giornali a stampa e con questa sembra destinata a morire? Esiste davvero una differenza di valore tra il parere di un critico e quello di qualunque altro lettore? A volte ne dubitano persino coloro che questo mestiere tuttora lo esercitano e che, invece di rivendicare patenti di specialismo, assecondano l'indistinzione tra scritture private e scritture pubbliche cucendosi addosso l'immagine comoda (e falsa) del semplice "lettore che scrive": così si definì a suo tempo candidamente Giovanni Raboni, poeta e critico letterario di punta del Corriere della Sera, in una celebre comparsata televisiva del 1988. Affermazioni del genere sono musica per il direttore di un giornale, che coglie ogni occasione per deprezzare il lavoro dei suoi redattori. Suonano un po' meno bene, naturalmente, all'orecchio dell'articolista delle pagine culturali in ritardo sulle rate del mutuo.

È in libreria da dicembre La critica come critica della vita. La letteratura e il resto, una raccolta di saggi curata da Silvia Lutzoni per l'editore Donzelli e scaturita da un convegno che si è tenuto all'Università di Sassari a febbraio dell'anno scorso. In questo volume piuttosto agile confluiscono una serie di interventi di qualità e taglio eterogenei, in cui però c'è un minimo comune denominatore: la volontà (a dire il vero non sempre pacifica) di ascriversi al magistero del critico Massimo Onofri, ordinario di Letteratura italiana contemporanea nella stessa università sarda e recensore instancabile sulle pagine di numerosi quotidiani. A dare il titolo al convegno (e al libro) è in effetti una nozione, quella di "critica della vita", che Onofri è venuto formulando nell'ultimo decennio a partire soprattutto dal suo La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo, edito nel 2007 sempre da Donzelli.

 

La critica come critica della vita. La letteratura e il resto.

Ma che cos'è la "critica della vita"? Si tratta nientemeno, se ci affidiamo alle parole della curatrice, che di un "contributo alla costruzione del senso della vita di chi legge, a cominciare da quello specialissimo lettore che è il critico stesso". Ci viene spiegato che il critico, infatti, e in modo speciale il critico cosiddetto "militante" (cioè, semplificando, quello che scrive sui giornali), non dovrebbe rivolgersi soltanto ai suoi colleghi, come spesso succede soprattutto all'università. I dipartimenti di letteratura sono infatti il luogo elettivo dei gerghi minacciosi, degli astratti furori metodologici che privilegiano le pregiudiziali degli "ismi" a quel rugoso confronto coi testi il cui esito, per un lettore onesto, è e deve essere imprevedibile (primum leggere, deinde teorizzare, insomma). Esiste dunque un "lettore dal volto umano" [sic], che alla critica non chiede come funziona la letteratura, ma addirittura che cos'è la vita.

Dopo la breve introduzione di Lutzoni, il libro è diviso in due parti: per ironia dell'abitudine, la prima è teorica e la seconda applicativa. Solo che di teoria se ne trova poca nella prima parte; e perlopiù di pessima qualità. Il concetto di "critica della vita" è anzi declinato, all'interno del volume, in modi molto diversi e a volte addirittura inconciliabili tra loro. L'impressione di cui non ci si riesce a liberare è che quella che dà il titolo all'incontro non sia affatto una nozione teorica ben delimitata, ma una sorta di formula-ombrello che raccoglie sotto di sé una serie di atteggiamenti resi omogenei da un antiaccademismo un po' logoro e dalla comune avversione per la teoria letteraria. In particolare, il termometro retorico si scalda tutte le volte che si parla di strutturalismo e di "morte dell'autore" (la tanto famigerata quanto equivocata formula di Roland Barthes). Si tratta però di una polemica abbondantemente fuori tempo massimo, cui diede il principale contributo di sostanza, e con ben altri strumenti, già nel lontano 1999 Carla Benedetti (qui citata ma non discussa) col suo L'ombra lunga dell'autore.

