Proust senza tempo e ovunque

11 Dicembre 2022

Sinora, le pubblicazioni più importanti che hanno accompagnato la duplice ricorrenza proustiana – i 150 anni dalla nascita dello scrittore nel 2021 e i 100 anni dalla sua morte nel 2022 – ci hanno portato nel cuore della genesi della Recherche come non era mai accaduto prima. Nei 75 fogli, di cui è stata allestita a tempo di record un’eccellente edizione italiana (a cura di Nathalie Mauriac Dyer, trad. di Anna Isabella Squarzina, con la collaborazione e un’introduzione di Daria Galateria, La Nave di Teseo, 2021) vediamo profilarsi una Combray senza Swann e una Venezia senza Albertine; nella nuova edizione degli Essais della collezione della Pléiade (diretta da Antoine Compagnon con la collaborazione di Christophe Pradeau e Matthieu Vernet, 2022) un imponente Dossier du Contre Sainte-Beuve ci mette di fronte alla debordante ricchezza del saggio incompiuto che sotto i nostri occhi si trasforma in romanzo.

Arriva ora un volume che ci invita a una diversa avventura: non si tratta più di calarci nella miniera dei manoscritti inesplorati, ma di prendere il volo per seguire le tracce della Recherche nel mondo intero, raccogliendo le testimonianze di traduttori, scrittori e registi che con l’opera di Proust si sono confrontati sin dal suo primo apparire. Proust-Monde. Quand les écrivains étrangers lisent Proust (Folio classique, Gallimard, 2022, 588 pp.) è frutto del lavoro di un’équipe di cinque giovani studiosi – Blanche Cerquiglini, Antoine Ginésy, Étienne Sauthier, Guillaume Lefer, Nicolas Bailly – che hanno voluto mettere a disposizione del pubblico francese un ampio ventaglio di testi in grado di documentare la fortuna di Proust fuori dal suo paese d’origine. 

Nell’introduzione Blanche Cerquiglini, che è anche la responsabile editoriale di Folio classique, racconta come è nato questo ambizioso progetto. All’origine, c’è l’incontro dei giovani curatori con un articolo del 1925: Il tragico destino di Marcel Proust, di Stefan Zweig (se ne veda la traduzione italiana di Cinzia Romani in Stefan Zweig, Uomini e destini, Piano B, 2016). È un articolo biografico – per tutta la vita Zweig sarà un prolifico autore di biografie –, incentrato su quella che era allora la visione corrente della vita di Proust, vale a dire sulla contrapposizione tra gli anni sterili e dispersivi dell’ascesa mondana e la feconda reclusione da cui nascerà la Ricerca. I manoscritti dell’incompiuto Jean Santeuil, dei successivi 75 fogli, del Contro Sainte-Beuve erano a quel tempo sepolti in un baule dimenticato; attribuire all’autore di Swann la giovinezza inoperosa del narratore della Recherche era una tentazione irresistibile.

Blanche Cerquiglini e i suoi compagni d’avventura sono però colpiti da un’intuizione di Zweig, che introduce nella vulgata del 1925 una sfumatura decisiva: la vita del giovane dandy Marcel Proust non è per lo scrittore austriaco pura dissipazione, è invece quel che consente l’accumularsi della materia della sua opera. “In quest’ordine di idee – nota Jean-François Roseau, presentando Il tragico destino di Marcel Proust in Proust-Monde, – l’alta società è un ecosistema, il salotto un osservatorio e il dandysmo un metodo di avvicinamento e di comprensione”. L’articolo di Zweig, d’altronde, pubblicato sul supplemento di un quotidiano austriaco, non è notevole soltanto per la sua chiaroveggenza; è una traccia, un segno dell’irradiarsi della Recherche nell’Europa degli anni venti. Partendo da quella traccia, gli ideatori di Proust-Monde hanno gettato le basi di una ricerca di ampio respiro, il cui scopo era raccogliere un gran numero di testimonianze significative sul posto occupato da Proust nella letteratura mondiale dagli anni venti ad oggi. 

