Ruth Beckermann: quel che resta dei sogni

23 Gennaio 2023

Ruth Beckermann, viennese, classe 1952, comincia a lavorare con l’immagine in movimento nel 1977. Le sue prime opere, girate in 16 mm, sono prodotte dalla Videogruppe Arena, la compagnia che ha creato insieme a Josef Aichholzer, Franz Grafl e altr*. Il loro è un movimento sociale e politico indipendente, la cui vocazione è documentare, mettendolo accuratamente in figura, ciò che nella società austriaca di quegli anni si muove verso il nuovo, la partecipazione, l’intervento diretto. Il loro è un cinema militante, contestatario, mai ideologico, interessato ad attestare la protesta e le forme di organizzazione dal basso in una società immobile e già tutta marcata dalle ristrutturazioni di classe che da lì a poco segneranno il destino dell’intera Europa occidentale.

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Mutzenbacher, 2022.

I primi titoli – Arena Besetz/Arena Squatted (1977); Auf Amol A Streik/Suddenly, a Strike, (1978); Der Hammer Steht Auf Der Wies’n Da Draussen/The Steel Hammer Out There On the Grass (1981) –, cofirmati con altri membri del collettivo, parlano di occupazione delle case, di difesa del posto di lavoro, di resistenza alla distruzione di forme aggregative e di vicinato che hanno storicamente permesso alle classi più umili di far fronte alla logica del capitale. Beckermann e i suoi compagni filmano, registrano, raccolgono materiali preesistenti, fotografie, filmati d’archivio, immagini di repertorio, metraggi grezzi e li montano, giustapponendoli alle riprese dirette. Le voci e le immagini del passato e quelle del presente si affiancano e si commentano a vicenda. Il loro, oltre ad essere un formidabile lavoro sulla realtà e sul suo divenire e sulle potenzialità del mezzo cinematografico, è, fin da allora, una passione politica che si interroga sulle modalità narrative e sui dispositivi filmici in grado di far viaggiare una storia e la Storia.

Ruth Beckermann io l’ho scoperta in ritardo e a ritroso, partendo dal suo film più recente, Mutzenbacher (vincitore della sezione Encounters della Berlinale 2022), grazie alla splendida retrospettiva milanese e all’appassionata personale dedicatele nel novembre e dicembre scorso rispettivamente da Filmmaker e dal Sicilia Queer Filmfest. Cominciamo dunque da lì, da una pellicola che è un’esplosione di humour, lucidità femminista, ‘scorrettezza’ politica o indisponibilità a far propri i nuovi copioni di un perbenismo stantio. 

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Mutzenbacher, 2022.

Prendete centocinquanta maschi austriaci, di età compresa tra i sedici e i novantanove anni, e proponete loro di partecipare a un casting. Il provino consisterà nella lettura di un passo tratto da Josefine Mutzenbacher, ovvero la storia di una prostituta viennese da lei stessa narrata (trad. it. di Maria Teresa Ferrari, SE, Milano 2018), un romanzo di autore anonimo scritto nel 1906 e liberato da ogni forma di censura nel 1969, e solo allora pubblicato ufficialmente in Austria. In Germania resterà nella lista delle opere considerate dannose per i giovani fino al 2017. Fate voi!

Attribuito allo scrittore ungherese naturalizzato austriaco Felix Salten, nome d’arte di Siegmund Salzmann, (sì, proprio lui, l’autore di Bambi, da cui il cartone animato disneyano che ci ha fatto capire precocemente che le mamme possono morire e lasciarci soli nel bosco), è considerato uno dei testi più influenti della letteratura pornografica mondiale. Ci si sono sessualmente ‘formate’ intere generazioni, maschi, femmine e altro. Nonni e genitori lo tenevano non proprio in vista sugli scaffali della libreria di casa, ma figlie/figli preadolescenti lo avevano intercettato e, sapevano come riporlo senza che restasse traccia alcuna della loro furtiva consultazione. 

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American Passages 2011.

