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I paesaggi sospesi di Vivian Suter

5 Luglio 2025

Alcuni mesi fa mi trovavo per ragioni fortuite a Lisbona. Nei pochi giorni in cui sono rimasto in città il meteo sembrava imbizzarrito: alla mattina cadeva una pioggia leggera, subito dopo usciva il sole, prendeva a soffiare il vento, mentre sopra le acque del Tago ricadevano piccoli arcobaleni. Sulle sponde del fiume, con le ali spiegate, immobili, rimanevano sospesi gabbiani solitari, grazie alle forti correnti d’aria. Sulla costa settentrionale della città, davanti alla statua trionfante del Cristo Rei, in un groviglio di linee concepito dall’architetta Amanda Levete, sorge il Maat – il Museu de Arte, Arquitetura e Tecnologia della capitale portoghese.

L’esposizione principale, riunita nell’ampia sala ovale del museo, era dedicata all’artista svizzero-argentina Vivian Suter. Nata a Buenos Aires nel 1949, da genitori emigrati – il padre dirigeva una stamperia tessile nella capitale argentina, mentre la madre, Elisabeth Wild, era artista – si è in seguito stabilita a Basilea a causa del regime di Perón, dove ha compiuto i suoi studi di pittura. Nel 1982, dopo la sua prima grande esposizione alla Kunsthalle di Basilea, visita l’America Latina, e decide di stabilirsi in Guatemala, in una località isolata chiamata Panajachel, in mezzo a un’antica piantagione di caffè, sulle sponde del lago Atitlán.

Suter dipinge in giardino. L’opulenza della natura che la circonda prende forma nelle sue tele, senza che questo comporti una sistematizzazione formale per la sua arte, un codice estetico di cui senta il bisogno di impadronirsi. Il suo è un dipingere collaborativo: le sue opere non hanno data, non hanno nome, non vengono firmate. Suter lascia che gli eventi atmosferici partecipino e contaminino i suoi dipinti; dopo aver finito una tela, può lasciarla a riposo in giardino anche per settimane, sotto la pioggia e i colpi irregolari del vento. Infatti, guardando bene i suoi dipinti, dove motivi geometrici si sovrappongono a segni o sfumature che ricordano lo smottamento della terra o il cadere obliquo della pioggia, è possibile ritrovare, impastato a un grumo di tinta acrilica o di colla di pesce, una spolverata di fango, le ali di un insetto, l’ombra di una goccia di pioggia. Tra i suoi quadri possiamo trovare perfino le tracce dei suoi cani; Disco, questo era il titolo della mostra, è proprio il nome di uno dei suoi amati animali da compagnia (oggi è possibile vedere la mostra, che porta lo stesso nome, al Palais de Tokyo a Parigi). L’alternanza cromatica delle sue tele, in questo senso, nel momento in cui vengono accostate, garantisce un effetto di organicità formale, come se gli angoli del suo giardino si ricombinassero, riprendendo vita nella concordanza delle sue opere.

È questa, avevo pensato, l’intuizione che ha avuto il curatore Sérgio Mah per l’allestimento. L’ampia sala ovale del Maat si dipana ellitticamente verso il basso, per poi risalire, creando una spirale che riporta nel punto da cui comincia la visita. Nel mezzo, tra le braccia delle scale, si apre una sala scoperta, e ovunque, lungo le pareti, si potevano ammirare più di 500 tele dell’artista. Come se si trattasse di un giardino verticale che si arrampicava sui muri della sala, riproducendo una giungla di opere, un vero e proprio paesaggio nel quale era possibile muoversi, fermarsi, scattare fotografie.

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Mentre giravo intorno alla sala, colpito dall’effetto suggestivo dell’allestimento, mi ero chiesto quanto la scelta di orchestrare una mostra attribuendole un valore esperienziale ridefinisca il nostro rapporto con l’arte. Guardando il turbinio di tele che tappezzavano le pareti, i colori infuocati, le linee rette e le macchie dilaganti che si alternavano, avevo capito di ritrovarmi turbato davanti ad un sistema di simboli che riconoscevo, ma per il quale non valeva la definizione di cui ero solito servirmi. Non dipendeva tanto dalla scelta di non firmare i quadri, o di rinunciare a preservarli dopo averli dipinti, lasciandoli in balia delle piogge e dei venti: era piuttosto la decisione di presentarli collettivamente, di riunirli a grappolo, a depotenziarli, avevo pensato, in quanto opere singole, minando quell’effetto sacro che ero solito riconoscere all’oggetto “quadro”.

