Rickie Lee Jones, l’ultima stella della Texaco

27 Maggio 2023

Anziché partire dalle canzoni, per una volta, partiamo dalle automobili. Dalla Thunderbird del ‘63 che sta sul retro di copertina del disco Blue Valentine di Tom Waits ad esempio, che ritrae Rickie Lee Jones di spalle, in una posa difficilmente equivocabile. Non si giunga a facili conclusioni però: in Tom Waits tutto va inquadrato in termini di performance, e Blue Valentine è a tutt’oggi il suo disco più romantico, quello che si apriva sulle note di Somewhere di Leonard Bernstein e Stephen Sondheim, e quello su cui troviamo Christmas card from a hooker in Minneapolis.

Macchine, dicevamo. Rickie Lee Jones conobbe Tom Waits sul parcheggio del locale Troubadour di Los Angeles una sera del 1978. All’epoca lui guidava una Cadillac del ’49 che teneva costantemente parcheggiata davanti al locale. La Thunderbird del ’63 arrivò poco dopo, e avrebbe scarrozzato lungo la Highway 1 la coppia più bella e fragile della controcultura americana. Poi sarebbe arrivata la Range Rover di Lowell George, con cui i due andavano a zonzo sulle colline sopra Los Angeles; il momento chiave della carriera di Rickie Lee Jones, quando riuscì a piazzare la prima canzone, Easy money, che divenne un successo proprio grazie a George (la Jones esordì quindi da autrice, non da interprete, dettaglio non da poco per una donna alle prese con l’industria discografica).

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Rickie Lee Jones e Tom Waits, Atlantic Books.

E che dire della station wagon di Dr. John con cui il musicista portava i bambini a scuola e che Rickie Lee associava piuttosto alle bustine di eroina? O della Lincoln gialla del ’57 esposta nella concessionaria di fronte all’ufficio di Rocky il Gangster a Los Angeles per cui Rickie Lee faceva da dattilografa (un gangster dotato di scrupolo dattilografico è un segno particolare degno di Raymond Chandler), macchina che finirà poi immortalata sul disco Pirates. O ancora della Buick dorata del ’74 del pappone afro-americano Jesse, sulla quale Rickie Lee Jones fu fermata dalla polizia a Venice, e dove per la prima volta avvertì lo stato di allarme che gli afro-americani sempre provano quando la loro strada incrocia quella di un tutore dell’ordine. O ancora della Chevy Vega color arancione che per anni funse, oltre che da mezzo di locomozione, da studio portatile, l’abitacolo in cui Rickie Lee Jones cantava, abbozzava melodie e immaginava canzoni.

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A differenza di tante rockstar di sesso maschile prima e dopo di lei, Rickie Lee Jones non ha mia amato Jack Kerouac. Non amava il suo stile e non capiva perché la gente provasse dell’entusiasmo per quel suo libro. La Jones lesse Kerouac nel 1973, quando aveva diciannove anni. Stiamo parlando di una donna che, a diciannove anni, aveva accumulato più chilometri sulle strade d’America di quanti ne avessero accumulati Jack Kerouac e Neil Cassady nelle scorribande poi confluite nel romanzo Sulla strada. Nel 1968, a quattordici anni, era fuggita in California con il suo primo fidanzato a bordo di una macchina rubata, una Camaro. Una fuga che anni dopo avrebbe ispirato la canzone Night Train: swing low, Saint Cadillac (dondola piano, Santa Cadillac), verso che richiamava in modo diretto il titolo dello spiritual Swing low, sweet chariot (dondola piano, dolce carro). Una canzone, quella, nata sui binari della ferrovia, dove lei e il fidanzato avevano cercato scampo dalla polizia dopo essere rimasti senza benzina, nei pochi istanti di libertà che precedono la realizzazione che non c’è nessun posto dove fuggire, pur nell’irrinunciabile convinzione che partire, non importa dove, sia l’unica via percorribile.

