A quarant'anni dalla scomparsa / Sergio Solmi: letteratura e destino

7 Settembre 2021

Il 7 ottobre 1981, esattamente quarant'anni fa, moriva a Milano, all'età di 81 anni, Sergio Solmi.

Fu un critico letterario (leopardista, contemporaneista, francesista), un critico d'arte, un poeta, un memorialista, un appassionato cultore di science fiction

Le sue pagine, di qualunque argomento trattino, posseggono sempre un profondo valore conoscitivo e sono non di rado stilisticamente splendide.

Era forse un professore? Un accademico? Un giornalista culturale?

No: di mestiere faceva l'avvocato (il “leguleio per mezzo secolo” come ebbe a esprimersi lui nel 1974). Era, per la precisione, a capo dell'Ufficio Legale della Banca Commerciale Italiana.

L'insonnia lo aiutò molto.

Le sue opere sono state ripubblicate, a cura di Giovanni Pacchiano, dal 1983 al 2011, per l'editore Adelphi, in sei volumi per complessivi nove tomi.

Noi qui cercheremo di delineare alcuni aspetti di un'opera così varia e così vasta.

Partiremo dalla poesia.

Solmi stesso scrisse nel 1952 che ci sono sostanzialmente “due modi per seppellire i poeti”: uno è l'oblio, l'altro è quello dell’“imprigionamento in una formula”.

La formula insistentemente usata per imbalsamare Solmi è quella del “poeta minore”, o, come specificò Franco Fortini, “deliberatamente minore”.

 

Noi non sappiamo in effetti cosa distingua un “minore” da un “maggiore”, se non la sua fortuna o il suo successo, ossia elementi, a ben vedere, non valoriali quanto piuttosto casuali. Comunque, indipendentemente dalla sua posizione nella scala gerarchica lirica, proviamo a individuare alcune costanti nei testi di questo poeta che, a leggerlo, ci procura sempre un notevole godimento.

Pubblicò poco e a parecchi anni di distanza (1933, il primo volumetto Fine di stagione; 1950 il secondo, Poesie; 1956 il terzo, Levania e altre poesie; 1968 il quarto, Dal balcone). Le Poesie complete, uscite per Adelphi nel gennaio del 1974, sono un esiguo fascicolo di appena 121 pagine.

Eppure questa scarna produzione risulta straordinariamente compatta.

Una poesia del 1957, significativamente intitolata Sopra un mio vecchio tema, rimanda ad un'altra del 1930, Aeroplano. Ciò che le accomuna è il tema della visione dall'alto, come, appunto, da un apparecchio in volo.

 

Nel testo antico “le colorite terre, i fiumi, i monti.../le molli... catastrofi di nubi”. In quello più recente “il decrepito/formaggio della terra, irto di croste/ e di nodi corrosi, maculato/d'oscure muffe, fioccoso/di bambage, solcato/di colature verdazzurre”. E poi “il gorgo azzurro” da cui si percepisce un’“immensa/ carta d'Italia che s'oscura”.

Anche nella splendida Levania (1954), nome ebraico-cabalistico della Luna, usato da Keplero nel suo Somnium, sive de astronomia lunari, il poeta “dai supremi bastioni” del satellite immagina di aver contemplato, in un'esistenza anteriore, “il verdeggiante/pianeta... l'ombra vaga/di oceani e foreste, della vita/impetuosa e fuggevole le polle/iridescenti”.

 

Non diversamente, nel testo dal titolo assai eloquente Lamento del vecchio astronauta (1963), chi dice “io” ha passato tutta la vita ad azionare “propulsori/razzi frenanti”, a controllare “giroscopi”, a sorvegliare “indici dei campi/di gravitazione”, ma sempre lontano dalle “calde cose/che chiamano il mondo, la vita”. Gli è capitato sì di avvistare “talora/teneri pianeti venati/d'ombre, di mari, di nubi,/ma a tale distanza che poco più  tardi” gli parevano solo “illusione”.

