Speciale
Fenomenologia del menu
C’era una volta il menu: nel senso di quel supporto materiale dov’era trascritta la lista dei piatti offerti da un ristorante. Il cliente si accomodava, e fra i gesti rituali della sua cena – oggi diremmo della sua esperienza gastronomica – ci stava quello del leggere il tal elenco e da esso scegliere cosa mangiare (degustare?). Era un momento notevole nel quale, da un lato, il ristoratore si oggettivava nella serie dei suoi artefatti e, dall’altro, il commensale esprimeva la propria soggettività dando mostra dei propri gusti. Una specie di patto implicito dove i due soggetti si incontravano costruendo le proprie reciproche identità. Ma c’era un momento appena precedente, rapido e cerimoniale, di altrettanta importanza: quello in cui il cameriere (o, se meglio, il maître) allungava il menu, nel senso sempre del supporto materiale, al tizio appena seduto, esprimendo, col cartoncino stampato (o analogo), il segno dell’avvenuto accoglimento del cliente in quel luogo sacrale dove, riempiendo gli stomaci, si cedeva al desiderio. Come dire: ok, sei dei nostri; noi abbiamo cucinato per te; tu sei venuto qui per mangiare; e allora bando alle ciance, passiamo ai fatti.
Se il patto silente dell’offerta e della scelta grosso modo è rimasto, il gesto precedente è del tutto sparito. Oggi per leggere il menu occorre scansionare un QR-code. Questa piccola rivoluzione, si sa, ha avuto luogo essenzialmente nell’orrido periodo del Covid19, dove – stiamo dimenticando – bisognava toccare il meno possibile, sia corpi sia oggetti. Per la gioia delle vecchie retoriche del virtuale e dell’immateriale. Se n’è molto parlato nei blog e nelle riviste di settore, in rete e nei social. Ed effettivamente la cosa, per quanto banale, merita una riflessione, non foss’altro perché contribuisce a fomentare quei piccoli equivoci senza importanza che accadono nell’infraordinario della nostra quotidianità.
Facciamo un passo indietro. Come si presentavano i menu prima di tutto ciò, ossia fino ad avantieri (con qualche raro esemplare tuttora in circolazione, e i suoi conseguenti effetti di senso)? La lista delle liste è lunga. L’antropologo britannico Jack Goody, nel suo libro sugli esiti culturali della scrittura (intesa come literacy) intitolato L’addomesticamento del pensiero selvaggio (a quando la ripubblicazione?), ha sostenuto che l’attuale menu dei ristoranti proviene da un format più complesso che circolava nelle corti inglesi sei e settecentesche, composto di quattro parti: una lista della spesa destinata al credenziere, un catalogo dei compiti che il personale di cucina doveva eseguire per preparare un certo pasto, la lista dei piatti del giorno che il commensale trovava in tavola al momento di accomodarsi, l’elenco dei modi di consumo del cibo anch’esso posto nel desco a mo’ di caldo consiglio per l’ospite di turno. Se le prime due liste hanno dato adito al testo scritto della ricetta di cucina, la terza, isolata dagli altri, è divenuta il nostro menu, mentre la quarta ha ripiegato sui manualetti di buone maniere. Tale scorporazione non è stata ovviamente senza conseguenze, segnalando fra l’altro quella netta separazione fra cucina e sala, cuciniere e commensale che fatica ancora a esser trascesa. Fatto sta che il documento scritto che descrive cosa c’è da mangiare, a seguire Goody, è esito antropologico dell’era gutemberghiana.
Da qui una prima opposizione pertinente: da un lato i menu impressi, prima dal tipografo sotto casa e poi dalla stampante personale, più formali, che segnalano rigore e ridondanza, dall’altro quelli scritti a mano, tendenzialmente idiosincratici, che a loro volta indicano una certa frequenza al cambiamento nelle creazioni del cuoco o di chi ne fa le veci. In quest’ultima categoria rientra, sarà già chiaro, la sempiterna lavagna e relativi gessetti, gioia d’ogni commensale a permanente caccia del piatto del giorno. La lavagna, che oggi ricordiamo non senza lacrimuccia, può moltiplicarsi fino a un certo punto, magari ce ne sono due o tre in sala, ma è sempre il cameriere a trasportarla volta per volta al tavolo dei nuovi arrivati. Diviene così garanzia, a dir vero un po’ stupida, di freschezza e genuinità. Connota il bel tempo andato.
Ci accorgiamo così che a essere significativi per i menu sono soprattutto i materiali utilizzati nei loro supporti comunicativi. C’è in prima istanza carta e cartoncino, di differenti forme e dimensioni. C’è stato per esempio un tempo, pochi anni fa, che s’usava stampare la lista delle pizze disponibili nelle tovagliette di carta dette, chissà perché, americane. Bisognava sollevare il coperto, piatti posate bicchieri, per scegliere il condimento. Oggi sembra stiano sparendo. La fantasia, in generale, non manca: ci sono menu su pergamena, altri ficcati in improbabili teche illuminate, altri ancora in cornice dorata. Ci sono menu sotto forma di video, e altri recitati in endecasillabi sciolti. C’è pure pelle e similpelle. E, in fondo, anche i piatti – veri o finti che siano – direttamente esposti nelle vetrine di certi ristoranti (greci, cinesi…) svolgono il ruolo di elenco di se stessi. Quelli più interessanti, fra il trash e l’igienismo naif, sono però i plasticati, ora direttamente, ora con fogli di carta che stanno dentro contenitori tipo ufficio del commercialista.