Per questo motivo un interesse maggiore rivestono, semmai, le biografie intellettuali che popolano la seconda parte del libro. Procedendo per coppie, come Plutarco, ogni autore si incarica di colorare analogie e differenze tra Garboli e Baldacci, Muscetta e Pampaloni, Cases e Segre, Macchia e Giaveri, Gramigna e Giuliani, Raboni e Siciliano, Mengaldo e Ripellino, Santagata e Bettarini, Bo e Timpanaro. Il motivo degli accostamenti è spesso pretestuoso. Ciò non toglie che alcuni contributi emergano per qualità degli spunti, ispirazione stilistica e profondità di sguardo (uno su tutti quello di Matteo Marchesini, che è sempre molto attento). Si ha certo così uno spaccato, se non dei precursori della "critica della vita", dei tanti critici che ebbero velleità da scrittori e dei loro tentativi di rimuoverle o sublimarle. 

Nello schema nascosto tracciato da questi saggi, la lettura di un libro si può vivere in due modi: come la ripetizione di un gesto all'interno della sequenza "leggere libri"; come un evento singolare. Il primo modo di leggere è quello degli studiosi e degli appassionati di teoria. Il secondo sarebbe invece quello che sta a cuore a un vero "critico della vita". Parafrasando la terminologia di un celebre articolo di Roman Jakobson (che parlava degli intrecci tra "serie storica" e "serie letteraria"), si potrebbe dire che compito del "critico della vita" sia verificare volta a volta le intersezioni fra due serie autobiografiche, quella dello scrittore e la propria. Si ha infatti la sensazione che per molti degli autori di questi contributi far trapelare in una recensione un particolare della propria vita sia per il critico una garanzia di profondità: forse per l'intestirpabile pregiudizio che ci fa credere di essere sempre i più preparati di tutti a parlare di noi stessi; mentre è proprio l'esistenza della letteratura a testimoniare il contrario.

 

In generale circola nel libro un affetto particolare (e del resto ampiamente condivisibile) per tutto ciò che odora di eclettismo e di dilettantismo. Autobiografismo e dilettantismo messi insieme riducono però appunto il critico a semplice "lettore che scrive", secondo l'espressione di Raboni, privandolo nella sostanza del suo statuto professionale. Il vero "critico della vita", dunque, o è semplicemente uno scrittore oppure non è; oppure è un cialtrone.

La domanda che nasce spontanea, tuttavia, è questa: da quando in qua gli scrittori si accontentano di parlare di sé? Già Aristotele distingueva il poeta dallo storico perché il primo si occupa dell'universale (Achille) e il secondo del contingente (Alcibiade). Non si capisce perché lo scrittore di critica letteraria debba eccepire. Da più di duemila anni esiste un modo per distinguere il lettore che scrive dal critico (ed è tanto più fondamentale negli anni di Anobii): entrambi raccontano di un'esperienza di lettura; ma il racconto del primo è solo autobiografico; il racconto del secondo è contemporaneamente autobiografico e valido per tutti (o per molti). È evidente allora che il metodo e la teoria, che sono certo noiosi sulle colonne di un giornale, sono in realtà strumenti che il critico cerca di darsi per non abdicare all'imperativo aristotelico all'universale (oltre che garanzia tecnica del suo riconoscimento sindacale). Mentre certe concessioni all'autobiografismo, che sono del resto moneta corrente, di questi tempi, anche tra narratori e poeti, nobilitano col distintivo dell'autenticità quella che è forse una più prosaica fascinazione per lo storytelling. Perché la figura del critico, diciamolo pure, è piuttosto antipatica.