Il tema può anche essere quello ben più domestico di una Sera sull'Adda (1937) o di Giardini di Vercelli (1947). In un caso e nell'altro la sensazione dominante sarà sempre quella di assistere alla propria vita quotidiana come da gran distanza: “mi piacerà evocarti/bel pianeta terrestre” nel primo, e “colorita/ esistenza terrestre, a cui m'affaccio/di soppiatto, fugace testimone” nel secondo.

Il punto d'osservazione rimane lo stesso, sia che il poeta si trovi a Parigi, Dalla torre Eiffel (1949): “su questo/vertice estremo/di ninnolo gigante”, o a Milano Dal balcone (1960): “affacciato sul largo” a mirare l’“enorme/brulicante estensione... crestata/di fuochi e colori”.

La poesia postrema di Solmi, che chiude le Inedite e sparse, datata da Pacchiano “anni Settanta”, intitolata Il testimone, ribadisce ancora una volta la fedeltà a questo particolare modo di considerare il mondo: “Ma era la realtà che dall'alto /contemplavo”.

 

Vittorio Sereni, in una nota che accompagnava l'edizione Mantovani (1956) di Levania, aveva del resto sottolineato queste tipiche “prese panoramiche a gran distanza” della realtà, specifiche di Solmi. E il nostro fece sue le deduzioni dell'amico nel testo di autoanalisi Come mi vedo. 

Il distacco pare quindi uno dei temi più caratterizzanti di Solmi. La partecipazione a distanza. Che si riflette anche nel suo dato stilistico più appariscente: la veste tradizionale, concepita come forma di distacco dal proprio tempo, irto di innovazioni e sperimentazioni. La misura sempre rispettosa dei suoi versi, endecasillabi e settenari. Il suo lessico apparentemente ritardatario, aulico, desueto (“altolucente”, “ploro”, “clangore”, “arroseato” eccetera), benché talora con inserti sorprendentemente attuali. Come in una delle sue poesie più rappresentative, A Giacomo Leopardi (1966), vero e proprio pastiche di locuzioni e modi tipici leopardiani (“Dagli ondulati colli, dalle brune/torri donde ancor suole fino a sera...”), ma dove a un certo punto fa la sua inaspettata e spiazzante comparsa “la macchina del tempo” di wellsiana memoria.

 

Così come, in un altro testo (L'età dei semidei, 1962) di questo poeta così legato agli stilemi e ai metri del Passato, e che si proclamava addirittura “neoclassico”, hanno modo tuttavia di campeggiare, sorta di divinità gnostiche, i totem dell'odierna “religione pubblicitaria”, “metamorfica e sincretistica” come tutte le altre religioni.

Né va certo dimenticata, in quest'ambito, l'attività di traduttore di Solmi. Parlando delle versioni di Leopardi, egli sottolineava come in realtà queste fossero “poesie di Leopardi”. Recensendo nel 1977 le Moralità leggendarie di Laforgue, rese in italiano da Nelo Risi, il Nostro ribadiva che “ci dev'essere un'ispirazione anche nei traduttori”. Quindi, leggendo i due Quaderni di traduzioni solmiani (Einaudi, 1969 e 1977) possiamo tranquillamente apprezzare alcuni suoi capolavori assoluti, come i Canti di Gottfried Benn (“Tacite fra le piante balzano le pantere./ È tutto riva. Eterno chiama il mare”). O La tomba ad Akr Çaar di Ezra Pound, dall'attacco perentorio: “Io sono la tua anima, Nikoptis./T'ho vegliata/per questi cinque millenni...”.

(Per capirne il valore basterebbe un semplice confronto con alcune altre traduzioni italiane correnti dei due poeti in questione).

 

Sul conto del Solmi critico il consenso è unanime. Zanzotto nel 1975 affermò che “mai Solmi ha sbagliato”. Fortini, dieci anni dopo, lo definì “quel nostro maestro della critica”. Mengaldo, in un suo denso profilo del 1998, si spinse fino ad identificarlo non con “un critico, ma con il critico” tout court.