La plastica è – o sarebbe meglio dire aspira a essere – garanzia di igiene poiché presuppone un utente plurimo e, soprattutto, qualcuno con le mani non pulite, rinviando all’idea di un inserviente che netta con apposito panno vileda il menu una volta adoperato (ahimè, lo ‘sanifica’). Così, è come se questo menu plastificato – come a giustificare il fatto di non essere in cartoncino – dicesse a chi lo tiene in mano: so che potrei essere sporco, dato che mi tengono in mano un sacco di persone con le dita non molto pulite (i turisti!). Ma non preoccuparti, vengo regolarmente lavato, dunque non sono un ricettacolo di impurità o di oleose macchie, ma un oggetto che puoi tenere con serenità tutto il tempo che vuoi per scegliere serenamente che cosa mangiare. E il cartoncino, a sua volta, silenziosamente sembra rispondere: io invece sono sempre pulito perché i clienti del ristorante dove mi trovo lo sono; e poi chi si occupa di questo luogo mi sostituisce regolarmente, dunque non solo sono mondato e non ho bisogno di spiacevoli plastificazioni ma sono anche moderatamente chic. Il cartoncino surrettiziamente suggerisce l’idea che la plastificazione sia roba povera, messa lì non tanto per igiene ma per non sprecare menu più del necessario, per usare sempre lo stesso, con dovuta parsimonia.
Ovviamente, quasi in opposizione a questa materialità greve, la rete ha raddoppiato tutto ciò, rimediando sotto forma di immagine i vari media a suo uso e consumo, prendendo loro il posto e l’afflato, la significazione. Scatta il regno del virtuale che porta a consultare il menu di un ristorante prima ancora di andarci, in modo da trasformarlo in un biglietto da visita, come dire in uno strumento promozionale del ristorante stesso. Leggo su internet un po’ di menu e scelgo dove andare stasera. I personaggi più fighi, o disperati aspiranti tali, sono quelli che studiano in pdf il menu del posto dove andranno a cena con fidanzato o fidanzata, cercano su Google il significato dei termini – e dunque gli ingredienti – che non conoscono per sfoggiare, una volta accomodati, una competenza gastronomica che, proprio per questo, non hanno per nulla. E la figuraccia è assicurata.
Arriviamo così al QR-code. L’opinione comune lo pensa comodo, igienico, economico, modificabile con estrema facilità. Scatta il senso dell’assenza, la trita retorica del senza che oggi va moltissimo. Un menu senza i menu, tutto virtuale, immateriale, diafano. In linea coi disastri ideologici del Covid, elude il senso del tatto. Come la carta di credito che rende inutile il vile denaro, e le app su smartphone che rendono inutili le carte di credito. Abbasso il corpo, gli oggetti, la materia. Inoltre, in quell’oscura provincia allargata che è il nostro villaggio globale, fa figo perché è tecnologico. Ho speso – diomio – mille e rotti euro per il telefonino? Guardate a quante cose mi sta servendo…
Più d’un dubbio potrebbe però assalirci. Innanzitutto, grazie a qualche immancabile diavoletto rompiballe, appena ci mostrano il QR-code da scansionare, improvvisamente non c’è più campo. A te ti prende? Io non vedo nulla… E ci si inizia a scambiare gli apparecchi. Oppure: te lo leggo io… Inoltre, quando fortunosamente si riesce a percepire il menu sul display, per quanto ampio possa essere quest’ultimo, dell’offerta mangereccia si vede sempre una piccolissima parte: i primi due primi, i primi due secondi, i primi due dessert, mai che si abbia una visione completa dell’offerta gastronomica. Occorre una memoria come Pico. E non parliamo della carta dei vini, ché non appena leggiamo dei bianchi, abbiamo rimosso le bollicine viste prima, e quando arriviamo ai vini da meditazione non abbiamo più nulla da pensare. Il menu, in altri termini, ha perduto la sua intrinseca prerogativa di provocare la vertigine della lista. Tutto a spizzichi e bocconi, proprio ciò che a cena fuori vorremmo evitare.
Infine, problema dei problemi, eccoci di nuovo col telefonino in mano. Consultiamo il menu, certo, ma per l’occasione diamo un’occhiata alle mail, sbirciamo i social, rinfocoliamo la chat delle mamme su whatsapp. Diamo un po’ di contrasto e di colore al selfie di poco fa. Sta succedendo che, malgrado il nostro mitico aplomb, stiamo diventando maleducati impenitenti. Lina Sotis e soci lo predicano da tempo: magari sì il cappello a tavola, cedendo alla débâcle delle buone maniere, mai però il telefonino! Adesso, invece, siamo forzatamente costretti a essere maleducati in nome del mito dell’immateriale. Vale la pena soffermarci sull’esito antropologico che ne scaturisce: il non toccare è maleducazione, il tocco è educatissimo. Evviva.
In copertina, fotografia di Jessie McCall.
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