Richard Schechner, Uomo che ride
Cornice 1
Venezia, 5 giugno 2025.
Ca’ Giustinian, Sala delle Colonne. Tavola rotonda dal titolo: “Biennale ’75-’25. Cinquant’anni di nuovo teatro”. La tavola, come d’uso, è rettangolare, e gli ospiti sono seduti tutti dalla stessa parte, fianco a fianco, di fronte al pubblico. Un piccolo show monodirezionale – una decina di minuti a testa – che, dati il tema, la storia e l’età dei relatori (Eugenio Barba e Julia Varley dell’Odin Teatret; Thomas Richards, “collaboratore essenziale” di Jerzy Grotowsky; Chris Torch, Satyamo Hernandez, Toby Marshall del Living Theatre; Richard Schechner, professore emerito presso la Tish School of the Arts delle New York University, studioso, regista, direttore del trimestrale “The Drama Review”, fondatore nel 1967 di The Performance Group) tende inevitabilmente a piegare verso la celebrazione dei bei tempi andati, a farsi nostalgica. Un ‘noi c’eravamo’ più mitizzante che testimoniale e dunque lievemente esclusivo o incline a trasformarsi in principio d’autorità… a meno di non saper intrecciare quel passato con un presente che, ammettiamolo, a esso somiglia assai poco.

Già prima di salire sulla pedana e di sedersi al suo posto, il novantunenne Schechner (che nel 1976, dopo avergli fatto un provino, accoglie nel suo gruppo teatrale il ventunenne Willem Dafoe, oggi direttore della Biennale Teatro) manda a dire con chiarezza a pubblico e colleghi che lui tanto sul serio non ha voglia di prendersi. In fila come un insieme di ballerine di can-can per l’iniziale foto di rito, mentre gli altri se ne stanno lì un po’ impalati, lui alza una gamba dopo l’altra, slanciandola verso l’alto in uno sdrammatizzante passo di danza. A seguirlo sarà solo un divertitissimo Dafoe, che nei panni ingessati del direttore è evidente che ci sta stretto.
Ma il bello deve ancora venire. Quando è il suo turno di prendere la parola Schechner, che per tutto il tempo ha preso appunti, inizia il suo discorso citando un verso di William Butler Yates: “Many ingenious lovely things are gone”, molte cose ingegnose e adorabili sono sparite. Rimpiangerle, crogiolarsi nel ricordo, tentare di riprodurle? No, la vera domanda da porsi è: “quando avrete la mia età, gli esseri umani, gli animali, la natura ci saranno ancora, o ne resterà solo la rappresentazione?” Per ricordarci subito dopo che “il 1975, anno inaugurale del cinquantennio in questione, è stato un anno di ottimismo. Non che il male non fosse ovunque anche allora, ma c’era speranza. Oggi c’è un impulso altrettanto forte, ma di segno negativo, che inclina verso la disperazione. La speranza è come un pendolo: oscilla. Si tratta di rimetterlo in movimento e, per riuscirci, è necessario interrogarsi profondamente sulle possibilità e impossibilità di futuro. Di garanzie di riuscita non ce ne sono e non c’è nessun Cristo ad annunciarci una qualche rivelazione. L’unico dio a disposizione è il falso dio dei social media”.
Cornice 2
Venezia, 6 giugno 2025, 11.00 del mattino. Casa Verardo. Richard Schechner è ospite qui, in un angolo appartato della città. Qualche giorno prima, attraverso un breve scambio di email, ci siamo accordati per un’intervista. Arrivo con il consueto anticipo (se per ansia o curiosità di esplorare con agio il territorio non l’ho ancora capito), mi sistemo in giardino e lo aspetto. Alle 11.00 spaccate eccolo lì, bretelle su camicia un po’ tirata sullo stomaco prominente. In una fiaba potrebbe essere uno gnomo oppure un magnifico oste di quelli che fanno magie con le tovaglie e i fiaschi di vino.
Primo gesto di ospitalità: “un caffè? qualcosa da bere?”
Secondo gesto di ospitalità: “parlami di te, per parlare di me ho bisogno di sapere con chi parlo”. E ascolta davvero, chiede, commenta. I miei anni ottanta a NYC, trascorsi tra l’università dove lui insegnava e la comunità teatrale che lui aveva contribuito a creare, sigillano una possibile fiducia. Si parte.

La prima cosa che ci tiene a mettere in chiaro è il suo rapporto con Elizabeth LeCompte, Willem Dafoe e il Wooster Group. Per anni la prima è stata con lui come performer e poi assistente alla regia.
