Carnet geoanarchico 14 / Ars cosmographica

25 Maggio 2019

«Il mondo pareva ricondotto al silenzio di ere lontanissime». Non è il finale di un romanzo distopico, è il secondo libro della Storia dei Longobardi di Paolo Diacono nel punto in cui racconta la pandemia di peste bubbonica che infuriò in Europa tra il 541 e il 542 d.C. e che a Costantinopoli, come riporta Procopio di Cesarea, arrivò a uccidere tra le 5000 e le 10.000 persone al giorno. Nell’agosto del 2013 una carota glaciale estratta sul Colle Gnifetti nel massiccio del Monte Rosa è stata analizzata con sistemi ad alta definizione e ha permesso di datare con grande esattezza alcuni eventi vulcanici di vaste proporzioni. Le particelle di tephra ritrovate nel ghiaccio, risalenti al 535-536 d.C. e riferibili alla catastrofica eruzione di un vulcano islandese (altri parlano invece del Krakatoa), ci raccontano un’anomalia climatica che coincide con svariate notizie contenute nelle cronache alto-medievali. Il 536 fu un anno freddissimo, caratterizzato da abbondanti nevicate estive che distrussero i raccolti e generarono enormi carestie, dalla Cina all’America Latina. Come un inverno nucleare di proporzioni planetarie, le polveri dell’eruzione schermarono i raggi solari e abbassarono la temperatura media della Terra di 3 gradi. L’effetto catastrofico durò qualche anno, e le coltivazioni cerealicole si ridussero drasticamente, indebolendo la popolazione d’Europa e consegnandola alla grande peste giustinianea. 

 

 

Cassiodoro, nell’epistola 25 delle Variae (datata tra il 534 e il 537), parla di un sole attenuato, bluastro, che non proietta ombre, di uva che invecchia acerba. Procopio, nel libro secondo della Guerra Vandalica, racconta che nel decimo anno del regno di Giustiniano (537) «il sole mandò luce senza raggi, alla maniera della luna, per l’intera durata dell’anno, e sembrò del tutto simile a un’eclisse». Per gli studiosi del clima il 536 è stato l’anno più freddo degli ultimi 2000 anni e questo, assieme alla guerra greco-gotica (535-553), trasformò l’Italia in uno scenario apocalittico. La civiltà urbana collassò, i grandi e i piccoli centri si spopolarono, milioni di persone morirono di guerra o di fame, stragi, saccheggi, devastazioni, cannibalismo erano vicende quotidiane. Durante gli assedi la gente mangiava topi, insetti, vermi, erbe selvatiche, ortiche bollite, cuoio e pelle ammorbiditi nell’acqua, e anche bambini, come accadde in Liguria e a Rimini. Nel 538 l’Emilia si svuotò in massa a causa di carestia ed epidemie e i sopravvissuti si trasferirono nel Piceno in cerca di cibo. Quello stesso anno i Goti presero Milano, uccisero tutti i maschi di ogni età e diedero le donne in schiave ai Burgundi. Nel 539, a Pavia, i Franchi annegarono nel Po tutte le donne e i bambini goti in un grande sacrificio collettivo, per poi venire falciati a loro volta dalla dissenteria. E ovunque, tra Germani, Romani e Bizantini, la gente si suicidava per disperazione.

 

 