Beckermann lancia dunque un casting per soli uomini. Chi si presenta viene collocato – da solo, in coppia e, in un solo caso, in quattro – su un divanetto rosa da sala d’attesa di casa d’appuntamenti e invitato a leggere/interpretare quelle cronachette salaci in prima persona. E la prima persona è quella di una bambina, poi adolescente, poi donna, che fa sesso con chiunque abbia voglia di farlo con lei e che se la gode. I lettori/aspiranti attori non fanno (a prima vista) una piega, leggono forte e chiaro, talora sembrano addirittura immedesimarsi nei gemiti e nelle invocazioni della protagonista, come se la cosa non li riguardasse, come se ad essere in questione non fosse la loro sessualità di maschi della specie umana, come se loro fossero diversi, più evoluti, più consapevoli, o semplicemente educati a una maggiore autorepressione. Fuori campo, la regista li osserva e li ascolta. Noi spettatori/spettatrici non la vediamo mai, ma sono le sue brevi e acute domande, le sue istruzioni registiche e il suo sguardo (lo sguardo frontale e sfrontato della macchina da presa) a dirigere il nostro, costringendoci a osservare talora con imbarazzo, spesso con ilarità, l’imbarazzo dei candidati. È evidente che alla regista non interessa il testo, bensì ciò che esso provoca in chi lo legge. Da qui l’indugiare dell’obiettivo sul linguaggio corporeo dei ‘candidati alla parte’, sui loro silenzi alla fine della lettura, sulle loro espressioni facciali, sul loro prendere fisicamente le distanze da quei racconti. Si potrebbe dire che Beckermann ascolti ciò che non viene detto e lo interpelli per fare venire a galla ciò che si cela e ciò che non c’è più, ciò che è mutato e ciò che permane. 

Saranno proprio i provini a trasformarsi in film, quel lento e insistente indagare a diventare testo cinematografico. Oggetto: la sessualità maschile in tempi di correttezza politica e di #MeToo. Strumento: un capovolgimento di prospettiva e un’inversione dell’ordine del potere. Padrona dello sguardo è la donna/regista: sul simbolico, ipererotizzato lettino analitico (come non ricordare che nel 1905, pochi mesi prima che Mutzenbacher veda la sua pur clandestina luce, proprio a Vienna Sigmund Freud dà alle stampe i suoi Tre saggi sulla teoria sessuale?) siedono i ‘ricostruiti’ maschi contemporanei, timorosi di riconoscersi nella rapace pulsione sessuale dei loro predecessori, a disagio di fronte al candore stupefacente con cui quella Lolita fin de siècle si gode il godimento di padri, padroni, sacerdoti che dovrebbero vigilare sulla sua purezza e intatta innocenza.

Pochi anni prima, nel 2016, Beckermann aveva approntato un diverso dispositivo filmico per un altro testo letterario, il carteggio amoroso che lega per anni, dal 1948 al 1973, la scrittrice, poeta e giornalista tedesca Ingeborg Bachmann e il poeta rumeno Paul Celan. Il film si intitola Die Geträumten/ The Dreamed Ones, i sognati. Come dare corpo a quelle strazianti missive d’amore, a quei testi lacerati dalla separazione, dalla voracità di lui, dalla scabra lucidità di lei? Come tradurre in immagine le parole di un amore che unisce per poi separare e infine riunire non i corpi e la loro soave sensualità, bensì il pensiero, forse proprio solamente il sogno di una cosa che è stata e non potrà più essere, e che tuttavia non svanisce.

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Laurence Rupp e Anja Plaschg in Die Geträumten/ The Dreamed Ones, 2016.

Beckermann sceglie arditamente di dare fisicità a quel parlare d’amore attraverso due giovani interpreti austriaci: un attore e una musicista. Li mette l’uno accanto all’altra in uno studio radiofonico e li filma mentre prestano se stessi e la propria voce – forse l’elemento più profondamente corporeo e al contempo spirituale di cui disponiamo – a quell’epistolario sentimentale. Le parole di Bachmann e Celan sembrano a poco a poco impadronirsi di loro, letteralmente innamorarli l’uno dell’altra, travolgendo la spettatrice e lo spettatore in un ventoso vortice di emozioni. La cinepresa pendola tra i primissimi piani di quei due volti che sembrano illuminati dalle parole d’amore altrui e il fuori scena delle pause tra una registrazione e l’altra. Ma qual è il fuori scena? Che relazione c’è tra l’incantamento dell’immedesimazione attoriale e la realtà che ne porta non solo mnestica traccia?