“L’ho diretta in cinque spettacoli del Performance Group: The Tooth of Crime (1972) di Sam Shepard; Mother Courage and Her Children (1975) di Bertolt Brecht; The Marilyn Project (1975), di David Gaard; Cops (1978) di Terry Curtis Fox; The Balcony (1979) di Jean Genet. E nel 1976 è entrato in compagnia Willem Dafoe, che sarebbe presto diventato suo compagno e padre di Jack, loro figlio. Precedentemente Elizabeth stava con Spalding Gray, un’altra figura per me molto importante.”
Ma come avviene il ‘distacco’ tra il Performance Group e il Wooster Group?
“Non si tratta di un distacco, ma di un ‘passaggio’, tant’è vero che il primo lavoro del Wooster Group, nel 1980, avviene sotto la supervisione del Performance Group e che lo spazio del Performing Garage, dove il gruppo di Elizabeth continua tuttora a operare, era di mia proprietà e che io gliel’ho ceduto. Il nome del loro gruppo altro non è che il corporate name, la denominazione sociale, del Performance Group. Se penso che oggi uno spazio simile a Soho vale tra i tre e i quattro milioni di dollari, un po’ di rimpianto mi viene, ma solo un po’. Sono molto fiero di aver sponsorizzato il loro lavoro e quello di altri. Che cosa è stato a provocare il ‘passaggio’? Beh, nel 1981 avevo cominciato a lavorare sodo alla costruzione di quello che sarebbe diventato il Performance Studies Department di NYU. La mia attenzione era sempre più rivolta alla ricerca accademica e alla teoria. Mi piaceva molto dirigere e ho continuato a farlo, e non mi dispiaceva neppure il lavoro amministrativo e gestionale. Il problema è che non si può fare tutto e desideravo concentrarmi sull’accademia. Di libri ne avevo già scritti alcuni, ma una vera e propria disciplina non l’avevo ancora modellata. Nel 1977 ho incontrato l’antropologo Victor Turner e da lì è cominciata un’intensa collaborazione che ha dato una profondità diversa al mio lavoro.”
E poi c’è quella che potremmo considerare una creatura di Schechner, “The Drama Review”, un trimestrale nato nel 1955 e da lui diretto dal 1962 al 1969 e di nuovo, ininterrottamente, dal 1986 a oggi. Un lavoro, quello di cura, che gli piace e gli permette di tenere i suoi sei vivacissimi sensi sintonizzati sul mondo. “Invecchiare”, mi dice, “non acuisce e non opacizza i sensi. Si tratta solo di tenersi in forma e di continuare a essere attivi. Anni fa ho fatto la scelta consapevole di non trascurare il mio corpo, perché ho capito che senza attività fisica la mia acutezza mentale declinava. E così cammino molto, faccio ginnastica, pesi, aerobica, yoga e sono orgoglioso di avere recuperato più o meno il mio peso forma, quello che avevo da giovane quando ero nell’esercito Usa”.
Parliamo di ottimismo, allora, o di speranza, sentimenti che Schechner con tutta evidenza ama e coltiva.
“Per me ottimismo e speranza sono concetti molto simili, anche se l’ottimismo rappresenta il lato più attivo della speranza. Il loro contrario sono pessimismo e disperazione. La speranza è il desiderio e la convinzione che le cose piegheranno al meglio, che la tempesta passerà, che approderemo a un porto sicuro. La disperazione induce a pensare che siamo al cataclisma, che per la specie umana il finale di partita sia arrivato. Ebbene, in testa io ho la tragedia, ma nella pancia ho la commedia.
Che cosa intendo per tragedia? Una situazione in cui due contendenti, due soggetti in conflitto, hanno entrambi le loro ragioni, la loro legittima causa. Il prototipo resta per me la storia di Salomone e del bambino conteso. Se una delle due parti fosse nel giusto e l’altra nel torto, non ci sarebbe storia. Pensiamo ad Antigone e Creonte: hanno entrambi ragione, anche se alla luce di due sistemi di valore inconciliabili. Oppure prendiamo la tragedia in corso nel Vicino Oriente: ciò che sta subendo la Palestina è inaccettabile da ogni punto di vista, eppure bisogna ascoltare anche le ragioni dell’altro popolo. In quel pezzo di mondo ‘il cattivo’ è, fin dall’origine, Dio, che promette a entrambi i popoli la stessa terra. Nell’Antico Testamento che, io ebreo, preferisco al Nuovo, i fratelli lottano sempre tra di loro. Pensa a Caino e Abele, a Ismaele e Isacco, a Giacobbe ed Esaù. La rivalità fratricida è una tale costante da non poter essere un caso. La nostra è un’eredità di ingiustizia, inganno, tradimento mescolati insieme.