Una prima sezione è dedicata alle voci dei traduttori. Walter Benjamin, appena firmato il contratto per la traduzione di Sodoma e Gomorra, confida a Scholem di sentirsi legato a Proust da una “grandissima parentela”, che l’intimità forzata del lavoro traduttivo metterà alla prova; i primi traduttori della Ricerca in portoghese brasiliano raccontano le difficoltà incontrate davanti a una sintassi che sembra loro “più psicologica che logica”; Natalia Ginzburg rievoca, in una postfazione del 1990, le circostanze nelle quali ha cominciato a tradurre La strada di Swann, nel villaggio abruzzese dove era al confino con il marito Leone. I primi traduttori dovevano fare i conti con la novità di uno stile anticlassico, senza precedenti; i traduttori delle generazioni successive – come il giapponese Kazuyoshi Yoshikawa, studioso tra i più autorevoli della genesi della Recherche – devono invece misurarsi con tutto quel che oggi sappiamo delle peculiarità della scrittura proustiana, costantemente in divenire tra aggiunte e correzioni mai veramente definitive.

Dopo i traduttori, sfilano nelle pagine di Proust-Monde romanzieri, poeti, saggisti, filosofi, registi cinematografici che hanno citato l’autore della Ricerca, lo hanno interpretato, commentato, parodiato, adattato, a volte anche aspramente confutato. Accanto a estratti da opere celebri – come i saggi di Beckett, di Ortega y Gasset, di Adorno, di Nabokov, di Edmund Wilson– i cinque curatori hanno presentato, sempre con estrema cura, testi rari e poco conosciuti, tutti di grande interesse. Tra i più emozionanti, il focoso articolo del 1943 di Gershom Scholem, in cui difende calorosamente Proust dall’accusa di antisemitismo e rievoca le notti passate a Parigi con Walter Benjamin a “speculare sulla trama ebraica dell’immensa impresa proustiana”. Tra i più sorprendenti, almeno per me, la lettera in cui Ezra Pound accenna un parallelo tra Trollope e Proust e le pagine autobiografiche nelle quali Victoria Ocampo racconta la sua fascinazione per la teoria proustiana della lettura e per la lingua francese. Ma ogni lettore farà scelte diverse tra i testi antologizzati in questo prezioso volumetto, così come ogni frequentatore della Ricerca è guidato da sotterranee affinità verso questo o quel personaggio, verso questa o quella zona del grande ciclo romanzesco. 

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Quando ho avuto in mano Proust senza tempo di Alessandro Piperno – uscito nel settembre del 2022, come Proust-Monde – mi hanno subito colpito alcuni tratti che lo apparentavano, del tutto casualmente, a quel volume collettivo. Nella prima parte, Breve storia di una lunga fedeltà, Piperno ripercorre le tappe del suo rapporto con Proust, proprio come in Proust-Monde fanno Victoria Ocampo, Nadine Gordimer, Alejo Carpentier e altri. Nella seconda parte, riflette sulla contiguità con Proust, o sulla lontananza da lui, di alcuni scrittori che gli sono cari; tra questi Virginia Woolf e Nabokov, presenti in Proust-Monde, e Philip Roth che, assente dalla silloge francese, avrebbe ben potuto trovarvi posto nella sezione Pastiches et réécritures o in quella intitolata Anti-Proust. Riflettendo su quel che accomuna il romanziere italiano ai cinque appassionati curatori di Proust-Monde, sono arrivata alla conclusione che si tratta di un rifiuto. Tanto Piperno quanto Blanche Cerquiglini e la sua équipe rifiutano l’atteggiamento celebrativo di chi trasforma il mondo di Proust in una via di mezzo tra Disneyland e il museo delle cere, organizzando al Grand Hôtel di Trouville cene con il menù tratto dalla Recherche o facendo di Illiers-Combray l’equivalente letterario di quella Fortezza della Solitudine in cui il Superman degli anni ’50 conservava sotto vetro, miniaturizzata, la sua città natale.