Vivendo in una bolla storica di pace lunghissima (almeno per gli standard di Homo necans necans), essendo ormai rarissimi i racconti di prima mano sull’ultimo conflitto mondiale, è oggi molto difficile farsi un’idea precisa di che cosa potesse voler dire nascere e vivere nell’Italia del VI secolo della nostra era. Procopio, Cassiodoro, Paolo Diacono, Giordane sono letture che ci danno una mano, ma la distanza stilistica e culturale che ci separa dai loro libri, l’apparente monotonia di cronache e annali, lo specialismo necessario per simili letture, richiedono un surplus di immaginazione che non è facile attivare, soprattutto in assenza di ragioni solide per farlo. Quando accade, però, ci rendiamo subito conto che le atmosfere e le efferatezze di La strada o di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy sono favole per educande. Ma poi, perché dovremmo risvegliare i fantasmi di milioni di morti anonime? Perché rovistare negli ossari polverizzati di figli mai cresciuti, di soldati o panettieri bruciati vivi, di bambini gettati esanimi sull’erba fragile primaverile del 536 d.C.? Chi ha voglia di immaginare gli ultimi minuti di vita di un’adolescente germanica che aveva un nome, ma non sappiamo quale, che aveva occhi di un certo colore, ma non sappiamo quale, che aveva una madre come noi, ma che non era la nostra, che era unica e irripetibile nella Storia dell’Essere, ma che un soldato bizantino o franco ha separato dalla vita come si rompe un bicchiere?

 

È perfettamente comprensibile che il lettore medio preferisca romanzi che parlano di famiglia, di affari, di matrimoni e corna, di case in campagna, di Anni di Piombo e borghesia, di bambini un po’ tristi e di cene meticolosamente descritte. Il collasso, l’irrevocabilità del disastro, l’estinzione, la catastrofe tranquilla o improvvisa sono spauracchi di genere, quelli che non portano lo scrittore allo Strega e che non attivano discussioni virtuose sulla letterarietà delle letteratura o sulla voce, la lingua, lo stile. Basta spostarsi però dentro la riflessione antropologica per accorgersi che il piano di consistenza esiste e che non può essere eluso. Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro, in Esiste un mondo a venire?, ci avvisano del fatto che «il registro etnografico restituisce una varietà di modi in cui le culture umane hanno immaginato la disarticolazione dei cardini spazio-temporali della storia», e il punto è veramente tutto qui: quali di queste varietà conosciamo davvero? Quale etnografia, a parte la nostra urbana, occidentale e bianca, abbiamo davvero esplorato per guardarci in filigrana, per allestire un sano confronto comparativo e, attraverso le altrui visioni della fine, rileggere, relativizzare e ripensare la nostra idea di storia? Quale cosmopolitica abbiamo interrogato invece di continuare a ossequiare passivamente la nostra economia politica? La grande cecità di cui ci parla Amitav Ghosh, prima che ecologica, è antropologica. Di che cosa dovremmo parlare (e scrivere), invece?

 

 

Se in questo strano discorso ci fosse un dunque, verrei al dunque. Invece c’è solo una pista incerta, lacunosa, che somiglia a gocce di sangue sull’erba di quindici secoli fa. Tracce, vestigia, tentativi di aprire un sentiero, ma non parlo qui delle prove nostrali che, copiando Herzog o Lars von Trier, montano in un centinaio di pagine delle mezze distopie vicinissime all’adesso-qui. Non parlo nemmeno di una saggistica intellettuale e fast food per sdoganare il presente ai presenti. Parlo di visione, cioè di quel gradino ultimo dell’immaginario che fa cosmo, di quel costruire costellazioni di immagini estreme per azzerare l’ipnosi del presente. Ecco perché secondo me bisognerebbe rileggere gli Esercizi spirituali di Loyola in chiave laica, e immaginare con tutte le nostre forze, con tutto il nostro cuore, quella ragazza di cui non sapremo mai il nome e che al margine di un campo marcito è stata abbandonata, rotta. Ecco perché immaginare un vulcano che spegne la primavera per qualche anno è un “esercizio naturale” da fare almeno una volta nella vita, magari in poltrona, rinunciando per mezz’ora a Faulkner. In questo momento, per me, dopo Procopio e Beda, sarebbe importante leggere (e scrivere) libri come Zona proibita di Vollmann, Tunguska o la fine della natura di Hampe, Extreme metaphores di Ballard, Il problema dei tre corpi di Liu Cixin. Non per discutere del futuro del romanzo italiano, ma per riprendere a parlare del posto dell’uomo nel cosmo.

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