Risalendo ancora più indietro, ci si imbatte in quella che Ruth Beckermann definisce la sua “trilogia ebraica”: una ricerca storico-identitaria che si sviluppa nell’arco di otto anni facendosi sempre più personale. Al centro di Wien Retour/Return to Vienna (1983) c’è Franz West (1909-1985), comunista, attivista e storico austriaco. La Vienna che a poco a poco emerge dai suoi racconti e dai documenti d’archivio che Beckermann intreccia alle sue parole trascolora dal rosso del primo dopoguerra al nero del nazionalsocialismo e della persecuzione antiebraica. L’ultima parte del film – colpo di genio registico e pieno svelamento dell’etica narrativa che muove l’autrice – si affida a una sorta di casualità, a un imprevisto che si impone nella sua verità e necessità. Durante le riprese del film, una notte, in solitudine, West ha affidato a un piccolo magnetofono una sorta di flusso di memoria che è al contempo un libro dei morti. È lui a proporre a Beckermann di ascoltarla insieme, a occhi chiusi. E lei decide di ‘filmare’ quell’ascolto, invitando noi, spettatori a venire, a unirci a lei con tenerezza e attenzione Quella voce fuori campo, che narra con pacatezza lo sterminio di una famiglia e lo smagliarsi di una cultura, sigilla la traiettoria filmica di quel ‘ritorno a Vienna’, che si riaprirà quattro anni dopo con Die papierene Brücke/The Paper Bridge (1987). 

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Wien Retour/Return to Vienna (1983), immagine d’archivio.
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Die papierene Brücke/The Paper Bridge (1987).

Qui è l’autrice a interrogarsi sulla propria identità ebraica e a chiedersi come si faccia oggi a mostrare la memoria di ciò che è stato per documentare il presente dell’Austria. Il suo è un lungo, personalissimo viaggio di avvicinamento e allontanamento da Vienna, città natale ed estranea, amata, persa, ritrovata, in bilico tra ricordo e miraggio, casa e altrove. La sua è un’investigazione che mette a tema non solo l’effetto dell’emozione sulla memoria, ma l’impossibilità di affidarsi all’“oggettività” degli archivi storici. I documenti sono infatti, per Beckermann, un materiale prezioso solo se li si affronta con sguardo critico e lucidamente annebbiato dalla propria incostante soggettività. Scaturisce da lì l’ultima tappa della trilogia, Nach Jerusalem/Towards Jerusalem (1990), un road-movie documentario in cui l’autrice si domanda che cosa ne è stato del sogno di una patria ebraica. 

Su ciò che resta dei sogni è impregnato un po’ tutto il cinema di Beckermann, un variegato teorema su quel residuo di illusione che, nonostante tutto, rende ospitale il mondo reale invitando all’azione. Della sua vasta filmografia, consultabile sul sito , ricordo in tal senso almeno altre tre opere cinematografiche – American Passages (2011); Those Who Go Those Who Stay (2013); Waldheims Walzer/The Waldheim Waltz (2018). Raccontano, nell’ordine, gli Usa colmi di speranza dell’era Obama; l’arazzo feroce e vitale delle migrazioni contemporanee, di masse umane in fuga da e dirette verso; il disvelamento del passato nazista di Kurt Waldheim, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1972 al 1981 e presidente dell’Austria dal 1986 al 1992. 

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The Missing Image, Vienna 2015 dettaglio fotogrammi d’archivio.

Segnalo infine The Missing Image, una videoinstallazione che Beckermann crea nel 2015. In Albertinaplatz, a Vienna, c’è dal 1988 un “Memoriale contro la guerra e il fascismo”, opera dello scultore austriaco Alfred Hrdlicka. Del complesso scultoreo fa parte la figura in bronzo di un vecchio dalla lunga barba. Piegato a terra sulle ginocchia quasi strisciasse, raffigura gli ebrei costretti a pulire le strade a mani nude durante il pogrom del marzo 1938, successivo all’annessione dell’Austria alla Germania. Ruth Beckermann completa la scena aggiungendovi “le immagini mancanti”, vale a dire proiettando a loop su due schermi montati lì accanto i fotogrammi ritrovati di recente negli archivi cinematografici viennesi. Il memoriale sembra animarsi, scrollarsi di dosso ogni retorica. Quell’uomo ridotto all’abiezione non è più solo, non è mai stato solo. Intorno a lui c’erano altri uomini e molte donne che, dalla confortevole posizione spettatoriale, potevano ridere spensieratamente della sua umiliazione. 

Sono quattro inviti a guardare e ascoltare con concentrazione, a sottrarsi allo stordimento indotto dall’assolutizzazione del presente, a riconoscere la propria non sempre latente ignavia. ad assumersi le proprie responsabilità, a prendere posizione.

Nell'immagine di copertina, The Missing Image, Vienna 2015, videoinstallazione 

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