Arundhati Roy: io e mia madre
Lo scriveva tanti anni fa la filosofa femminista francese Luce Irigaray per mettere a tema la complessa, tempestosa amorosità del legame madre/figlia, quell’impossibilità di prendere le distanze dal primo oggetto d’amore senza fracassarlo, senza fracassarsi.
A sessant’anni inoltrati, persa la madre novantenne nel 2022, Arundhati Roy – autrice di romanzi come Il dio delle piccole cose (1997) e Il ministero della suprema felicità (2017) e di testi politici come Quando arrivano le cavallette (2015), In marcia con i ribelli (2017) e Il mio cuore sedizioso (2020) – si inabissa in quel labirinto per sondarne narrativamente accessi, incastri, vicoli ciechi, vie di fuga, per domandarsi che nesso ci sia tra quella genitrice ‘gangster’ e la propria durissima scorza di donna che, al pari della madre, si è fatta da sé. E che, con altrettanta audacia, scrive.
Ne esce una fabula che è al contempo biografia (della madre), autobiografia e riflessione sul mestiere di scrivere. Sullo sfondo – ma chi ha familiarità con la cifra narrativa di Roy sa che nelle sue pagine i multipli piani della realtà e della fantasia coesistono in una sorta di intricata orizzontalità – l’India contemporanea e le sue lacerazioni. In Italia il libro è appena uscito con il titolo Il mio rifugio e la mia tempesta (trad. it. di Tiziana Lo Porto, Ugo Guanda Editore, 2025).
Preferisco tuttavia partire dal titolo originale, Mother Mary Comes to Me, Madre Mary viene da me, perché il duello senza resa è dichiarato fin da lì: un regolamento di conti tra pari, che tali sono proprio grazie all’intransigenza e all’imprevedibilità materna, alla sua passione di libertà che nulla ha a che vedere con i balbettii piccolo borghesi di certo femminismo occidentale. Mary Roy, cristiana siriaca del Kerala, sposata con un uomo inutile e madre di due bambini piccoli, si emancipa senza esitazioni dai vincoli coniugali nonché dai convenzionali obblighi materni. Ha una mira più alta, più politica, vuole che siano rispettati in ugual misura i diritti delle donne e degli uomini, che le figlie ereditino come i figli, che le bambine studino come i maschi, che il sesso, la razza e la classe non siano un destino che inchioda fin dalla nascita. Ecco perché, piantandosi come un cuneo nella società dalle vedute conservatrici del Kerala, oltre a far causa al padre e al fratello sulla successione ereditaria, fonda e dirige la scuola di Pallikoodam a Kalathilpady, un sobborgo della città di Kottayam.
I figli – all’inizio della storia Arundhati ha due anni e il fratello Lalith un anno e mezzo di più – crescono con lei, vivono e studiano in quella scuola/casa che la madre si inventa giorno per giorno. Il padre è evaporato, si è letteralmente dissolto, poco adatto con la sua passione per l’alcol e i piaceri della vita a quella donna dalle idee chiare e dalla volontà di ferro. Di lui, per un buon tratto delle trecentoquarantatre pagine del libro, non si parlerà più, se non come di un vuoto, un’assenza, una figura mancante, che ha mancato ed è mancata.
Con i figli Mary è più severa, più esigente, più crudele e autoritaria che con gli altri scolari. Vuole che eccellano per doti proprie e non è disposta a fare favoritismi. La sua titanica volontà di cambiare le regole sociali si traduce in freddezza affettiva e ossessione di controllo e la sua energia pedagogica inclina, forse di necessità, verso la dipendenza da lavoro. In questo quadro i piccoli Roy hanno due sole possibilità: resistere o spezzarsi e, più tardi, restare o fuggire. A diciotto anni Arundhati se ne andrà e non vedrà Mary né le manderà notizie di sé per i successivi sette anni. Un’emancipazione subita, certo, e tuttavia questo picaresco memoir, che sembra scritto di getto e con il cuore in gola come se l’urgenza di metterlo sulla pagina avesse la forza e la temperatura di un geyser, afferma ben altro. Le madri – buone, cattive, scomparse, assenti, affettuose, distratte, invidiose, fragili, potenti – ce le portiamo dentro anche a nostra insaputa. Possiamo rimpiangerle e modellarci sull’idea che ce ne siamo fatte o combatterle e smentirle in ogni pur minimo gesto fino alla morte. La nostra, non la loro.
La scaltrezza o la sapienza narrativa di Roy sta nel riconoscere la centralità di quel legame rendendo onore – da duellante, non da perdente – a un’antagonista che l’ha temprata facendole da madre senza maternage. «Forse ancor più che da figlia che piange la scomparsa di sua madre», afferma in apertura, «la piango da scrittrice che ha perso il suo personaggio più avvincente. In queste pagine, mia madre, la mia gangster, vivrà».
