Céline contro Proust

22 Ottobre 2022

Quando una decina di anni fa invitai Valerio Magrelli a parlare del proprio lavoro a University College a Londra, si presentò agli studenti parlando di due vite, una a fianco all’altra: il poeta e lo studioso. Anche in questo libro ci sono pochi punti di contatto tra i due mondi, quasi che la sua vita di francesista fosse stata vissuta da qualcun altro.

Nel libro che ha appena pubblicato con Einaudi su Proust e Céline, La mente e l’odio (pp.143, €15), non c’è traccia dell’urgenza lirica di Ora Serrata Retinae o della necessità biografica di Geologia di un padre; c’è qualcun altro che discute attraverso Céline dell’odio facendone dapprima una presentazione teorica piuttosto ampia (la misologia) e cercando poi di vederne una eventuale produttività letteraria. Ricordando la sua visita a UCL è interessante che Magrelli scelga, per articolare un discorso sull’odio, un percorso binario opponendo i due autori. Proust appare solido, meno incattivito, più a suo agio, Céline al contrario ci viene incontro in queste pagine risentito, malevolo, critico.

Si comincia con Céline: nazista, omofobo e antisemita, un ospite indesiderato che impegna Magrelli a indagare la genesi e lo sviluppo dell’odio. Odio in Céline scrittore, e quindi con una parte biografica e critica, e odio più in generale, quindi dal punto di vista morale e filosofico. Va aggiunta, per me suo lettore, anche se lui non ne parla, cos’è l’odio per Valerio Magrelli. C’erano tracce piuttosto dolorose di rancore anche in Geologia di un padre, ma il tono saggistico permette qui di muoversi in un ambito meno drammatico. L’ambito letterario è meno necessario, più distante. In parte accademico.

Magrelli spende parole generose sull’ambiente universitario. Opponendosi al transeunte di mercato e mode, il discorso accademico sposta l’attenzione su un’essenza misurabile, scientifica o storica, che è però altrettanto insidiata da fini più politici, necessari a sopravvivere nell’istituzione, specie in Italia, dove l’università è povera. Magrelli non ha scritto un libro accademico in senso stretto, ma il discorso letterario viene comunque filtrato dalle maniere della prosa universitaria e presentato al lettore con un dettagliato panorama sulla letteratura pertinente agli autori e, nonostante Magrelli dica di scrivere in apnea e di non volerlo fare, cerca di mostrarsi all’altezza di un dibattito in corso. Per i non francesisti, questo è ovviamente impercettibile. 

Ma è la parte filosofica che a me interessa di più, quella in cui tratta della misologia. Nel Protagora Platone spiega che il male non è altro che cadere vittime di se stessi. Quando dallo sguardo rivolto al mondo e all’altro ci lasciamo risucchiare al nostro interno, invece di conoscere il mondo e la natura sprofondiamo in una galleria di specchi per cui sugli altri non proiettiamo altro che doppi. Questa è la radice dell’odio e in questo, non solo in Céline, esiste un contatto necessario e non occasionale con il fascismo.

Ognuno è quello che è e va bene così. Quando invece si rivendica la propria identità con i suoi corollari (famiglia tradizionale, anti-immigrazione, omofobia, misoginia, antisemitismo e via dicendo), quando cioè l’essere se stessi è contro l’altro, secondo i paradigmi piuttosto ripetitivi che nel novecento hanno fatto la storia delle diverse destre europee, è difficile non pensare che la lingua batta dove il dente duole. Che sia in buona sostanza proprio la consapevolezza della transitorietà di tutto ciò che descrive l’io (multiplo o quantomeno diverso a seconda delle età che attraversiamo, dei luoghi in cui viviamo, dei ruoli che ricopriamo e via dicendo) che porta a ricercare un’identità accusando l’altro di portarcela via. Il fascismo è il sintomo, la reazione di una fragilità morale e culturale che non può che proiettare sull’altro le proprie insicurezze. Questo in Céline come nei suoi riferimenti politici e biografici. Sì è omofobi perché si teme la propria sessualità, antisemiti perché si teme che il cristianesimo sia solo una millenaria apostasia, razzisti per coprire la colpa dello sfruttamento di ampie e sconosciute aree del mondo.

Chi abita la propria condizione come Proust, nonostante essere ebreo e omosessuale non fosse certo un biglietto da visita facile allora come oggi per entrare in società, alta o bassa che sia, non è segnato dall’odio, come scrive Magrelli opponendolo a Céline. Semplicemente è, nei drammi delle proprie circostanze ma senza chiedere vittimisticamente al lettore di assolverlo. Il je ritrae la società che ha attorno in dettagli che rendono la sua lettura ancora oggi una bellissima guida alle illusioni che ci facciamo sull’ascesa sociale.

