Speciale

II / Quattro domande sul desiderio

La pandemia scatenata dal coronavirus ha modificato, e probabilmente modificherà ancora anche a breve scadenza, i comportamenti che riguardano i corpi e le relazioni fisiche tra gli esseri umani. Ti chiediamo di rispondere ad alcune domande per capire in che modo a tuo parere potrà cambiare tutto questo.

 

Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista

 

1. Il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, così che la paura ha preso il sopravvento: possiamo essere gli untori dei nostri partner, genitori, amici. Desiderio e paura si escludono o possono coesistere e con quali conseguenze? Cosa determinerà – in una fase di coesistenza con il virus – l’impossibilità di riprendere la dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, in particolare quelle con gli anziani?

 

Il rapporto con il corpo, mio e dell’altro, è stato al centro dei miei pensieri della quarantena. Il corpo esposto al contagio e il corpo sottratto al contatto. «Nessun uomo è un’isola», diceva John Donne, ma io mi sono sentito isolato, privato di quell’affective touch (esperienza sensoriale del tatto che contribuisce alla formazione e al mantenimento del legame sociale e affettivo, quel tocco che conosciamo fin dai primi giorni di vita e modella il nostro cervello sociale) che, ironia della sorte, è uno dei temi della mia ricerca accademica. Mi sono sentito staccato dalla terra madre, con nuovi confini da apprendere e proteggere, galleggiante in geografie personali e politiche d’un tratto rischiose. Soprattutto privato dell’onda degli abbracci, quelli attesi e ancor più gli inattesi. Siamo diventati isole con antenne di paura, pronte a captare il pericolo dell’altro, ciascuna a suo modo prodotta da un’incrinatura traumatica. Ogni giorno qualche resa dei conti: la mascherina protettiva vs il «volto a volto» (Lévinas) che mi ha sempre guidato; il sospetto per l’estraneo vs l’adesione a ogni politica di accoglienza; l’evitamento sociale vs la svolta relazionale che ha ispirato la mia pratica analitica; il distacco interpersonale vs la teoria dell’attaccamento su cui ho costruito i miei modelli clinici. Ricordo con disagio le ultime sedute d’analisi prima di chiudere lo studio, un dispenser di amuchina nella sala d’aspetto. I primi giorni della quarantena, recluso ma mai così attento al mondo e consapevole del valore psichico della finestra [«A tutto aggiungi, finestra,/il senso dei nostri riti:/chi si trova davanti a te per caso/nel tuo riquadro attende meditando» (Rilke)], hanno lasciato spazio a un pensiero nuovo: lontani non per rigetto ma per reciproca cura. Non è così in ogni relazione? La richiesta del passo indietro è scritta nel riconoscimento reciproco, l’amore è fatto di baci e distanze, il cuore stringe nella sistole e apre nella diastole. Una volta pulita dalla paura, ogni distanza nutre il desiderio. Un amico mi ha raccontato che la parola “reciproco” viene da recus e procus: andare indietro, andare avanti. Reciprocità è anche imparare a guardare l’altro da lontano, rivolgergli un’attenzione separata, creargli uno spazio interiore, ritirarsi a favore del prossimo incontro. Mai avremmo pensato di sperimentare su vasta scala di tempo e di spazio il movimento intimo e quotidiano che rende viva ogni relazione. Impareremo a trasformare l’allarme in reciproca cura del legame? Resisteremo all’incanto solitario della nostra pelle rifugio? Rinunceremo alle comodità dello schermo e torneremo all’avventura del corpo? Certo che mi mancano gli abbracci. Ma nel desiderarli li rinnovo. 

 

2. Come credi che si sia strutturato e come agisca il desiderio, motore della nostra vita quotidiana, in questa situazione di distanziamento sociale o di prossimità forzata. Aumenta o riduce il desiderio dell’altro? 

 