L'espressione più compiuta e, meritatamente, più fortunata del Solmi contemporaneista è il ricco volume Scrittori negli anni, apparso una prima volta nel 1963 per i tipi di Il Saggiatore.

Si apre, non a caso, con una recensione degli Ossi di seppia 1925. Montale è in effetti una delle presenze portanti del volume. Solmi e il poeta genovese si erano conosciuti a Parma nel 1917 a un corso di allievi ufficiali. Il Nostro rievocò quel primo incontro parmense in un suo scritto apparso sulla “Fiera letteraria” nel 1953. Montale è ritratto davanti a una “morbida massa di panna montata” intento ad affondarvi il cucchiaio, mentre solleva sul visitatore “un lungo sguardo azzurro interrogativo”. (Qui è evidentemente in azione l'efficacia rievocativa del Solmi memorialista).

 

Comunque, panna montata a parte, mentre la maggior parte della critica, all'apparire del “libretto” montaliano, lo aveva “situato senz'altro nella famiglia dei poeti liguri, da Ceccardo a Boine e Sbarbaro” a Solmi invece “la musicalissima retorica” degli Ossi pareva assai più consonante con ben altri nomi ed esperienze, quelli di Leopardi e Baudelaire, tanto per dire, altro che localismo!

Altrettanta sicurezza di giudizio e felicità di formulazione sono evidenti nel parere che il Nostro darà, nel 1940, sulle Occasioni, qui infatti Montale, secondo Solmi, “tocca l'assoluto dell'espressione attraverso un'estrema accidentalità di dati”, che è davvero individuare l'essenza della seconda fase montaliana con una perfetta misura di parole, tutte peraltro profondamente significative.

Nel 1957, dopo l'uscita della Bufera, il Nostro dedica all'amico genovese un corposo saggio complessivo, La poesia di Montale, il cui attacco è memorabile: “A poche cose ha creduto la nostra giovinezza: ma, fra quelle poche, certamente alla poesia”.

 

C'è, in questo saggio che molti considerano il capolavoro solmiano, una significativa costellazione di parole, impiegate di volta in volta per caratterizzare aspetti salienti dell'opera di Montale. Solmi parla di “geroglifico” (del transito terrestre), di “ideogramma” (che è “concrezione impressionistica ed emotiva”), di “delicate calcomanie del profondo”, e poi di effetti “d'estatico arazzo” prodotti da quella poesia.

Sorprendente che gli stessi termini, o molto simili, siano utilizzati per un testo poetico proprio di Solmi, A una farfalla (1954), dove compaiono “geroglifico alato”, “crittogramma d'iridata polvere”, “cifra del segreto”, “segni vividi”, tutti a voler alludere a una sorta di enigmatico messaggio portato inconsapevolmente dalle ali d'una semplice farfalla.

 

 

Se poi pensiamo che in una poesia di Solmi di poco precedente, Arte poetica (1950), la parola viene definita come “cosa tra le cose”, pensando dunque a questa natura oggettuale, compatta dell'esperienza verbale, e insieme al suo aspetto misterioso e araldico, non viene forse fatto di pensare ad analoghe formulazioni del Manganelli critico, sulla natura di stemma, di sistema di segni casuali, di avventurose isoglosse sgargianti che paiono costituire l'essenza della letteratura? 

 

Non intendo dire che Manganelli prenda da Solmi o viceversa, solo istituire un parallelo che non pare del tutto dovuto al caso ma a comuni idee nutrite da un medesimo Spirito del Tempo.

Certo, non c'è solo Montale in questa capitale raccolta di saggi. Alcune definizioni su altri celebri autori sono diventate proverbiali.

A proposito di Quasimodo: “Il paradosso della lirica moderna sembra consistere in questo: una suprema illusione di canto che miracolosamente si sostiene dopo la distruzione di tutte le illusioni”.

Relativamente a D'Annunzio e al suo libro di poesia più celebrato: “Alcyone non è, dopo tutto, che il diario lirico d'una estate marina” – e ci voleva una certa dose di coraggio per esprimersi così nel 1939.

