Speciale
Metafisica del SUV
C'è una via, a Merano, dove si trovano tre scuole. Più un asilo. Via Galilei.
Quando i piccini, sia dell'asilo sia delle elementari, sciamano urlanti fuori dai tetri edifici, perché in effetti sono tetri, sia l'asilo che la scuola, quando i marmocchi ululanti si riversano sulla strada, i genitori sono lì, ad attenderli.
Ma non stanno all'aria aperta. No. Sono al chiuso. Ben protetti. Fasciati dalle imponenti carrozzerie dei loro SUV. Non c'è un centimetro quadrato di marciapiedi che sia libero. I macchinoni sono stravaccati, pienamente distesi, abbracciati quasi alla superficie grigia dei marciapiedi.

Il camminante deve procedere sulla strada, attento a non farsi travolgere da altri SUV in partenza, o in arrivo o da mezzi comunque sopravvenienti a velocità sostenuta, per usare un eufemismo. Ci sono bensì cartelli che intimano di ridurla, la velocità. Portano dei numeri stampati in grande formato questi cartelli. Trenta, per esempio. Anche venti. Ma credo che gli automobilisti li interpretino come suggerimento di numeri da giocare al lotto o al Superenalotto o a giuochi consimili. A nessuno di loro viene in mente che abbiano in qualche modo a che fare con il gas da togliere ai veicoli.
I bambini che salgono sui SUV parentali lo fanno a stento. E non perché i mezzi siano troppo alti, troppo grandi, troppo vasti. O non solo per questo. Il fatto fondamentale è che sono grassi, i piccini. Troppo grassi. Obesi anche. Obesi come i cani che trotterellano sulla Tappeiner, che per un tratto passa giusto sopra via Galilei. Se andassero a casa a piedi magari dimagrirebbero. Si potrebbe forse suggerirlo ai genitori.
Al camminante queste scene suggeriscono invece riflessioni linguistiche, onomastiche. Ma perché chiamarli marciapiedi i marciapiedi? Quando è chiaro che ci marcia su di tutto, tranne i piedi! Chiamiamoli marciaruote, marciagomme, marciamacchine o marcia e basta. Anzi chiamiamoli marci, così si possono creare ambiguità semantiche, equivoci di significato, di quelli che fanno bene alla lingua, che creano poesia.
Eppoi ’sti cazzo di SUV! Ma quelli che li guidano lo sanno o no che SUV è un acronimo di Suburban Utility Vehicle! E lo sanno o non lo sanno, 'sti cazzo di cazzoni al volante, quel che significa suburban?! Lo sanno che vuol dire suburbano? Lo sanno che quello che è suburbano riguarda il suburbio, cioè ciò che NON è urbano, ciò che NON è cittadino. E allora che ci vengono a fare in città con i loro dannatissimi carrarmati SUBURBANI? I cingolati li usino per i sentieri, gli sterrati, le strade interpoderali e forestali. Vadano con essi sulle alture, sulle colline, le montagne e le vette. Sugli scogli, le scogliere, sui greti e le sodaglie. Su tutti i terreni vaghi dell'orbe terracqueo. Lì compiano le loro evoluzioni con i loro SUV. Ma lascino perdere le città, gli agglomerati urbani, le cities e le downtown e le villes lumières. Scendano dai trattori e camminino, almeno un po': dal parcheggio alla scuola e diano l'esempio ai marmocchi rachitici o sovrappeso o tutt'e due insieme; a Merano ci sono anche quelli. Facciano così, se le parole hanno un senso.
Allo stesso modo Totò, in uniforme da carabiniere, nel film I due marescialli (1961) intimava ai proprietari di un sedicente "Caffè dello Sport" di cambiare immediatamente l'insegna in "Ciofeca dello Sport", dato che il caffè che vi si beveva quello era: un'autentica ciofeca, disgustosa! Allo stesso modo Dante, che sarebbe molto contento di venir citato accanto a Totò, ricordava, nel capitolo tredicesimo della Vita nuova (1293), che "nomina sunt consequentia rerum". I nomi sono conseguenza delle cose. Ed è per questo che il nome amore è "sì dolce a udire".
Per contro, è vero anche questo, Vittorio Sereni nel suo poemetto Un posto di vacanza (1973) ammoniva che il "nome non è la cosa ma la imita soltanto" e forse il senso di settecento anni di storia letteraria, da Dante a Vittorio Sereni, potrebbe essere semplicemente racchiuso nella differenza tra le due frasi appena menzionate: dal nome sostanza della realtà al nome emblema vuoto.
Che i guidatori di SUV abbiano letto l'ultima produzione poetica di Vittorio Sereni? Mi pare altamente improbabile. Però, nella vita, non si può mai dire.
Comunque, dopo aver caricato il piccino, se ne vanno i SUV. Dileguano da via Galilei. Ognuno, rigorosamente, con un unico piccino, come se vi fosse un regolamento occulto che lo impone: a un SUV deve corrispondere un bambino, e uno solo, i trasgressori saranno puniti. E i SUV sono grandi, si sa, sono enormi, giganteschi, sesquipedali, mentre i bambini, si sa anche questo, sono piccoli, molto piccoli, anche se grassi. Basterebbero un paio di SUV, ben stivati, per portarli via tutti. Magari tre, ecco sì, tre SUV e la scuola sarebbe integralmente svuotata, e l'asilo pure.
Ma perché poi sono così grandi questi SUV? A quale vera necessità risponde la loro smodata dimensione? Forse non saranno interrogativi pressanti, forse non innescheranno vertigini metafisiche, ma per alcuni il quesito s'impone, non si può evitare.