Non mi piace la formula “distanziamento sociale”, preferisco parlare di “distanza fisica”. Rende in modo più schietto la regola da apprendere e mette al centro del discorso il corpo fisico e non le relazioni sociali. Se non sbaglio physical distance è anche l’espressione alla fine scelta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dentro questa distanza c’è un corpo da inventare, capace di stare tra il dovere della sottrazione e il piacere del contatto (anche se la sottrazione può essere un piacere e il contatto una forzatura, una dipendenza o una compulsione). Inoltre, come in tutte le occasioni in cui temiamo una malattia, siamo sospettosi anche del nostro corpo. Ascoltiamo la sua tosse, il respiro, la temperatura. Nelle prime settimane di pandemia molti, me compreso, ascoltavano i propri sintomi, li amplificavano, si sentivano malati. Con un corpo così spaventato è difficile desiderare. Altrettanto difficile avvicinarsi al corpo dell’altro con la preoccupazione di contagiare o essere contagiato. Nella sospensione dei corpi dobbiamo ricordare che oltre a quella travolgente del bacio, l’altra figura cruciale del desiderio è la distanza. «Sopprimere la lontananza uccide. Non di altro gli dei muoiono che dello stare in mezzo a noi» (Char). Come in un quadro di Magritte la mascherina sancisce l’impossibilità del bacio, ma al tempo stesso ci invita a pensare, come diceva il pittore belga, che «un oggetto può implicare che vi sono altri oggetti dietro di esso». In modo traumatico abbiamo riscoperto il ritmo io-tu della presenza-assenza. 

 

3. Cosa è cambiato e cosa cambierà nei comportamenti intimi delle persone, nella sessualità? È accaduto qualcosa che possiamo paragonare all’avvento dell’AIDS in questa sfera individuale?

 

Quando all’inizio di marzo ho iniziato a domandarmi cosa significa vivere considerando l’altro una potenziale forma di contagio, ho subito pensato a un’altra stagione epidemica e tremenda che ho vissuto. Erano gli inizi degli anni Ottanta, anche in quel caso ho visto morire amici e conoscenti per un virus di cui sapevamo poco o niente. Là morivano soprattutto i più giovani, qui soprattutto i più anziani. Entrambe le epidemie hanno messo in moto comportamenti preventivi, virtuosi e frustranti, da apprendere. Entrambe hanno acceso il fantasma sociale del “portatore sano”, dell’“asintomatico infetto”. La grande differenza è che l’HIV era (è) una malattia del sangue e del sesso, mentre il Covid-19 è una malattia del respiro e della socialità. L’HIV sembrava investire una minoranza che portava uno stigma (col tempo i confini delle popolazioni cosiddette a rischio si sono estesi). Il Covid-19 ha investito una maggioranza planetaria (il tentativo di creare il capro espiatorio cinese c’è stato, ma ha avuto poca presa nell’immaginario collettivo) e creato immediate catene di solidarietà. HIV era il virus di pochi “abietti” e “promiscui". Covid-19 è il virus di tutti, dei lavoratori e dei nonni. Diversi tra loro, HIV e Covid-19 sono due eventi biopolitici che insegnano – dopo che abbiamo letto Sontag e abbiamo visto 120 battiti al minuto di Robin Campillo – molte cose sull’impatto che una diagnosi ha sul corpo e le sessualità, sulla politica e le culture. L’esistenza di virus pericolosi ad alta diffusione non può che promuovere contatti diffidenti, sessuali o sociali che siano. Potrebbe essere questo, dopo tanti morti, il lutto silenzioso che più a lungo abiterà in noi cercando di cambiarci. In attesa di un vaccino, o di altre ondate virali, dovremo imparare la cautela del corpo. Vegliando (in noi e negli altri) sulle negazioni controfobiche, il più delle volte infantili ma talvolta psicopatiche.

 

4. Anche i corpi fino ad oggi sono stati sottoposti all’ideale della performatività, questa situazione potrà far emergere una differenza in questo senso? 

 

Dopo anni di corpo performante, trionfante, muscolare, estetico-chirurgico, siamo stati costretti a guardare, tutti insieme, il corpo fragile. Se non ci fosse dietro una tragedia, mi verrebbe da dire finalmente. I corpi fragili degli amici più anziani e quelli vulnerabili dei già malati; i corpi inquieti degli ipocondriaci e quelli silenziosi delle clausure; i corpi sacrificati nelle abitazioni anguste e quelli dei morti senza funerale. E poi i corpi schermati e coraggiosi del personale sanitario, che molti chiamano eroi perché così sentono meno la loro fatica, il loro corpo fragile di guaritori feriti. Siamo stati costretti a riposizionare il nostro corpo anagrafico, a fare i conti con un corpo fragile improvvisamente mediatico ma fino a ieri ignorato e ingannato. Abbiamo conosciuto un corpo fatto di tutti i corpi e al tempo stesso irripetibilmente individuale: il corpo della convivenza, numeri statistici inseparabili dalla loro singolarità. Il corpo della malattia, inseparabile da quello del malato. 

 

Chiara Mirabelli, analista biografica a orientamento filosofico

 

1. Il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, così che la paura ha preso il sopravvento: possiamo essere gli untori dei nostri partner, genitori, amici. Desiderio e paura si escludono o possono coesistere e con quali conseguenze? Cosa determinerà – in una fase di coesistenza con il virus – l’impossibilità di riprendere la dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, in particolare quelle con gli anziani?