Il Proust di Piperno, come quello di Proust-Monde, non è il feticcio plastificato dei pellegrini che visitano compunti la casa della zia Léonie sgranocchiando madeleines. È una presenza inquietante che pone interrogativi insolubili; è, come diceva Giovanni Macchia, “l’angelo della notte”, che proietta una luce spietata sul mondo oscuro delle nostre ambivalenze affettive, dei desideri e delle insofferenze inconfessate, di quell’“obliquo discorso interiore” nel quale costantemente rimuginiamo sulla nostra innocenza e sugli ingiusti e colpevoli comportamenti altrui. 

Sin dall’inizio, ci racconta Piperno nella prima parte del libro, l’ingresso di Proust nella sua vita è quello di un alter ego, con cui si instaura un inedito e sconcertante rapporto di intimità. Ricevuto in dono da un amico aristocratico di nome Roberto – come Robert de Saint-Loup! –, il primo volume della Ricerca tradotta da Raboni ha sul Piperno diciassettenne un effetto sconvolgente:

“Il processo ricordava parecchio quello dell’ipnosi: la fitta pagina proustiana mi ondeggiava davanti agli occhi come un pendolo, provocando una specie di trance: la fusione tra me e il testo era talmente promiscua da favorire il dubbio un po’ bizzarro che ciò che stavo leggendo lo conoscessi già. L’aria di famiglia che respiravo era l’effetto di un trucco, lo sapevo, ma per quanto stessi lì a ripetermelo continuavo a sospettare di non essere alle prese con un nuovo libro da leggere ma con un flusso di cose già presenti in me, che quei segnetti sulla pagina contribuivano a far riemergere in superficie nel modo più libero e commovente”.

L’esperienza che qui Piperno descrive è esattamente la stessa che Giacomo Debenedetti ricordava di aver vissuto al suo primo incontro con Proust, nel 1924. Quell’esperienza, Debenedetti la rievoca nel 1946, parlando a nome di un’intera generazione:

“Dire che allora Proust ci incantò […] sarebbe poco dire. Fu addirittura l’unico: fu lo scrittore che più ci dette l’illusione di essere venuto a manifestare tutte le cose che a noi urgevano sulla punta della lingua. Scoprirlo, fu veramente ritrovarlo. E l’illusione, ancor più, di aver trovato il segreto, la formula magica per rendere sensibile attraverso le parole ciò che dentro di noi si agitava informe e nostalgico di luce – ma di una particolare luce, tuttavia, che rispettasse anche l’ombra– insomma l’incognita psicologica e sensibile, quella della nostra personale equazione con la vita, che tutti abbiamo sulla punta della lingua ma si dilegua appena tentiamo pronunziarla”.

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Forse anche a questo allude il titolo enigmatico Proust senza tempo: alla capacità del testo della Ricerca di innescare, a distanza di decenni, in generazioni che vivono in tempi radicalmente diversi, lo stesso misterioso processo di identificazione, lo stesso bisogno di cancellare, almeno provvisoriamente, il confine tra l’opera letteraria e la vita. Tra il 1926 e il 1929, Giacomo Debenedetti firma i suoi articoli sulla “Gazzetta del popolo” con lo pseudonimo Swann: è come se conferisse una momentanea realtà al personaggio della Ricerca che sente più vicino. Quello stesso personaggio, Alessandro Piperno ha l’impressione di averlo incontrato: non era forse una sorta di reincarnazione di Swann l’antiquario veneziano Elia Vogelmann, amico dei suoi nonni, che con Swann condivideva l’ebraismo, la cultura artistica, l’eleganza, l’ironia, il fascino?

È Elia Vogelmann a regalare al futuro romanziere la biografia di Proust scritta da George Painter, accompagnandola con un avvertimento che suona singolare in bocca a un esteta abitualmente piuttosto distaccato: “Leggilo. Se non versi una lacrima su quasi ogni pagina, meglio che non ci provi nemmeno a fare lo scrittore”. Da una figura tragica dietro le apparenze mondane – Vogelmann ha perso la moglie incinta in un campo di sterminio nazista –, il giovane Piperno è così incoraggiato a cogliere “il respiro tragico” della Recherche e dell’esistenza del suo autore. Con questo “passaggio del testimone” siamo veramente in un momento cruciale di Proust senza tempo, al punto di partenza di una storia di lettura intensa e accidentata come poche.