Stare sulla strada, per le donne, ha a lungo significato qualcosa di profondamente diverso rispetto agli uomini. Più che un’avventura, ha quasi sempre attestato una sventura, una calamità di segno morale. Grazie al cielo le cose sono molto cambiate. Giorni fa un’amica mi ha rivelato che a breve mollerà tutto e se ne andrà in giro per mondo per due anni. Una di quelle cose che ti cambiano la vita, e che un po’ la cambieranno anche a quelli che penseranno a te da lontano, dando una spinta al mappamondo. A discolpa di questi, i sognatori da mappamondo, va forse azzardato che On the road ha sicuramente più lettori di Off the road, il libro scritto dalla moglie di Neil Cassady, il Dean Moriarty del romanzo di Kerouac, ma siamo davvero sicuri che fare l’autostop da Albuquerque a Reno, in Nevada, o da Tuscaloosa a Chattanooga, in Tennessee, sia poeticamente più pagante che raccontare di chi resta casa a cambiare pannolini, accendere la stufa o a lavare e stirare i calzini dell’avventuriero, quando questi si deciderà infine a passare da casa per farsi una doccia?

Automobili, dicevamo. Ci fu quella che investì il fratello di Rickie Lee Jones quando lei era bambina, invalidandolo a vita. Ci fu quella, lei sempre bambina, da cui scese un tale che le si avvicinò invitandola a vedere la bambola che teneva sul sedile della macchina. L’uomo nero. Ci furono quelle che illuminavano la camera della mamma di notte, quando Rickie Lee si rifugiava a dormire nel letto di lei. Ci fu la Sedan del ’40, una macchina abbandonata in cui andava a fumare di nascosto dai genitori. Quella con cui la sorella la condusse al centro di detenzione giovanile. Quella dell’avvocato, una Corvette del ’69, che la riportò a casa poco dopo. Quella con cui andò in Messico a comprare qualche chilo d’erba con un amico. La Chevy Nova del ’62 con cui dei tizi la portarono a Seattle a seguire un festival, le decine e decine di macchine che l’avevano raccattata a bordo strada col pollice alzato. Anni ’60. L’amore libero. Quale amore libero?, rammentò anni dopo Rickie Lee Jones. Era libero finché non andavi a letto con loro, dopo erano i same old roles as in any 1950’s movies, la conferma dei ruoli che trovavi codificati in qualunque film degli anni ’50. Il taxi in Irlanda su cui rischiò di essere violentata. E prima ancora c’erano state le macchine dei Beach Boys, quando lei era ragazzina e tutti sognavano la California e il surf, e come arrivare fino alla spiaggia se non a bordo di una macchina con la tavola in bella mostra sul tetto? Poi, infine, ci fu il viaggio di ritorno a casa dopo il primo appuntamento con Tom Waits, che ispirò la canzone The last chance Texaco.

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È una notte di stelle nel parcheggio del Troubadour. Rickie Lee Jones ha il berretto rosso calcato in testa e indossa un paio di guanti color fucsia che le modellano l’avambraccio fino al gomito. Tom Waits la abbraccia e i due cominciano a ballare, avvinghiati nel parcheggio come fossero in pista. Dopo il giro di danza, da quel galantuomo che è, Tom le apre la portiera della Chevy Vega e Rickie Lee si mette al volante. Accende la macchina. Lo saluta e parte. Mentre si allontana verso casa, scorge Tom nello specchietto retrovisore che le fa ciao con la mano. Quel percorso notturno verso casa, lungo il Santa Monica Boulevard, è facile da inquadrare. Non tanto per la topografia nota, ereditata da tanta letteratura e da tanto cinema, ma per lo stato d’animo che immaginiamo accompagni Rickie Lee Jones. A un certo punto decide di fermarsi a fare benzina nell’unica stazione di servizio ancora aperta. Mentre riempie il serbatoio si sente leggera, come se stesse ballando un valzer. Il valzer fra la ragazza e la Chevrolet. The last chance Texaco nacque allora, la sera del primo appuntamento con Tom Waits, il cantante dalla voce d’orco e un cuore grande così.