Al tavolino d'un caffè, uno di quei tavolini a ridosso delle strade, dove si possono respirare scarichi e contemplare disinteressatamente interminabili processioni di veicoli d'ogni genere (caffè del genere esistono anche a Merano), proprio lì, in luogo propizio, un amico d'infanzia del camminante ha avuto un'intuizione geniale: te lo dico io, perché i SUV sono così grandi. Ti ricordi, quando eravamo piccoli, che ci guardavamo il pistolino, eh te lo ricordi? Come potrei essermelo dimenticato?! Il pistolino non si scorda mai! Ecco, bravo! Allora, vedi, allora facevamo a chi ce l'aveva più grande, te lo ricordi, no? Me lo ricordo, sì. E chi non lo voleva mostrare, lo prendevamo in giro, no? Gli gridavamo: ma che ti credi tu, di avercelo d'oro? Sì, ma allora? Che c'entra con i SUV? Ma come che c'entra? È la stessa cosa! La stessissima cosa! I possessori di SUV sono rimasti a quella fase. La fase genitale di Freud? Macché: la fase del pistolino che dico io! Giocano ancora a chi ce l'ha più grande! Ma non è più il pistolino, è il SUV! O, detto elegantemente, è e non è... È vero, hai ragione accidenti!
E poi, come non gli bastasse ancora, l'amico d'infanzia del camminante, tutto preso da questa sua rievocazione di sudicerie bambinesche, ha proseguito, incalzante: e ti ricorderai che, da piccoli, un altro gioco zozzetto era quello a chi la faceva più rumorosa, dove la è intesa come scoreggia... Sì, sì, ricordo... E non ti sei accorto che questa fase anale o della flatulenza competitiva sopravvive intatta anche oggi... Dove? Ma nelle motorette dei giovanotti. Che pare facciano a gara a chi ha la marmitta dal rumore più devastante. E più scoppiettano, più smitragliano, quelle dannate moto, più pensano di lasciare il loro indelebile segno nel mondo, la degna firma della loro presenza, non ti pare? Mi pare, mi pare... Aggiungo che in certi gerghi della malavita veneta del primo Novecento la motocicletta andava proprio sotto il nome di scoresona... Càspita! Che amico colto ha il nostro camminante meranese!
Questi, una volta salutato il suo vecchio amico, lasciando i tavolini da cui si gode l'inarrestabile teoria delle auto, delle moto sempre scoreggianti e dei camion e camper e autoarticolati, questi sconfortato si chiede: ma non c'era la crisi? Ma non dovremmo trovarci nel pieno d'una crisi economica senza precedenti? Nel cuore d'una crisi sistemica, catastrofica, apocalittica? E allora perché tutte queste macchine, moto, camper, camion e autoarticolati? Perché non va a piedi nessuno, fuor che qualche cocciuto pedone, qualche camminante superstite?

Anche negli anni Settanta del secolo scorso c'era la crisi. Il camminante meranese estrae da una vecchia catasta di libri sita in un angolo della sua biblioteca alcuni volumi: due usciti nel 1979 dal titolo La crisi italiana, a cura di Luigi Graziano e Sidney Tarrow, ben settecentosessantasette pagine di atti d'un convegno del millenovecentosettantasette, fitte di considerazioni di autori vari su "La crisi economica", "La crisi nella società civile", "La crisi della società politica" e anche "La crisi del regime" e "Il parlamento nella crisi attuale" (attuale allora, fine anni Settanta del secolo Ventesimo). Da quella catasta di novità editoriali appassite spunta fuori un altro volumetto, del 1978, il cui titolo suona I giovani e la crisi degli anni Settanta. Ma la crisi c'era anche negli anni Ottanta del secolo scorso: crisi di valori, crisi morale, crisi di credibilità. Perché se gli anni Settanta erano stati definiti "Anni di piombo", gli Ottanta furono definiti "Anni di merda". Negli anni Novanta poi ci fu un tracollo economico generalizzato e una crisi istituzionale spaventosa con connessa crisi irreversibile dei Partiti e della Prima Repubblica. Poi ci fu la Crisi di Fine Millennio. Seguita subito dopo dalla Crisi di Inizio Millennio. Nel 2008 ci fu la Crisi dei Derivati o dei Subprime e il Crack della Lehman Brothers; questa crisi dura ancora, questa crisi pare non finire mai. Eppure le auto circolano in massa. Nonostante sia almeno dagli anni Settanta (ancora!) che si parla di "Crisi totale del mercato dell'auto".
C'era persino una canzone al riguardo, una bella canzone di quello splendido album che è Automobili, musica di Lucio Dalla e parole di Roberto Roversi, in arte Norisso. E il testo di Norisso-Roversi dal titolo Intervista con l'Avvocato recita: da tutti è ormai confermato/che l'auto è in crisi profonda/che l'auto non ha futuro/come uno stecco di legno sull'onda/e che dopo l'assestamento/le auto saranno più rare/ e finiranno per scomparire/come lampare sul mare...
La canzone è del 1976. Da allora sono semmai i camminanti ad essere diventati più rari delle lampare o più rari del pesce pescato nell' Adriatico. Le auto invece si sono moltiplicate. Alla faccia della crisi.
Eppure la crisi c'è. Si vede. Anche nella ricca Merano. Chi cammina vede parecchi negozi vuoti. Mai se n'erano visti così tanti, di negozi vuoti. E cosa c'è di più vuoto di un negozio vuoto? (Forse solo una piscina vuota). Cartelli di "Affittasi" e/o "Vendesi" sulle vetrine spoglie di esercizi commerciali in disarmo. Persino una banca ha cessato attività. Incredibile.
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