Al pari di Proust, Alessandro Piperno è per metà ebreo: “Conosco sulla mia pelle – scrive – la fatica di avere i piedi in due staffe, il tarlo d’irresolutezza che comporta essere figlio di matrimonio misto. Sono parecchi gli scrittori – da Michel Montaigne a Umberto Saba – che si sono trovati a dover gestire una discendenza ambigua. Viene in mente il verso che conclude un famoso sonetto di Saba dedicato al padre e alla madre: ‘eran due razze in antica tenzone’. Forse è questo il punto. È tipico degli ibridi, dei bastardi, percepire e portare sulle spalle il peso di questa contesa ancora irrisolta”. Come è riuscito, Proust, a trasformare quel peso, quella sofferenza in un punto di forza? A farne la chiave di volta di un’opera immensa? È una domanda tormentosa per il giovane Piperno, che si sente profondamente partecipe dell’irrisolutezza e dell’ambiguità proustiana, ma dubita di avere un giorno accesso a quella salvezza attraverso l’arte che si profila alla fine del Tempo ritrovato. Sospetta anzi – e da questo sospetto anche il Piperno di oggi non si è liberato affatto – che quella promessa di salvezza sia illusoria, una sorta di premio di consolazione per un’umanità che non può più sperare nelle luci del paradiso alle quali approdava la Commedia dantesca.

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Nasce così il suo primo libro, Proust antiebreo (Franco Angeli, 2000, 173 pp.) poi parzialmente riscritto e rifuso in Contro la memoria (Fandango, 2012, 262 pp.); un libro che, sulle orme di Beckett e di Bataille, offre la visione più desolata e nichilista che mai sia stata proposta del mondo proustiano. L’accanimento di Proust nei confronti dei personaggi che condividono la sua ascendenza ebraica – il ridicolo arrivista Bloch, il patetico Swann di cui la figlia adorata rinnegherà anche il nome – non è che una delle tante sfaccettature della crudeltà del romanziere; più che antiebraico, il primo Proust di Piperno, con il suo sguardo “diaccio, asciutto e lungimirante”, affilato dal risentimento, è antiumano e non ci stupiamo che il suo romanzo sia definito “un inno alla distruzione del mondo, più che al ritorno e al ritrovamento dell’essenza della vita nell’Arte”.

Credo si debba soprattutto al suo lungo lavoro di romanziere, in cui tanto spazio occupano la straziata vergogna dell’ibrido, l’ambivalenza del ricordo e tutte le possibili forme del girardiano “desiderio mediato”, se Alessandro Piperno è riuscito a lasciarsi alle spalle il paesaggio infernale, l’atmosfera irrespirabile del suo primo, dolorosissimo libro. In Proust senza tempo non ci troviamo certo di fronte a un Proust edulcorato e consolatorio; Piperno non dimentica mai che rileggere il passato implica per il narratore della Ricerca “abrogare le proprie illusioni più care”, estendere a sé stessi quella crudele lucidità che è tanto facile esercitare sugli altri. E nel finale della Ricerca quel che lo commuove è il faccia a faccia di Marcel con la morte; non lo splendore di quella “costellazione scintillante” formata dall’Arte, dal Tempo ritrovato e dall’Eternità che secondo quel grande lettore che fu Luigi Magnani offriva a Proust “ orientamento, ispirazione e conforto”. Ma l’autore della Ricerca non è più, per il Piperno di oggi, quell’alter ego soverchiante che negli anni giovanili sembrava inchiodarlo alla sua inferiorità, alla sua impotenza; è una figura fraterna che ha saputo dolorosamente fare i conti con la propria fragilità e trasformarla in forza creatrice. 