 

Del corpo è difficile per me dire in astratto. Quando intendo corpo intendo storia, biografia, complessità incarnate. La pandemia globale generata dal Covid-19 ci accomuna, ma molto dipende dai contesti (interni ed esterni) in cui la si vive. Questi incidono non poco sulla relazione con i corpi degli altri, con il corpo del mondo, con il proprio corpo. Di quale corpo parliamo? Non sono certa che il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore siano oggi aboliti, e che la paura abbia preso il sopravvento. Dipende. C’è un crogiolo di emozioni e sentimenti che si muovono e che vanno ad agire sul desiderio. Stanchezza, fatica, tristezza, nostalgia, speranza e così via. La paura è solo uno degli stati che si accendono.

In questo tempo ho ascoltato storie di sollievo e piacere per la possibilità di stare di più con sé, storie di dolorosa solitudine e speranza che si torni presto “alla normalità”, insieme alle preoccupazioni per il futuro. Storie di ritrovata intimità o di separazione. Storie di rabbia o di compassione. A partire dal corpo, che tutto questo lo sente per primo. Le storie sono innumerevoli, ognuno di noi ne ha ormai diverse da raccontare, e da farsi raccontare. Il corpo, in tutto questo, diventa più presente nella nostra consapevolezza. Le misure di distanza ce la impongono e, in diversi casi, questo si traduce in una crescita della disponibilità di ascolto del proprio corpo e del corpo degli altri, con tutte le emozioni connesse. 

Desiderio e paura coesistono. Tensione di apertura e tensione di chiusura. Paura come evitamento e paura come rispetto. Ci si potrebbe chiedere se – a livello individuale e di relazioni – all’aumento delle paure possa corrispondere dunque oggi un aumento del desiderio, accentuato dalla minore raggiungibilità del mondo “fuori casa”. Tra molto che inevitabilmente incide sulle nostre vite, e per alcuni in modo drammatico, questa può essere l’occasione per esplorare le forme del nostro desiderio, di interrogarci sulle possibilità di esso, sui suoi limiti, sul suo essere vitale o mortifero. Il desiderio assume le sue forme mutevoli, ne conosce altre, e oggi ancor più potrebbe farsi viva una possibilità da esplorare: la trascendenza nel “desiderio di desiderio”, al di là del suo oggetto, così come l’ha indicata Romano Màdera nel suo La carta del senso (Raffaello Cortina 2012). 

 

Opera di Wolfgang Tillmans.


Anche prima del Covid-19, come vivevamo la quotidiana dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, ad esempio quelle con gli anziani? Come toccavamo, accarezzavamo, abbracciavamo? Le questioni intorno alla relazione con i corpi degli altri non riguardano solo l’ora, anche se la situazione attuale le ha acuite. Qual è la relazione che abbiamo avuto e avremo con i corpi dei bambini, a partire dai propri figli ma non solo, con le misure di distanza e vicinanza che ogni tipologia relazionale comporta, o che ci imponiamo? Con i corpi delle donne, con chi ha un colore della pelle diverso dal nostro, con i disabili, gli ammalati, con ogni “tipologia” sociale che incontriamo, con ogni individuo che incarna una soggettività che è sempre oltre le categorie? La relazione con i corpi è relazione con i soggetti altri. Questo oltre e ben prima del vedersi a distanza superiore a un metro che ora ci viene raccomandata, o tramite gli schermi oggi necessariamente inevitabili. Tutto riguarda molto da vicino la relazione con il “corpoanima” che siamo, la relazione che abbiamo con noi stessi, e che oggi, simbolicamente e concretamente, viene messa alla prova con nuove domande, modulazioni di quelle di sempre. 

 

2. Come credi che si sia strutturato e come agisca il desiderio, motore della nostra vita quotidiana, in questa situazione di distanziamento sociale o di prossimità forzata. Aumenta o riduce il desiderio dell’altro?

 

Ci sarebbe da chiedersi se il desiderio si struttura, come se fosse qualcosa di meccanico, o se non è invece sempre in profondo movimento in noi, come la vita stessa. È molto presto, e gli studi sono ancora inevitabilmente pochi nei diversi campi, perché ci sia possibilità di fare ipotesi seppure incerte su che cosa accadrà alle possibiltà e impossibilità che si offriranno e che offriremo al desiderio. In questo periodo possiamo muoverci meno con il corpo, ma il movimento degli stati psichici si è ampliato. Quello che sento accadere è un’accelerazione dei mutamenti emotivi nell’arco di una sola giornata, e questo incide in modo variabile nelle dinamiche di coppia, famigliari, nel rapporto con il corpo dell’altro, accendendo il desiderio, spegnendolo, modulandolo variamente.