Tutti aspiriamo a qualcosa di meglio, che sia benessere economico, prestigio sociale, culturale, o semplicemente l’ammirazione di altri, tanti o pochi che siano. Proust mostra attraverso il proprio protagonista che non è in alto che si trova il superamento del senso di inadeguatezza; questo avviene (se avviene) quando si incontra la propria mortalità. Il finale di Guermantes II, quando Swann rivela il proprio cancro alla contessa che cerca le scarpe rosse, o quando Ludovico diviene Fra Cristoforo nei Promessi Sposi. Lasciare i valori sociali per trovare una radicalizzazione personale, il proprio andare dalla nascita alla morte.

Se dunque l’odio è un riflesso, cosa c’è dall’altra parte? In Dante il mondo è qualcosa da conoscere non tanto socialmente, ma perché conoscerlo equivale ad amarlo, perché l’amore è l’essenza del mondo. Questo è anche nella tradizione ebraica dove amare e conoscere sono la stessa parola. Sentire l’attrazione degli altri, degli amici e degli amori, vedere la bellezza delle piante, degli animali, della scienza e della letteratura, innamorarsi del reale.

Conoscere è amare e coltivare questo amore. Per questo essere prigionieri di se stessi è la figura simmetrica e porta all’odio, perché nascondendoci dall’amore per l’altro che è l’essenza del mondo e la sua verità cadiamo al nostro interno. Veniamo sopraffatti dalla nostra ombra. Gli altri divengono figure di confronto su cui proiettare le inadeguatezze di cui siamo consapevoli. Leopardi dice che non ci si può lamentare di nulla con nessuno senza che questi inizi a lamentarsi dei propri guai. Proust parla dei difetti che ci hanno lasciato e di come li riconosciamo negli altri. 

A questa opposizione morale (ma che in realtà non è un’opposizione, il male essendo appunto solo un riflesso che si dissolve quando noi ci rivolgiamo al bene, cioè all’altro e al mondo), Magrelli sostituisce una discussione sullo stile. La parola stile, che discende dallo strumento utilizzato per scrivere, è meno metafisica e quindi più facilmente maneggiabile, soprattutto in ambiti didattici, ma non è secondo me sufficiente a contenere le possibili articolazioni di ciò che oppone davvero Céline a Proust. 

C’è comunque un cortocircuito piuttosto interessante tra la generazione di Proust, che è contemporaneo delle prime avanguardie, e Céline, molto più isolato. Per Céline l’antagonismo alla lingua della borghesia (il Prout-Proust, cioè il Proust-scoreggia di Bagatelle per un massacro) spinge a una battaglia piuttosto solitaria in cerca della materialità linguistica che è poi l’utopia dell’Argot. 

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Uno dei tanti piaceri nella lettura di Proust è il dialogo che intrattiene con i contemporanei e le questioni che ha discusso da spettatore di teatro, mostre e concerti. Incontrare la musica di Stravinskij, Debussy, Frank e la pittura di Monet e tanti altri ci offre uno sguardo godibile e contemporaneo dell’effetto che fecero sul loro tempo. Swann è il veicolo perfetto per sfruttare l’attenzione del Proust che tanto ha visto e frequentato, uno sguardo attento a quello che gli avviene intorno. L’efficacia non è solo personale, si sentono in questi passaggi le domande che tutta la generazione si pose allora su cosa fosse l’arte e su come esprimersi all’altezza delle cose che si capiscono del proprio tempo. Il moderno emerge dal passato come quello che ci piace e continua a piacerci perché affronta il proprio tempo con freschezza e senza avere già determinato quali risposte si vogliono dare. 

La discussione, cui Magrelli accenna, che impegna Céline su cosa sia l’argot, è infinita ma anche più avara. Proust è avvertito, colto, curioso, Céline, oltre che per le vicende biografiche, è caratterialmente chiuso. Magrelli parla dell’essere in metrò come uno dei passaggi concettuali di Céline, ma il vero nodo che resta irrisolto è la ricerca nella lingua di qualcosa di popolare, materiale, da opporre alla filosofia, la fisica contro la metafisica, la concretezza contro lo spirito e via dicendo. C’è un presupposto che è anche un pregiudizio sociale che confonde feticismo e materialismo. 

Non ci si può sottrarre alla natura simbolica del linguaggio; illudersi di chiudere in una qualunque parola il suo significato (che come diceva Flaubert è una scemenza, La bêtise consiste à vouloir conclure) è la famosa cattiva infinità. Per sua natura la poesia e qualunque scrittura, resta animata da un’essenza ideale, astratta. Anche in Céline, più dalla coazione e dalla ricerca che non da quello che trova nell’argot. 

Anche qui a me pare più chiaro, e più caro a Magrelli, Proust. Contrappongo due episodi della Recherche dove si capisce cosa sia in gioco. In alcune pagine indimenticabile Proust parla dei nomi propri, di come cioè tutto quello che conosciamo di qualcuno alla fine calza perfettamente nel nome che ha. C’è naturalmente qui anche l’influsso della tradizione cabalistica ebraica. Il secondo episodio è nell’albergo di Balbec: il lift dice a Marcel che è venuta a cercarlo la marchesa di Camembert e, anche dopo essere stato corretto (la marchesa è di Cambremer) insiste nel suo errore.