Niente male come soluzione al quiz proposto di recente sulle pagine del “New Yorker” dalla critica Rebecca Mead: What to Make of the Mother Who Made You, che fare della madre che ti ha fatto. Arundhati, attraverso il racconto, ha messo al mondo la sua dispotica e straordinaria madre biologica, le ha restituito la vita che da lei ha ricevuto. Nessuna rivincita, nessuna rappresaglia a posteriori, solo la gioia del narrare, il piacere dello scrivere fidando nella scrittura, senza altri fini o scopi superiori, senza apparente ‘necessità’. Come se l’uscita di scena materna l’avesse definitivamente emancipata dalla gabbia del dover essere e dell’autocensura.
Ma è arrivato il momento di cedere la parola a John Berger, un narratore molto caro ad Arundhati che in questo libro, oltre a mettere in esergo un passo del suo Pig Earth, porca terra, lo evoca in pagine cruciali proprio sul tema della scrittura. «Mio padre», scriveva John nel 1992, «è morto da dieci anni e mia madre da un mese, a novantatré anni. Sarebbe il momento naturale per scrivere un’autobiografia. La versione che darei della mia vita non potrebbe più ferire nessuno dei due. E il libro, una volta finito, sarebbe lì, un po’ come un genitore. L’autobiografia inizia dalla consapevolezza di essere soli. È una forma da orfani». Che la Mother Mary che raggiunge Arundhati e le permette di narrarsi sia proprio la scrittura e questo libro un ‘genitore’ che non ti lascia sola?
Ma ascoltiamo ancora. A pagina 302 Arundhati scrive: «John Berger avrebbe potuto scrivere un libro intitolato Modi di ascoltare. Ascoltava con tutto il corpo. Come se le mie parole fossero pioggia e lui fosse terra. Assorbiva tutto, raccoglieva ogni goccia, non si perdeva assolutamente nulla. I suoi occhi in ascolto erano laghi d’alta montagna. Era amore, non c’è altra parola per definirlo». Su richiesta di John, Arundhati gli ha letto l’inizio di Il ministero della suprema felicità, il romanzo cui lavora da anni, perché ci sono sempre cose più importanti e urgenti da scrivere. «Quando terminai», prosegue Roy, «disse: “Voglio che mi prometti che andrai a casa e finirai questo libro. Non farai altro che finire di scrivere questo libro. Se qualcosa dovesse turbarti, ricordati che sono proprio dietro di te come un vecchio elefante, a sventolare le orecchie per farti fresco”. Forse è la cosa più bella che qualcuno mi abbia mai detto. Finché lui non lo disse, non mi ero resa conto di quanto avessi bisogno di un vecchio elefante».
Arundhati non manterrà la promessa, perché «qualcuno infilò una busta sigillata sotto la mia porta. Era un invito del partito comunista indiano (maoista), ovvero i naxaliti, ad andare nella foresta di Dandakaranya nel Bastar, dove infuriava una sanguinosa guerra. La guerra era nuova, ma la storia era vecchissima. C’entravano aziende minerarie, soldi, bugie, soldati, guerriglieri, vigilanti, violenza barbarica e la devastazione del pianeta. Una vecchia storia che deve essere raccontata di continuo perché mette alla prova il significato stesso di progresso, felicità e civiltà».
John Berger capisce e le scrive, «Arundhati, non smettere di protestare, ma raccontaci anche le storie che hai incontrato, di cui sei diventata parte, che ti hanno accompagnata nel viaggio attraverso la lunga notte. Ne abbiamo bisogno».
Beh, credo che Jumbo, come lei lo chiamava, apprezzerebbe molto questa ‘storia’ in cui la temibile Mary diventa quel gran personaggio che deve essere stata davvero. E con lei il padre, ricomparso senza un soldo e male in arnese quando Arundhati e suo fratello hanno quasi trent’anni. Nessun giudizio da parte di Roy, solo stupore e una sorta di incantata meraviglia di fronte a quell’uomo ‘inutile’, maestro, malgrado tutto, nell’arte di vivere.
E, a chiusura del libro, le parole scritte sulla lapide della madre:
Mary Roy,
Sognatrice Guerriera Insegnante
07/11/1933 – 01/09/2022
Fondatrice della Pallikoodam
Poco più in là, inciso «Sull’abbeveratoio in pietra grezza (in omaggio a Toni Morrison)»:
AMATISSIMA
il non-nome della bambina uccisa per troppo amore dalla madre schiava, perché il padrone non le faccia del male.