Allo stesso modo, vent'anni dopo, non doveva risultare del tutto scontato vedere non in Gozzano, bensì in Corazzini un autentico antesignano della poesia moderna, un “esile, incompiuto ma autentico filo di poesia... estremamente... profetico”.

 

È però di nuovo a una fondamentale asserzione del saggio del 1957 su Montale che dobbiamo rifarci per seguire un percorso particolarmente importante per il Solmi critico.

Montale rivestiva un ruolo guida per la generazione solmiana innanzitutto perché “il bisogno di uno stile” pareva loro “l'ultima garanzia di autenticità” in relazione al “mondo attorniante”.

“Bisogno di stile”. 

Analogamente, discorrendo di Cardarelli, Solmi indica che è possibile un eroico o almeno stoico “riscatto dell'autobiografia per pure virtù di stile”. Anche Sbarbaro si avvaleva di “estreme difese affidate allo stile”, perché esso, lo stile, è “l'unica difesa contro l'informe e il nulla, l'unico mezzo per dare un senso a un mondo che altrimenti si sfalderebbe nell'indifferenza”.

Questo è in effetti un punto decisivo nella concezione di Solmi.

In una sezione delle prose Meditazioni sullo scorpione (1972), intitolata Pensieri e frammenti, originariamente uscita su “Paragone”, è detto a chiare lettere, come meglio non si potrebbe: “Vedere l'arte, la poesia come uno dei tanti strumenti della sterminata difesa che l'umanità incessantemente mette in opera per sussistere”.

 

Quindi l'arte, la poesia sono una difesa, una necessità per la sussistenza dell'essere umano, non un lusso, non un elemento superfluo. Una imprescindibile difesa, ripetiamo.

E questo stesso concetto troviamo continuamente ribadito attraverso le più svariate esperienze artistiche.

Qualche esemplificazione, tratta dai lavori di francesistica.

Quando Solmi si occupa di tre poeti accomunati fra l'altro dal fatto d'esser morti giovani, Laforgue, Jarry, Apollinaire, i parallelismi rinvenuti nel loro “diagramma” critico (parola molto cara al Nostro) sono sorprendenti.

 

“Una delle ragioni essenziali della struttura poetica di Laforgue è quella di costituire una difesa”. “Funzione simbolico-oggettivante di difesa a salvaguardia di una intimità troppo schiva e dolorosa”. “Difesa ironica contro l'urgenza sentimentale”. “Le armature dell'invenzione paradossale, le trasposizioni in cliché, le superfetazioni comiche e grottesche con cui il giovane Laforgue insieme mascherava e scopriva l'angoscia di vivere”.

 

“La comicità, nella biografia di Jarry, come nella sua opera... ci riconduce in modo impressionante al suo carattere, più generale, di difesa, che nel caso particolare si sforzò di rendersi addirittura impenetrabile come una corazza: quella difesa del comico che, se non la sola, è la più importante di cui la provvida Natura abbia dotato l'uomo contro il sesso e la morte”.

Ricordiamo che Jarry, poco prima di spirare, chiese al suo medico se per caso non avesse lì per lui uno stuzzicadenti.

“Opera catafratta contro ogni caduta sentimentale”, quella di Jarry. Autentico “carapace formale”, duro, striato, elaboratissimo.

 

Non diversamente lo “scherzo enigmatico”, il “simbolo assurdo e incongruo” sono “nell'economia sentimentale e poetica di Apollinaire le estreme difese contro l'abbandono, la sommersione nel gorgo dell'angoscia”.

 

Una delle formule caratterizzanti la poesia apollinairiana “adesione incondizionata all'avventura terrestre” rimanda all'ideale proposto quattro secoli primi dalla saggezza di Montaigne, ossia quell’“esatto aderire dell'individuo al naturale movimento e ritmo della vita stessa”, che è poi ciò che Solmi definì, assai icasticamente, come la “salute” di Montaigne, il suo “vivre à propos”.

D'altro canto gli Essais di Montaigne “ci offrono l'esempio, forse unico nella storia letteraria, di un libro in movimento”.