I libri appartengono a tutti: chi crede ancora in una casta sacerdotale depositaria del vero significato dei testi, unica abilitata a esprimere il giudizio sul loro valore, è un veteroqualcosa, un novecentesco. Niente di nuovo, intendiamoci, nell'epoca della crisi dei mediatori: si dice lo stesso dei giornalisti e, sotto sotto, molti lo pensano pure dei professori; per non parlare naturalmente dei politici (salvo poi recepire come verdetti di oracoli le più impenetrabili supercazzole finanziarie). Fu con l'ascesa di Berlusconi che divenne di moda criticare "i professionisti della politica", che erano quasi sempre "professoroni" che non si erano fatti da soli, che della vita avevano solo nozioni filtrate, libresche. Eccola che ritorna, la retorica della "vita", allora, ancora a vent'anni di distanza, in piena tempesta grillina, ad affumicare i discorsi dei mediatori per eccellenza: quei critici che si occupano di romanzi e poesie, ossia degli oggetti culturali più indiretti e filtrati che la cultura umana abbia mai prodotto.

Perché oggi tutto quello che conta è l'immediatezza della perfomance: che importa scrivere epistole sull'ascesa al Monte Ventoso se possiamo semplicemente fotografarci le scarpe infangate una volta arrivati in cima? E così nei romanzi, nelle poesie, ora persino nella saggistica letteraria, l'autobiografismo assume spesso i tratti dell'imperativo tirannico; e non è altro che lo sfogo acneico (e coatto) di un regresso alla pubertà intellettuale. Si tratta di un fenomeno tutt'altro che avulso dalle ideologie, come dicono spesso i propugnatori di questo modo di scrivere, che è invece il frutto più puro che l'individualismo borghese abbia distillato nella nostra epoca nel campo della cultura. È per il borghese che il privato è l'unica vera realtà. Solo il borghese si crede più "autentico" se parla di sé. Rappresentare la realtà come somma di vite private equivale a recintarla, sottoponendo anche il letterario alla logica capitalista della proprietà. Ecco perché di moltissimi scrittori contemporanei si può dire che non rappresentino altro se non il proprio essere scrittori (che è poi la definizione di epigono; penso per certi versi a narratori come Carrère, a Ben Lerner, ma anche a certe cose di Moresco, per citarne alcuni; o a poeti come Guido Mazzoni, per cui vale un discorso almeno in parte diverso). Avere successo significa infatti ritagliarsi uno spazio proprietario all'interno del mercato editoriale. Atto performativo per eccellenza dello scrittore sarà dunque pubblicare un libro in cui si annuncia la propria pubblicazione (è appunto quello che fanno in modi diversi Carrère, Lerner e Moresco, fra gli altri): ossia né più né meno che pubblicare se stessi. Già nel 1939, in polemica con l'accademismo dei formalisti russi, György Lukács escludeva che la critica letteraria potesse essere una disciplina a sé stante, delegittimandola dunque anche come mestiere. Per lui quello della critica doveva essere piuttosto il terreno d'incontro tra due attività da cui bisognava necessariamente partire prima di potervi giungere: quella di filosofo e quella di scrittore. Ma su questo terreno si dovevano coltivare concetti determinati (p. es. quei "fenomeni archetipi" con cui Goethe incantò Hegel) che erano dei veri e propri modellini di comprensione della società e della natura estratti con le pinze dalle opere letterarie: modellini che dovevano servire allo scrittore per comporre opere nuove; al filosofo come convalida per via estetica dei concetti che veniva forgiando. Quella sacrosanta ripulsa contro le specializzazioni accademiche, che Lukács leggeva come il frutto della divisione capitalistica del lavoro applicata al campo della cultura, nasceva dunque come un incitamento, lanciato ai critici, alla hegeliana "fatica del concetto"; e non alla sua definitiva smobilitazione in favore dell'aneddotica.

Sarà, insomma, andando incontro alla propria dissoluzione (come disciplina spirituale e concettuale ancor prima che come mestiere) che la critica potrà farsi semplicemente diario, autobiografia, testamento e memoria privata, assumendo finalmente la simpatetica levità del pettegolezzo. Fino ad allora, però, sarà bene tenere in vita con tutte le macchine metodologiche quello che resta della civiltà dell'interpretazione.

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