Il valore della presenza-assenza, della vicinanza-lontananza – che caratterizzano il movimento (anche quello desiderante) di ogni relazione –, non è più ignorabile, ci è data l’occasione che si offra alla nostra consapevolezza. Gli orizzonti della malattia e della morte, del dolore e della finitudine, che tutti indistintamente sempre ci accomunano, ma di cui umanamente ci “dimentichiamo” quando non ne siamo coinvolti, sono chiamati all’appello. E la morte chiama alla vita, tra difese, superficialità, rimozioni, irresponsabilità, timori, dubbi. Si tratta, a proposito di corpo non solo come metafora, di un pelle a pelle con le grandi questioni della responsabilità e della libertà, e con le loro ombre. 

Di desiderio di libertà e limiti, confini, contenimenti, costrizioni, trasgressioni sono sempre intrise la convivenza sociale e le forme che ai desideri diamo. In modo potente entrano in gioco le domande che riguardano la relazione tra la propria identità e quella altrui, l’altro con la “minuscola”, e la relazione con l’Altro, che comprende in sé tutte le figure dell’alterità: compenetrazioni, opposizioni, conflitti, complementarietà, separazioni, continuità che i corpi per primi, muovendoci nella vita e tra le altre vite, pongono in luce. 

 

3. Cosa è cambiato e cosa cambierà nei comportamenti intimi delle persone, nella sessualità? È accaduto qualcosa che possiamo paragonare all’avvento dell’AIDS in questa sfera individuale?

 

Non credo che quello che sta generando il Covid-19 sia semplicemente paragonabile all’avvento dell’AIDS. Le loro modalità di diffusione (e relative conseguenze) sono diverse. Però... Il film Philadelphia, del 1993, racconta dei rapporti di progressivo avvicinamento psichico e corporeo di un avvocato nero in difesa di un avvocato bianco omosessuale con l’AIDS: due minoranze che si fanno doloranti portavoce nella rivendicazione dei diritti umani, dell’amore e delle sue libere forme, contro un gruppo di maschi bianchi, ricchi ed eterossessuali al potere. Un film sul tema della giustizia, e direi un buon esempio della trascendenza verso l’altro e l’Altro, che ci riguarda tutti. Philadelphia riguarda l’intolleranza e la repulsione (con tutte le dinamiche proiettive e di Ombra) che lungo i secoli una certa “maggioranza” di potere ha gettato addosso agli “altri”. 

Con il Covid-19 non c’è una maggioranza di potere che possa ritenersi non contagiabile. È pure vero che si sono messe in atto dinamiche – a livello mondiale – molto simili verso la “nuova malattia pandemica”, come la colpevolizzazione degli untori, Stati o individui che siano. O come gravissime esternazioni che avevano come sottotesto questo: pazienza per gli anziani, i malati, le persone con patologie più a rischio, le fasce sociali che hanno cure sanitarie meno efficienti, tutti i “meno produttivi e desiderabili” secondo uno sguardo cinico sull’umano. C’è sempre un ampio raggio di azioni e simboli mortiferi che incidono sui corpi di ognuno di noi, e sulle nostre relazioni, da quelle più intime e cercate a quelle più distanti e casuali. Una complessità di fattori (inclusi quelli economici e di potere, compreso quello di chi preferisce il “non mi riguarda”) incide sui movimenti del nostro desiderio pubblico e privato, sul nostro vivere la sessualità. 

Questa pandemia non passa primariamente attraverso i rapporti sessuali, o comportamenti che in modo ipocrita si ritiene non ci riguardino, ma attraverso lo stesso respiro che – in ogni istante – è necessario a ognuno per stare in vita: l’aria collettiva e condivisa. Con il massacro che abbiamo destinato al nostro pianeta, questo respiro era già da molto tempo messo alla prova, e sempre più a rischio: per noi esseri umani, e per ogni altra presenza sulla Terra. Abbiamo bisogno di cure mediche e di altre forme di cura, e avremmo bisogno di prenderci cura del panorama concreto e simbolico che ci attraversa, del senso a cui tendere nel sentirci in connessione (non solo virtuale) con le vite con cui conviviamo e con quelle che proseguiranno oltre noi. La sessualità è inclusa in tutto questo, e ritorniamo così alle considerazioni sulla nostra capacità e possibilità di relazione con l’altro e l’Altro, compreso questo straniero che incarniamo, con i suoi misteri, le sue trasformazioni nel tempo, le sue imprevedibilità, e che dobbiamo imparare a rispettare, e amare: cioè il corpo, innanzitutto il nostro, insieme al corpo del mondo. 

