Santi e streghe / A cimma

17 Gennaio 2012

 

“Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa
e ‘nt’ou nùme de Maria
tùtti diài da sta pùgnatta
anène via”

 

 

Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via

 

 

Una nenia, una preghiera, un’implorazione, persino un esorcismo... solo casualmente qui in dialetto genovese. Poteva avere anche queste forme ciò che ha accompagnato la nostra storia nel quotidiano confronto con la natura e con le relative paure, domande, attese...

Di questo confronto, il rapporto con il cibo è stato a lungo la parte più profonda e la cucina ha rappresentato la mediazione quotidiana attraverso cui venire a patto con quelle paure, soddisfare quelle domande e quelle attese.

Uno strumento e una mediazione che non erano “scienza” e a cui si aveva accesso secondo il proprio ruolo - la cucina popolare è sempre stata femminile - le risorse personali, la natura di una regione o di un territorio.

Di tutto ciò le tradizioni alimentari sono ancora oggi testimonianza, eco, specchio opaco quanto veritiero.

 

Tra quelle tradizioni, la cima alla genovese non è solo un piatto d’eccellenza della cucina ligure ma più in generale di una cucina mediterranea dei giorni di festa, di tutte le feste.

Anche se piatto mediterraneo di per sé non sarebbe; piatto troppo ricco del resto, ricco di carni di vari tagli - soprattutto vitello - ricco di una complessa lavorazione così come di un lungo tempo necessario alla sua preparazione. La carne, il lavoro, il tempo, tre ingredienti che inevitabilmente ne facevano piatto privilegiato. E poi i piselli, i pinoli, le uova, l’olio d’oliva, il formaggio parmigiano, la maggiorana ed altri alimenti a confezionare un piatto anche esteticamente elaborato dove la carne diventa contenitore e “guscio verde” di un ripieno solo in parte vegetale.

 

Un piatto unico nel suo genere e nel panorama nazionale, eppure il suo interesse non è tra questi elementi ma altrove, in qualcosa di molto più profondo e generale, se è vero che la cucina è parte della vita, se è vero che il cibo attraversa la vita e che solo l’uomo è in grado di trasformarlo “nelle forme e nella sostanza” prima che diventi vita...

 

Così, qui come in altri “luoghi” della cucina popolare, nella cima sembra emergere una “coincidenza” antichissima: non solo nutrimento ma esempio di memoria vivente dentro il lento fluire del tempo e dentro il confronto con la natura attraverso mille generazioni.

Elementi che il più delle volte ci appaiono invisibili, smarriti nella necessaria quotidianità del cibo, oppure percepiti confusamente pur dentro una riconoscente gratitudine verso i sapori dei propri luoghi.

 Di queste dimensioni della cucina, più che ai cuochi, agli esperti e men che meno ai dietologi o ai nutrizionisti, è a sguardi più generali e vaghi che occorre dare attenzione per decifrare qualche verità, ed è ad altre parole a cui occorre dar voce.

 

Acimma di De Andrè (scritta in collaborazione con Ivano Fossati) ha questo sguardo e questa voce.

Dal brano e dai fumi di una cucina senza tempo emerge il rispetto della società contadina davanti alla natura. Un rispetto che nella cucina era anche un’alchimia della vita fatta delle trasformazioni misteriose che il cibo subiva, fatta della consapevolezza del proprio destino, del necessario e fragile legame con gli alimenti, delle misteriose relazioni che ci legano al Creato.

Così, potrebbe bastare solo un’attenzione diversa da quella richiesta dalle nostre abitudini per intravedere forme incerte dentro il vapore di un focolare, la rivelazione di ingredienti inaspettati, i luccichii che la cucina nasconde…

 

Una nenia, una preghiera, un’implorazione; in mezzo una strofa - che compare una sola volta - posta quasi a sigillo di quei misteriosi legami.

La cima lascia la cucina diretta verso i commensali - e verso lo scapolo a cui toccherà la prima coltellata - mentre la cuoca l’accompagna con un viatico che è anche un’indecifrabile certezza...

 

 

“tucca a ou fantin à prima coutelà

mangè mangè nu sèi chi ve mangià”

 

Tocca allo scapolo la prima coltellata

mangiate mangiate, non sapete chi vi mangerà...

 

 

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