Che la scelta di allontanarsi dall’Europa da parte di Suter non nascondesse anche il tentativo di liberarsi e annacquare il concetto di autorialità che può rivelarsi così necessario per chi quei quadri li osserva? E che fosse stato proprio il principio di mutabilità che le propongono i cicli naturali del suo giardino, in cui metamorfosi e trasmutazioni si succedono senza sosta, a permetterle di rivedere e ripensare il concetto di opera e in modo più esteso quello di autrice?

Quando Jacques Rancière scriveva che bisogna diventare dei partecipanti attivi dell’opera d’arte abbandonando il ruolo di spettatori passivi, riconosceva nell’esercizio interpretativo una funzione catalizzante in grado di attivare le energie sedimentate nell’oggetto artistico. Ogni opera, in questo senso, contiene una moltitudine di significati che l’osservatore può non solo cogliere ma anche condizionare nel momento in cui aderisce al compromesso interpretativo, vale a dire al punto in cui arte e uomo s’incontrano. I giardini sospesi di Vivian Suter hanno bisogno che qualcuno cammini dentro di loro, così come qualsiasi quadro ha bisogno che qualcuno gli si posi davanti, per poter assumere un significato. È lo spettatore, oppure chi camminava lungo le sale dell’esposizione, ad attivare le energie dormienti nel lavoro di Suter, riportando alla vita il suo giardino sprofondato sui bordi del lago Atitlán. Senza persone, dopotutto, non avremmo paesaggi, così come non avremmo arte senza qualcuno che la osservi.

Uscito dal museo il tempo era di nuovo cambiato: folate di vento si portavano dietro gli odori atlantici, il sole era apparso facendo cadere una luce stanca sul mare. In quel momento avevo sentito una corrispondenza, una sorta di continuità tra il paesaggio dal quale ero appena uscito e quello in cui stavo camminando. Avevo capito che era la permeabilità con cui Suter concepisce arte e natura ad avermi confuso e insieme affascinato. Non c’erano delle vere frontiere che le dividevano; le due dimensioni comunicavano, contaminandosi, senza respingersi, semplicemente coesistendo. Questo rende l’azione dell’allestimento ancora più importante: le opere hanno bisogno di essere disposte, un percorso deve essere intrapreso affinché i messaggi nelle tele possano rivelarsi. Avevo capito che le sensazioni contrastanti che avevo sperimentato provenivano dall’assenza di una cornice dentro cui situare il messaggio artistico; mi ero sentito disorientato davanti a un corollario concettuale che mancava, che non si era presentato in modo definito.

La mostra di Suter adesso si trova a Parigi. A partire dal 12 giugno fino al 7 settembre 2025, chiunque passi per la capitale francese potrà godere dell’allestimento concepito da François Piron al Palais de Tokyo. Un paio di settimane fa, nel periodo in cui sarebbe cominciata la mostra, mi trovavo a Parigi. Ero riuscito a ritagliarmi un pomeriggio libero, e avevo fatto una passeggiata lungo la Senna, finché non avevo deciso di passare dal Trocadéro: mi è sempre piaciuta, davanti l’iconica torre di ferro, la specularità dei due musei, il Musée de l’homme et la Cité de l’architecture et du Patrimoine, che si guardano e insieme fronteggiano. Un po' sovrappensiero, allungando la strada, ero passato davanti al Palais de Tokyo, e mentre guardavo la statua fatta da Antoine Bourdelle che domina il piazzale del museo, avevo pensato a chi aveva appena pagato il biglietto per vedere la mostra di Vivian Suter. Ogni allestimento avrebbe concesso un respiro nuovo alle sue tele, producendo una polivalenza di significati, una restituzione inedita del paesaggio che la circondava mentre lei si accingeva a dipingerlo.

L’abitudine a delimitare, a inserire oggetti o idee in griglie interpretative, quando si allenta può dare un senso di sollievo, ridefinendo il principio stesso di limite, e anche dei messaggi che dentro quei limiti maturano, producono significati. Spesso la mente si dirige spontaneamente dove trova spazio, dove può vagare senza costrizioni. Quel senso di fastidio, di frustrazione, mi aveva mostrato quanto potessi sentirmi a disagio non appena venivano meno i confini dentro cui ero abituato a pensare. Come se dovessi per forza seguire dei sentieri, dei cammini già tracciati. Eppure, le passeggiate più ricche sono sempre state quelle in cui imboccavo una via solo per la sua luce, o per un dettaglio che mi attraeva, senza bisogno di una meta. Ma ci vuole molta libertà, mi ripeto oggi ripensando a quel pomeriggio parigino, per camminare – e per guardare alle cose – senza pretendere nulla in cambio.

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TAGGED: Vivian Suter