 

4. Anche i corpi fino ad oggi sono stati sottoposti all’ideale della performatività, questa situazione potrà far emergere una differenza in questo senso?

 

Che cosa intendiamo per performatività del corpo? In quale corpo vivente siamo dentro? Cura di sé, attenzione all’alimentazione, tempo per il movimento fisico ecc. valgono adesso come valevano prima, e come varranno poi: non garantiscono il prolungamento della vita, non garantiscono nulla, ma sono una via per sentirsi meglio nel qui e ora, e forse domani. Lo stato attuale delle cose incentiva ad ascoltare di più il proprio corpo, il proprio stare nella vita, i limiti e le possibilità nelle relazioni tra i corpi: tutto questo potrebbe generare nel tempo anche un modo più rispettoso e insieme desiderante nelle relazioni con altri esseri umani e con il pianeta. Ma, per suscitare un desiderio più responsabile, ci basterà ad esempio come monito avere visto in questi mesi la natura fare il suo corso, sentire – ammirati e commossi, attraverso le finestre delle nostre case, gli occhi che emergono dalle mascherine, le immagini che ci giungono sugli schermi – il corpo del mondo che vive oltre noi, anzi nonostante noi, e meglio senza la nostra arrogante pervasività? Basterà questo a generare comportamenti meno distruttivi, nei gesti di ognuno di noi, ogni giorno? 

Il limite dato alla durata del tempo della nostra vita – la morte – oggi si impone come orizzonte vicino e possibile, nessuno ne è “immune”, ma nessuno lo è mai. Come il tempo che ci è dato di vivere, il corpo ci resta in gran parte ignoto: questo piccolo aggregato di energia e materia palpabile è sconfinato, indomabile, terrificante e sorprendente tanto quanto l’inconscio impalpabile. Potremmo cogliere questa come un’occasione, nella sua drammaticità: un paesaggio e un passaggio di possibile trasformazione nella relazione tra i corpi di coloro che abitano il mondo, a partire dalla relazione con il nostro di corpo, che non si spiega ma si vive, come nella poesia Istruzioni per abbracciarsi di Chandra Livia Candiani: lentamente, con il “disarmo delle ali”, “nello spazio di carità tra te e l’altro”.

 

Barbara Massimilla, psicoanalista

 

1. Il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, così che la paura ha preso il sopravvento: possiamo essere gli untori dei nostri partner, genitori, amici. Desiderio e paura si escludono o possono coesistere e con quali conseguenze? Cosa determinerà – in una fase di coesistenza con il virus – l’impossibilità di riprendere la dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, in particolare quelle con gli anziani?

 

Vorrei fare una premessa sulla trasformazione dei comportamenti affettivi che tutti stiamo vivendo nelle nostre società a causa del Covid-19. Forse si sta profilando una mutazione permanente che condizionerà i nostri modi di fare, tanto da costituire e rifondare una nuova epistemologia delle relazioni. 

La dimensione corporea e il desiderio di prossimità nell’incontro con l’altro vanno visti alla luce di diverse variabili. Una di queste è la matrice culturale di appartenenza, come gli studi sul linguaggio del corpo e sulla comunicazione umana, hanno evidenziato (Margaret Mead, Gregory Bateson).

Da circa dieci anni ho avuto modo di seguire in psicoterapia persone di altri paesi, e approfondire attraverso queste relazioni terapeutiche il campo dell’etnopsicologia e dell’antropologia culturale. Un osservatorio privilegiato all’interno della mia attività di psicologa analista junghiana, che mi ha permesso di scoprire quanto i fattori culturali incidano sempre sull’espressività corporea, sul nostro non verbale, sulla gestualità, sul modo di amare e sulla sessualità. Non in tutti i luoghi, l’affetto tra adulti, mi riferisco alla sfera dei parenti o degli amici, si manifesta attraverso il contatto fisico come baciare, abbracciare, accarezzare, sfiorare. Diversamente per la nostra cultura mediterranea, o latina in generale, il non potersi scambiare palesemente segni d’affetto rappresenterebbe una perdita che va oltre la mancanza del gesto in sé. Si conferisce a queste manifestazioni un valore specifico, esse rappresentano l’esplicitazione visibile della natura e della qualità affettiva stessa del legame. All’esprimersi manifesto del toccare l’altro fisicamente si associa la funzione di veicolo del nostro amore profondo. Come se l’assenza o la diminuzione di tali gesti verso parenti o amici potessero incrinare una rappresentazione positiva condivisa dell’universo affettivo.