Ecco perché, da uomo di teatro, non sono interessato al racconto di storie semplici. Rifiuto le semplificazioni eccessive. La realtà è complessa e come tale va trattata, il che non toglie che io sia solidale con la popolazione sofferente di Gaza.”

Un richiamo ai tempi lunghi e alle pieghe della Storia, che non ha terminali e non offre soluzioni immediate e tantomeno definitive.
“Noi umani non siamo una specie calma, siamo in grado di presagire il paradiso, ma viviamo in purgatorio. L’Europa fino a pochi decenni fa era solo un’idea nella mente di pochi e il Belgio ha attraversato duri conflitti prima di federarsi in un unico Stato. E allora osserviamo e cerchiamo di capire come stanno le cose e muoviamoci a partire da lì. Evitiamo di essere ciechi ma anche di essere iperottimisti o iperpessimisti. Prendiamo atto che oggi la povertà intellettuale alimentata dai social media (il panem et circenses dei nostri tempi) non può che produrre ‘uomini o donne forti’ o ‘salvatori fasulli’. Finché in Occidente persiste questo vorace Colosseo mediatico e la spettacolarità dell’intrattenimento violento mentre in Darfour, Palestina, Yemen… si muore davvero, l’attuale sistema non può che perpetuarsi e la logica politica del bianco e nero consolidarsi. So solo che quando un bambino muore o viene ucciso il mio cuore si spezza.”
Compassione e tenerezza come alfabeto artistico e bussola esistenziale sono un portato dell’età?
“Sì, col tempo si arriva a capire che la vita è al contempo un dono e un compito. Come descrivere questo compito? Fare individualmente, con i propri strumenti professionali e umani, ciò che molti stanno facendo in altri modi, percorrendo il tuo stesso cammino. Io scrivo, curo, pubblico, condivido tutto ciò che scopro, cerco di vivere pienamente. Il teatro che continuo ad amare è quello di Bertolt Brecht, un autore capace di tenere insieme nei medesimi spettacoli umanesimo, alienazione e critica. Mi piace il suo atteggiamento verso la storia. Nelle sue opere è sempre presente la complessità che nasce dall’accostare il caso specifico, locale, e la grande Storia, che ci ricorda costantemente che altrove in quello stesso momento sta accadendo qualcosa d’altro. Prendi Madre Courage e i suoi figli, il cui sottotitolo è Cronaca della guerra dei Trent’anni. Il suo urlo muto davanti alla ferocia della guerra che le strapperà tutti e tre i figli deve fare i conti con il mercato della sopravvivenza. Solo Dio può vederlo e udirlo. Ed è una tragedia a causa di questa giustapposizione di dolore assoluto e necessità quotidiana. Si tratta tuttavia di una tragedia antitragica, perché Madre Courage, a differenza di quanto avviene nella tragedia greca dove l’eroe o l’eroina muore dopo avere appreso qualcosa (Antigone rinuncia alla vita ed Edipo alla vista in cambio della conoscenza), non impara niente. Dovremmo essere noi spettatori e spettatrici a capire ciò che lei non vede: la guerra è infinita e a pagarne il prezzo non sono coloro che la vogliono, ma coloro che la subiscono. Courage oggi è Gaza.”
Torniamo all’idea della tragedia nella testa e della commedia nella pancia.
“Mi riferisco alla ‘commedia’ nel senso dantesco del termine, nel senso olistico della Storia. La commedia include la risata, non la trascende. Tragica è la realizzazione che la morte ingoierà tutti noi. Comica è la realizzazione che forse tu o io moriremo, ma adesso siamo ben vivi.”
Che sia per questo che i privilegiati sono più dalla parte del tragico e tutti gli altri – poveri, sofferenti, morituri – paradossalmente dalla parte della commedia?
“La commedia è divertente ed è la realizzazione di un adempimento. Dev’essere per questo che il Cristianesimo, nonostante la croce, il sacrificio e il martirio, ha in sé l’elemento circolare del compimento: si nasce, si vive, si muore, si rinasce. Personalmente aspiro a una religione che faccia a meno del sacrificio, ma qui almeno c’è una risoluzione. Inoltre la risata spoglia l’autorità del suo potere. La tragedia, che è sempre un omaggio al potere, può mostrarci che il re è pazzo, ma solo la commedia ci dice che il re è un buffone.”