“Ho pressappoco l’età in cui Proust morì – scrive Piperno in Proust senza tempo – E mi chiedo se tale coincidenza non basti a donarmi la saggezza e il distacco per capire ciò che per tanti anni mi sono limitato ad amare. Ecco, forse l’idolatria è venuta meno, sostituita da sentimenti solo apparentemente più blandi, come l’affetto, la lealtà, la comprensione”.

All’ultimo Salone del Libro di Torino, Valérie Perrin, l’autrice del best seller Cambiare l’acqua ai fiori, ha raccontato, presentando il suo ultimo libro, di non esser mai riuscita a portare a termine la lettura della Recherche. Il pubblico ha salutato questa confessione con una standing ovation, quasi un’eco del grido liberatorio di Fantozzi al cineclub: “La Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca!” Nella complicità tra la scrittrice e i suoi lettori era implicita un’immagine punitiva di Proust: l’autore pesante per eccellenza, minuzioso e cavilloso, sempre intento – direbbe madame Verdurin – a spaccare i capelli in quattro con il minaccioso bisturi delle sue lunghissime frasi. Impossibile cancellarla dal repertorio dei luoghi comuni, quest’immagine tante volte ribadita sin da quando All’ombra delle fanciulle in fiore vinse il Premio Goncourt. Il Proust senza tempo di Alessandro Piperno però, con il suo linguaggio piano e colloquiale, con il suo taglio sapientemente narrativo, potrà forse indurre qualche lettore non iniziato a guardare al di là di questo stereotipo duro a morire e ad addentrarsi nei meandri della Ricerca.

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È un po’ lo stesso risultato che si è proposto di raggiungere, con un saggio recente, il teorico della letteratura Stefano Brugnolo, allievo di quell’eccelso proustiano che è stato Francesco Orlando (Stefano Brugnolo, Dalla parte di Proust, Carocci 2022, 200 pp.). Il Proust di cui Brugnolo nella sua agile monografia esplora, con eccezionale, ammirevole chiarezza, i temi, l’arte e il pensiero, per certi aspetti è antitetico al Proust di Piperno. È un Proust “ritemprante”, che non coinvolge il lettore nella sua straziata solitudine, ma lo gratifica con “una gioia di tipo cognitivo”, trasmettendogli la sua “pienezza vitale”. “C’è addirittura qualcosa di piacevole – scrive Brugnolo – e anzi euforico nella messa a nudo delle menzogne e delle finzioni che caratterizza per intero la Recherche”.

Siamo agli antipodi della lettura di Piperno, il cui Proust ibrido è il meno euforico che si possa immaginare. E tuttavia, nelle loro opposte tonalità, Proust senza tempo e il saggio di Stefano Brugnolo hanno una cosa in comune. Per Brugnolo come per Piperno, il Proust irrinunciabile non è il mistico caro a Cristina Campo e a Luigi Magnani, e nemmeno il grande innovatore della tecnica romanzesca studiato da Genette; è l’esploratore instancabile, incorruttibile delle nostre ambiguità morali e dei più sfuggenti segreti della nostra vita interiore. 

È colui che ci mette di fronte al fatto che, come scrive Piperno, “siamo tutti madame Verdurin”. Proprio come madame Verdurin, anche noi assaporiamo simultaneamente il croissant della colazione e le più tragiche notizie di stragi e catastrofi provvidenzialmente lontane. Oppure come Swann – è Brugnolo questa volta a ricordarcelo – siamo pronti a scivolare inavvertitamente dall’adesione a una giusta causa alla parzialità del fanatismo.

Torna in primo piano, in questi due libri recenti, il Proust psicologo caro ai lettori degli anni Venti del secolo scorso, un po’ trascurato in seguito dagli specialisti concentrati sulla dimensione strutturale dell’opera o affaccendati a ricostruirne la travagliatissima genesi. Euforico o disforico, è il Proust che ci rivela a noi stessi, in una luce spietata che investe anche i rapporti e i meccanismi della vita sociale. Era davvero tempo di riprenderlo in considerazione e di riflettere su quel che ci può insegnare sul mondo di oggi. 

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