Un capitolo a parte nel panorama delle culture e dell’espressione dell’affettività, occupa sia la relazione madre-bambino in particolare nelle prime fasi di vita, sia il rapporto d’amore tra partner: la tenerezza e la cura caratterizzano il primo, la passione sessuale e il rispetto reciproco, il secondo. In questi due ambiti i linguaggi dei corpi sono più universali e simili nelle diverse culture, anche se ritualità, tradizioni e usanze possono rendere uniche e particolari le diverse grammatiche affettive tra genitore e figlio. Ad esempio in ogni epoca durante l’infanzia le differenze di genere rivelano percorsi affettivi e educativi differenti. E alcune volte hanno una connotazione discriminatoria. Per esempio nell’antica Cina la nascita di una bambina era considerata un cattivo investimento economico ed emozionale, pertanto la piccola era cullata sul pavimento, deprivata del calore del corpo materno, e come giocattolo si regalava una navetta per tessere. Mentre il bambino era cullato premurosamente tra le braccia della madre e a lui si donava come simbolo di buon augurio uno scettro di giada (Shirley See Yan Ma, Con i piedi fasciati. Uno sguardo junghiano sulla cultura e la psicologia cinese, Moretti e Vitali, 2015, p. 87). Un aspetto ombra sulle differenze di genere che ancora oggi in Cina fin dalla culla confina il ruolo femminile a posizioni subordinate. 

Resto sempre impressionata parlando con le donne africane dai racconti della loro prima infanzia, ricordano di essere state accolte dalla comunità e da molteplici figure materne, oltre la propria madre biologica, dalle co-madri. Il bambino non appartiene alle madri ma alla collettività. Il contatto privilegiato è quello simbiotico della stimolazione cinestesica, le madri portano i piccoli sulle proprie spalle, come se fossero un prolungamento dei loro corpi. La possibilità di sperimentare, da parte dei piccoli, la vicinanza fisica di tante figure femminili rende i bambini africani particolarmente socievoli e fiduciosi nell’abbandonarsi all’abbraccio. Le mamme africane parlano poco al neonato, l’interazione visiva è evitata, anche per proteggerli da malelingue e malocchio, pertanto il calore trasmesso attraverso la pelle è importante.

Questa premessa per dire che la mancanza del gesto che esprime esplicitamente l’affetto può essere vissuto con sofferenza maggiore in determinati luoghi piuttosto che in altri, i quali da un punto di vista storico-antropologico hanno adottato forme e linguaggi diversi. 

Le modalità di contatto risentono dunque delle molteplici geografie culturali. 

 

Opera di Wolfgang Tillmans.


Bisognerebbe fare un viaggio nel mondo delle rappresentazioni degli affetti per dare voce alle dinamiche che presiedono alla loro trasmissione o alla loro trasformazione nel tempo. Le migrazioni, un tema così centrale nella contemporaneità, ci portano a riconoscere ciò che resta invariato di una cultura delle origini e in che modo società tradizionali si intreccino con nuovi modelli rappresentazionali.

Nella nostra cultura mediterranea l’impronta mitologica della Grande Madre ha molto influenzato la forma delle relazioni affettive, la participation mystique che stimola quella vicinanza fisica tra esseri, l’importanza di condividere, mangiare allo stesso tavolo, parlare, confrontarsi e toccarsi con sentimento. Fare Anima nello stare insieme. “L’Anima, fedele alla propria natura femminile, tende, indipendentemente dall’Io maschile che vorrebbe mantenere la distanza, a instaurare un rapporto di identità a tonalità emotiva e corrispondente al rapporto originario” (Erich Neumann, La psicologia del femminile, Astrolabio, 1975, pag. 39). L’archetipo della Grande Madre nella mitologia ha più volti: Afrodite, Hera, Demetra ne rappresentano differenti aspetti. Afrodite è la bellezza, la seduzione, il desiderio e l’ebbrezza sessuale, la fertilità. Credo che il saggio di Neumann sulla favola Amore e Psiche di Apuleio possa essere utile a interpretare questo difficile momento storico che stiamo passando, e rispecchiare il passaggio verso una nuova dimensione dell’Amore che stiamo vivendo nel tempo di questa pandemia.