Qui a Venezia vige un clima piuttosto serio. Nessuno sembra avere voglia di ridere. Spettacoli cupi, didascalicamente aggrappati alla cronaca, magniloquenti oppure speculari a un pubblico che, almeno a teatro, vuole sentirsi buono. È per questo che ieri, alla fine della tavola rotonda in compagnia di alcuni mostri sacri del teatro mondiale, quando vi è stato chiesto quale domanda vorreste rivolgere al pubblico, lei, invece di porre un quesito retorico-colpevolizzante, ha chiesto: “Che cosa mangerete stasera a cena?”
“Sì, mi ero stancato di tutti quei discorsi senza scambio con il pubblico. Non me l’aspettavo e non mi piace fare la ‘testa parlante’.

Ci sono compagnie e opere teatrali che dovremmo, a suo avviso, tenere d’occhio?
“Negli Stati Uniti almeno due compagnie: il Tectonic Theater Project di Moisés Kaufman e The Builders Association di Marianne Weeems. Del primo segnalo due opere interessantissime, Here There Are Blueberries e The Laramie Project, frutto entrambe di un’accurata ricerca storica e sociale sul campo. Del secondo, Atlas Drugged (Tools for Tomorrow), un’analisi lucida e scherzosa del momento attuale, in cui le ‘evidenze’ generate dall'intelligenza artificiale influenzano gran parte di ciò che pensiamo e proviamo. Vi si simula anche la creazione da parte della Silicon Valley di un candidato influenzato dall'intelligenza artificiale, sintonizzato sui sentimenti e le emozioni del grande pubblico, progettato e testato in base alle nuove strategie delle campagne pubblicitarie.”
Una bella corrispondenza con il reale quadro politico nordamericano.
“Sì, e io continuo a dire che figure come Trump e Musk mi sorprendono, ma non mi scioccano. La buona notizia è che forse i loro due ‘big ego’ si elideranno e distruggeranno a vicenda. Poi salterà fuori qualche nuovo leader, magari mediocre, ma più assennato. Per ora il ‘terzo’, vale a dire quel personaggio che nella cristianità si incarna nello Spirito Santo, non è ancora in vista.”
In quell’istante atterra ai nostri piedi un piccione. Schechner scoppia a ridere e mi dice che per anni si è domandato perché nell’arte sacra occidentale comparisse sempre – e in posizione apicale – un volatile perlopiù bianco. “Poi un giorno mia moglie, cattolica, mi ha spiegato che non era un semplice uccello, che era nientepopodimeno che la terza persona della Santissima Trinità.”

Cornice 3
Venerdì 6 giugno, ore 15.00. Ca’ Giustian. Lectio Magistralis di Richard Schechner, ovvero settanta minuti esatti di presentazione ed esemplificazione, a voce e con l’intero corpo, del proprio lavoro sul Rasa, a partire dal Nātyaśāstra di Bharata, il più importante testo teorico sul teatro classico indiano. Per citare le parole di Dario Tomasello, che lo introduce: “Schechner lo esamina, non nel segno di un interesse verso il multiculturalismo, ma come ambito sperimentale, partitura processuale e nucleo emozionale, capace di unire il dentro e il fuori, nel teatro come nella vita. Una volta ancora, la sua lezione inizia con un atto di fondamentale onestà intellettuale, ma anche nel nome di una prospettiva imprevista, perché come recita l’epigrafe eraclitea del suo capolavoro: ‘Chi non è capace di seguire l’imprevisto, non vedrà mai nulla’”.
La lezione si chiude come è cominciata: “Non voglio avere l’ultima parola”, dichiara Schechner, invitando i presenti a intervenire, fare domande, commentare. E così è.
Per chi volesse saperne di più, rimando al Dyonisus in ’69 che Richard Schechner dirige nel 1968 (filmato da Brian De Palma, è oggi visibile qui) e ai suoi numerosi libri disponibili in italiano, tra cui Magnitudini della performance, a cura di Fabrizio Deriu, Bulzoni 1999; La teoria della performance 1970-1983, a cura di Valentina Valentini, Bulzoni 2016; Il nuovo terzo mondo dei Performance Studies, a cura di Aleksandra Jovićević , Bulzoni, 2017; Introduzione ai Performance Studies, a cura di Dario Tomasello, Cue Press 2018.
Il 4 giugno scorso l’Università di Messina ha conferito a Richard Schechner il Dottorato di Ricerca Honoris Causa in “Scienze Cognitive”.
L’ultima fotografia è un ritratto di Richard Schechner di Maria Nadotti.