E però, quattro secoli dopo, saranno proprio i propos (“ragionamenti”, come li tradusse Solmi) di Alain, filosofo amatissimo dal Nostro, a fornirci anch'essi “l'esempio di una riflessione in movimento, irripetibile”.

Del resto anche Leopardi, nello Zibaldone, ci mostra in azione un “pensiero in movimento”, da cogliere “non tanto nelle sue conclusioni e affermazioni generali, quanto nel suo procedimento irrequieto e rigoroso, nell'incessante ripetersi e svilupparsi dei suoi motivi essenziali”, dove le “contraddizioni” non sono realmente tali, bensì “diverse illuminazioni portate, da un punto di vista diverso, sul medesimo ordine di realtà”.

 

Dai saggi compresi negli Studi leopardiani ricaviamo che la poesia, per Leopardi, nacque da una “ferita che la realtà aveva inferto all'anima del poeta”. 

Anche nelle già citate Meditazioni sullo scorpione si evince che “il pensiero, l'arte, la poesia” nascono da “una carenza, una ferita”.

Il Saggio su Rimbaud (1974) conferma: “la poesia sorge da una negatività, da una ferita”.

Un'ulteriore analogia con il Manganelli di Letteratura come menzogna, sulla scorta di certe tesi di Edmund Wilson: “alla radice del lavoro intellettuale e pertanto anche dell'arte sta una ferita, una condizione di sofferenza non risolvibile”.

 

Leopardi e Rimbaud sono per vari aspetti associati da Solmi. Tutt'e due reagiscono con la letteratura a una adolescenziale “crisi di adattamento” alla realtà circostante; tutt'e due passano “da una rivolta sociale (o storica, contro il proprio tempo) a una di tipo metafisico”, benché per Leopardi i due piani siano sempre intrecciati; tutt'e due posseggono aspetti “selvaggi”, di “mistica selvaggia”; per entrambi infine la letteratura fu “la forma essenziale del destino”, inscritta nella loro linea della vita.

(Da sottolineare che anche di se stesso Solmi ebbe modo di affermare: “la letteratura era una forma del mio destino”).

Naturalmente vi sono però, in Rimbaud, elementi che “il critico-chiromante” porta alla luce e che si differenziano profondamente rispetto a Leopardi.

La “follia ambulatoria”, per esempio, detta anche “dromomania”. Così come non pare avere riscontri nel recanatese il famoso “dérèglement de tous les sens”, che Solmi bellamente definisce “una tecnica psicofisiologica atta a far emergere quella realtà [ossia l'Eden perduto dell'infanzia] attraverso l'estasi visionaria”.

 

La visione, l“inquietudine mistico-religiosa”, addirittura l’“aspettazione messianica” sono, secondo Solmi, soggiacenti, almeno in parte, anche ai testi di science-fiction, di cui, nel 1959, egli allestì, con Carlo Fruttero, una cospicua scelta per l'editore Einaudi, dal titolo Le meraviglie del possibile.

Vi sono inclusi tutti i “classici” del genere, da Wells a Bradbury, da Philip K.Dick a Fredric Brown, senza dimenticare Asimov e Matheson.

 

Nella prefazione al volume il Nostro istituì un inedito e geniale accostamento: tra il romanzo cavalleresco della seconda metà del Quattrocento e la fantascienza stessa. Due casi simili di “folklore internazionale”, con la concomitante creazione di “grandi luoghi comuni e di convenzioni tipiche”. Dove il negromante si è trasformato nell'inventore, l'isola beata delle maghe nell'universo “laterale” di altre dimensioni parallele, i mostri e i draghi nelle creature mutanti, i castelli incantati nelle case-automa e le formule magiche, infine, rivivono nei paradossi fisico-matematici.

Un ulteriore esempio, se ce ne fosse stato bisogno, della brillantezza e fertilità di una mente libera, capace di spaziare nei territori più diversi con un'originalità talmente radicata da non aver nemmeno bisogno di mettersi troppo in mostra (la proverbiale “riservatezza” di Solmi).

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