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Lo slogan della Texaco, a lungo l’unica società petrolifera che vendeva benzina in tutti gli stati americani, recitava: you can trust your car to the man who wears the star, puoi affidare la tua macchina all’uomo con la stella. L’uomo con la stella rimandava beninteso allo sceriffo, l’uomo che ti avrebbe protetta dai fuorilegge del far west. Seguire la stella della Texaco significava insomma stare sul lato giusto della strada. Per chi macinava chilometri su chilometri scorgere quella stella in lontananza voleva dire trovare non solo un punto di riferimento e di ristoro, ma la consapevolezza che il viaggio poteva continuare. Senza quella stella, eri fermo. Bloccato lì dove il motore si spegneva. The last chance Texaco diventò, per Rickie Lee e i suoi amici, una sorta di frase in codice, l’ultima possibilità di fare il pieno prima di lanciarsi verso l’ignoto: scorgevi la stella della Texaco in lontananza e sapevi di avere una possibilità.

La canzone apparve sul primo disco di Rickie Lee Jones, quello in cui la cantante si presentava col famigerato cappello rosso, un berretto che fin da ragazzina aveva eletto a simbolo della sua indipendenza. Quante volte era stata mandata fuori dall’aula perché si rifiutava di levarsi quel berretto? A quel copricapo affidò la rivendicazione del suo essere diversa: I am the girl in the red beret, ripeteva a sé stessa, sono la ragazza col berretto rosso. The last chance Texaco racconta sì di viaggi, di libertà e di avventura, ma racconta soprattutto di una donna perennemente fuori tempo, una donna in cerca di un’ultima possibilità, la possibilità di potersi infine fidare dell’uomo con la stella appuntata sul petto. È senza ombra di dubbio una delle più belle canzoni che siano mai state scritte sull’America on the road, scritta da una donna che aveva alzato il pollice per ragioni diverse rispetto a Jack Kerouac. Viaggiare, stare on the road, per Rickie Lee Jones non era un modo alternativo di stare al mondo: era, semplicemente, l’unico modo in cui fosse mai stata al mondo.

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Rickie Lee Jones - Atlantic Books.

Chissà se i posteri ci perdoneranno per aver cercato la libertà e persino un pizzico di poesia in un pieno di benzina. Probabilmente chi ha bruciato ettolitri di combustibile per cercare un proprio posto nel mondo in futuro sarà sottoposto a severo giudizio. Sarà considerato uno dei tanti che ha egoisticamente contribuito al collasso del pianeta. Confidiamo in un po’ di clemenza. Speriamo che l’aver letto i libri di Kerouac o l’aver sognato ascoltando le canzoni di Rickie Lee Jones, e magari anche l’aver riempito il serbatoio dell’automobile una volta di troppo, non ci consegni al rogo eterno. Parrà forse sconcertante alle generazioni future, ma a fine anni ’70 ci fu una ragazza che cavò della poesia dal logo di un’azienda petrolifera. Sarà certamente ricordata per i suoi dischi e per le sue canzoni, ma è possibile che Rickie Lee Jones sarà pure ricordata come l’ultima stella della Texaco, una ragazza diventata donna macinando asfalto, quando fare un pieno di benzina poteva ancora essere considerato non solo un gesto anticonformista, ma un atto poetico. 

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Rickie Lee Jones, foto di Paul Zollo.

“Per ogni vagabondo”, ha scritto Rickie Lee Jones nel suo memoir intitolato, guarda caso, Last chance Texaco e pubblicato due anni fa da Grove Press, “ci sono soltanto la strada, i binari del treno e il cielo eterno. Gli scorpioni e i cactus che sbocciano di notte. La voglia di viaggiare col pollice alzato o su un treno, la magia di un estraneo che non possiede nulla ma disposto a condividerlo, quel suo misero nulla, per creare una comunità più generosa di tante altre. (…) È un’esperienza quasi accidentale. È uno sguardo, un odore, e un suono che lascia un ricordo di profonda contentezza. Come quella notte che una zuppa di patate nutrì le masse affamate a fianco dei binari della ferrovia”. All’amica che presto partirà per il mondo, l’augurio che non perda mai di vista la stella della Texaco, quanto a Rickie Lee Jones, ha appena pubblicato un nuovo disco. L’ha prodotto Russ Titelman, il produttore che la lanciò tanti anni fa. S’intitola Pieces of treasure. È un disco di standard jazz, dei classici senza tempo. Niente automobili, stavolta.

In copertina, Rickie Lee Jones, foto di Greg Allen.

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