“Il doloroso cammino attraverso il quale Psiche passa dalla condizione di ‘amante notturna’ avvolta dall’oscurità a quella di partner femminile del dio Eros divenuta cosciente di se stessa, è strettamente legato a uno sviluppo epocale del femminile e dell’umanità in generale. Psiche incarna di fronte ad Afrodite, dalla quale viene perseguitata, un nuovo tipo di amante. Con Psiche nasce un nuovo principio d’amore in cui l’incontro tra maschile e femminile diventa il fondamento dell’individuazione. Con l’azione di Psiche fanno la comparsa nel mondo dolore, colpa e solitudine, le sofferenze legate all’individuazione”. “Psiche dissolve la participation mystique con il suo partner e fa precipitare se stessa ed Eros nel destino di separazione rappresentato dall’irrompere della coscienza. L’amore come espressione della totalità femminile non è possibile nell’oscurità, soltanto come processo inconscio; il vero incontro con un’altra persona include la presenza della coscienza, e con ciò però anche l’aspetto della sofferenza e della separazione” (Erich Neumann, Amore e Psiche, Astrolabio, 1989, pag. 64).

La metafora mitologica di Amore e Psiche può aiutarci a comprendere il valore di questo transito verso una forma diversa di Amore più consapevole, anche se più dolorosa, perché il nostro sacrificio di scambiarci segni di reciproco affetto e di amore, indirettamente connette le parti più inconsce della nostra affettività alla coscienza della ferita inferta al vivere collettivo. 

Una nuova epistemologia dei modi di amare potrebbe rifondarsi sul lavoro continuo di psiche nella ricerca di senso e per coltivare la speranza anche nel dolore e nel sacrificio, perché il distanziamento dall’altro apre altre inesauribili possibilità di contatto, e rimanda soltanto il momento dove un abbraccio potrà tornare a unire i corpi.

Questa metafora mitologica può offrire un punto di vista altro senza negare la situazione surreale che si è creata con il Covid-19 che ci ha costretto nell’arco di pochi giorni a modificare le nostre abitudini, la nostra libertà di movimento. L’orizzonte della quotidianità si è improvvisamente ristretto. Le certezze onnipotenti del mondo occidentale si sono sgretolate, il rischio di morire all’improvviso, che travolge da sempre i paesi sconvolti dalla povertà e dalle guerre si è diffuso anche qui. Nei sogni dei pazienti sono comparsi simboli di perdita, pericolo, deprivazione, prigionia, sradicamento. Sognare di smarrire il proprio passaporto è diventato una costante nei frammenti onirici di questo periodo, come di essere esposti a terremoti catastrofici o di essere rinchiusi in ampolle sospese nel vuoto su un paesaggio apocalittico. Un equilibrio si è spezzato e la mente ha bisogno di ritrovare nuovi riferimenti sia nel mondo esterno sia all’interno di sé.

Una profonda nostalgia dei corpi ci ha invaso. Le cure psicoanalitiche si sono interrotte negli studi professionali, le videochiamate hanno sostituito lo scambio intersoggettivo e d’anima che avviene nella stanza d’analisi. Eppure dall’immagine bidimensionale dello schermo di computer e cellulari è emerso un intenso bisogno d’intimità. Non posso dire che i percorsi di cura siano stati diversi nella sostanza da quanto si era costruito prima dell’esplosione della pandemia. È mancata la luce delle pupille, il colore, il movimento dei corpi nella loro interezza, la bellezza dell’esserci a un passo di distanza.

L’amore che si sperimenta in analisi è un fiume carsico che accompagna tutto il percorso fino alla fine della cura. Si nutre di presenza ma si astiene dal contatto fisico. È il luogo dove per eccellenza l’incontro tra Amore e Psiche assume la forma più simbolica. 

In analisi si scoprono altre forme per esprimere l’affettività, penso allo sguardo e alla parola. Una condizione che sperimentiamo di frequente in terapia ricorda in senso analogico l’intensità dello sguardo tra la madre e il neonato; quello della madre, fa da specchio al bambino, rimanda al piccolo la propria immagine riflessa negli occhi materni. La tenerezza, il calore, la capacità di accogliere, comprendere e metabolizzare le emozioni del bambino da parte dello sguardo materno, questi sono stati della mente della madre che stimolano lo sviluppo psico-fisico del bambino.

La parola che narra in analisi non ha solo la valenza di accompagnare l’altro verso la risignificazione della propria storia di vita. È pure sonorità, è parola poetica, veicolo di affetti, strumento per descrivere le immagini che abitano le fantasie e i sogni.

Per quanto riguarda gli anziani, la riflessione è in corso, stiamo prendendo atto che affidandoli alle case di riposo li avevamo abbandonati. Illudendoci che li abbracciassero altri da noi. 