Camembert per Cambremer. Quindi da una parte i nomi sono quasi interni a cose e persone, sono il loro destino; dall’altro, per una varietà di ragioni, la lingua sbaglia, è strumento inadeguato di una comunicazione sociale da cui è difficile scioglierla. Questo è il vero lavoro del narratore, ritrovare i veri nomi delle cose. Per Céline bisogna cercare nel popolare contro l’aristocratico, in sostanza nella società; Proust, come abbiamo visto, è meno schematico. 

Per entrambi comunque la ricerca nella lingua è lo stile. Ma la lingua è più di uno stile. Non emerge dal nulla e neppure dall’esperienza, è ovunque, tratta di salami e Dei spesso con le stesse parole, a volte è insufficiente, vaga, altre è semplicemente esatta, adatta a quel che si deve dire. Non è con un diploma in buon usatore della lingua (la professione di narratore) che ci si può sottrarre a queste difficoltà che al contrario si ripropongono in tutto quel che si scrive, sempre.

Questo fa parte di una polemica con la professione di scrittore che accompagna tutta l’epoca borghese, dall’invettiva di Leopardi contro chi empie le pagine di fetido orgoglio, alla rivendicazione del ruolo di chimico in Primo Levi e in fondo anche in quanto si scrisse negli anni ’70 piuttosto in polemica con alcune posizioni neoclassicheggianti del gruppo ’63. 

La lingua e lo stile sono campi di battaglia, non soluzioni a problemi infiniti o diplomi dati da qualche scuola, dal mercato o dalla critica. Un buon libro entra sempre di sbieco, storto nelle tradizioni letterarie o rifà il mondo da capo. E ogni libro è un buon libro quando è genuinamente animato da questi problemi e non si ritira nelle maniere e nel già detto. Non esistono parole più belle di altre, o più concrete. Tutto si è affermato per qualche ragione e l’opporre un francese alto, proustiano, a uno popolare céliniano è facile, ma superficiale.

Per entrambi è impossibile porre dei veri confini, proprio perché la lingua è tutta metaforica, non è mai le cose. Ed è mobile. Lutto, innamoramento, ambizione, delusione e via dicendo possono posarsi su questo o quel termine o frase, ma sempre in modo transitorio. Sono destinati a riproporre subito il proprio inquieto girovagare che nella forma non può fermarsi. Una poesia o un romanzo non sono pillole per capire cosa sia l’amore o per lenire il lutto, sono se mai quel che rinnova l’inquietudine, l’impossibilità della forma.

Non so se sia grazie alla consapevolezza o all’inconsapevolezza, ma in Proust i contrasti tra avanguardia e naturalismo sono felici. La lingua è sempre in una tensione innovativa di fronte al materiale che non ha ancora espressione e grazie a un grande sapere letterario riesce a non farsi ammutolire né a rifugiarsi nella maniera. Proust lo descrive bene sia all’interno della Recherche che in altri scritti: le influenze di altri autori che si rivelano in pastiches e imitazioni, come bene illustra anche Magrelli, non devono impensierirci perché la voce dell’altro si disperde col tempo e lascia la nostra, arricchita.

Quindi sia nelle parti in cui inventa del nuovo (l’architettura dell’opera, la partizione in capitoli e volumi, la sintassi) che in quelle ispirate o rivolte a influenze remote, si ha sempre un senso di qualcosa di giusto, che non poteva essere detto meglio, come osserva Virginia Wolf in una celebre lettera in cui lo paragona, per contrasto, al sentirsi messa in croce quando legge invece Joyce. 

Certo, ci sono demoni anche in Proust, ma come ho detto all’inizio, nel libro di Magrelli Proust diviene l’ancora di quello che la letteratura custodisce per noi. A me pare sia vicino al Magrelli poeta.

In Céline questo senso di perfetta adeguatezza non c’è. C’è al contrario una ricerca esasperata, un volersi strapparsi di dosso una lingua che sente compromessa irrimediabilmente con la borghesia e dove ogni indulgenza viene punita con il fatuo, la flatulenza, il nulla. Battendosi contro questi fantasmi non ci restituisce altro che scarnificazione, rigetto, fatica. E qui mi pare Magrelli metta in scena l’aspetto critico del suo lavoro.

Oggi abbiamo altre ossessioni. Proust è più lontano cronologicamente, eppure più vicino stilisticamente di Céline. Ma questo poco conta. Nel suo procedere agile tra i due autori e i due lati della sponda, Magrelli fa scorrere un materiale che è inevitabilmente unico, drammatico, aperto e conflittuale.

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