Il distanziamento sociale comporterà la ricerca di altre forme di contatto che possono ugualmente veicolare l’affettività… in attesa di un ricongiungimento.

 

2. Come credi che si sia strutturato e come agisca il desiderio, motore della nostra vita quotidiana, in questa situazione di distanziamento sociale o di prossimità forzata. Aumenta o riduce il desiderio dell’altro? 

 

Percepisco alcuni pazienti bloccati dalla paura verso l’esterno, l’idea di non poter raggiungere l’altro è paradossalmente rassicurante, si sentono protetti all’interno delle mura domestiche poiché non vogliono correre il rischio di ammalarsi. Proclamano il senso di responsabilità e il rispetto delle regole. Questa paura del contagio si mescola a un vago sentimento di nostalgia verso luoghi, viaggi, musei, cinema. Ma non troppo… come se rispolverare con forza il desiderio di raggiungere questi oggetti esterni, in loro attivasse una frustrazione insostenibile. Il lockdown li ha rinchiusi in una posizione moderatamente regressiva, in un tempo rallentato. Un po’ sono rannicchiati in loro stessi, un po’ si dedicano ad attività casalinghe mai praticate prima. Ai film sostituiscono le serie televisive. In questa forma di ritiro dove tutto ciò che serve si trova all’interno dello spazio familiare, sembrerebbe che il desiderio dell’altro – sia vicino che lontano – vada in letargo. Dal momento che il motore del desiderio è la tensione energetica verso un qualcosa di irraggiungibile, che se può essere avvicinato lo è solo temporaneamente, in questa condizione di chiusura forzata mancherebbero i termini della polarità interno/esterno. Non esiste al momento il vettore, dentro noi stessi, che mosso dal desiderio si ricongiunge al mondo, poiché la realtà che viviamo è monocromatica. Questa linea vettoriale del desiderio si regge fondamentalmente sulla libertà di scegliere il nostro raggio d’azione per dirigerci verso ciò che ci attrae e amiamo vivere. 

Nello spazio di movimento così esiguo che impone il lockdown, muta in modo inatteso la condizione che vivono i pazienti gravi, coloro che da sempre non percepiscono l’energia vitale del desiderio. La loro malattia, messa in scacco da una realtà che inibisce e limita l’intera società, è come se fosse supportata da uno stato di coscienza più profondo e la propria sofferenza fosse ridimensionata di fronte alla ferita collettiva.  

 

3. Cosa è cambiato e cosa cambierà nei comportamenti intimi delle persone, nella sessualità? È accaduto qualcosa che possiamo paragonare all’avvento dell’AIDS in questa sfera individuale?

 

A oggi mi è difficile accostare l’AIDS al Covid-19 poiché nel primo caso non si muore più, anche se non esiste ancora un vaccino, le cure con gli antiretrovirali, possono consentire una vita normale a chi ha contratto la malattia. Per quanto riguarda l’esordio dell’AIDS, lo shock subìto allora da intere generazioni può essere avvicinato alla paura che sento adesso nei giovani di vivere la sessualità con il timore di contrarre il coronavirus. I giovani sono quelli che hanno accusato maggiormente il colpo di questa pandemia, anche se statisticamente sono quelli che hanno minori probabilità di ammalarsi rispetto agli adulti. Non solo percepiscono l’intimità come compromessa (sebbene la loro generazione non abbia mai enfatizzato la sessualità), ma hanno sviluppato una profonda paura del futuro. Alcuni sono diventati fortunatamente degli attivisti perché sentono che non è il mondo dei grandi che offre loro garanzie sul piano dell’etica, delle uguaglianze, dell’ecologia. Altri purtroppo sono già persi e confusi, bombardati da immagini svuotate di senso e messaggi che incitano all’odio e al narcisismo patologico. 

 

4. Anche i corpi fino ad oggi sono stati sottoposti all’ideale della performatività, questa situazione potrà far emergere una differenza in questo senso?

 

Trovo particolarmente doloroso pensare che la danza, le performance artistiche, lo sport, l’incanto dei corpi in movimento di queste splendide discipline, subiscano una contrazione permanente della loro espressività. È inimmaginabile che possano essere limitate e mortificate nella loro bellezza. 

Pertanto l’augurio per l’umanità ferita dalla pandemia sarà di ritornare alla normalità valorizzando il concetto del prendersi cura – ormai ineludibile – con continuità e coraggio del pianeta e di ciascuna vita.

 

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Massimo Recalcati, Silvia Lippi, Matteo Lancini, Quattro domande sul desiderio (I)

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