5 per mille

Biennale teatro. Ritorno al futuro?

11 Giugno 2025

Con un remake di Symphony of Rats – testo di Richard Foreman e regia di Elizabeth LeCompte e Kate Valk del Wooster Group di NYC – si è inaugurata il 31 maggio scorso la Biennale Teatro 2025, diretta dall’attore statunitense Willem Dafoe, che proprio in seno a quel gruppo si è formato come performer a partire dagli anni settanta del secolo passato. Fu Richard Foreman stesso a dirigere per la prima volta nel 1988 quella sua opera, coproducendola insieme al Wooster Group. All’epoca il lavoro andò in scena nel cubo nero del Performing Garage, sede storica del gruppo, 33 Wooster Street, Soho, ex quartiere industriale allora tra i più derelitti e dunque economicamente accessibili di Manhattan. Lì, negli anni sessanta e settanta, si potevano affittare senza svenarsi grandi spazi manifatturieri abbandonati. Il Wooster Group ne acquisisce uno e ci si radica trasformandolo in spazio teatrale su misura per i propri esperimenti sui testi, sulle voci, sui corpi dei performer in uno spazio fisico ‘laboratoriale’ da condividere con il pubblico. A cofondarlo nel 1980 e ad assumerne la direzione, Elizabeth LeCompte, fino ad allora assistente di Richard Schechner, che nel 1967 ha dato vita a The Performance Group. La loro non è una rottura, ma una progressiva individuazione di metodi e intenti affini e tuttavia dissimili.

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The Wooster Group, Symphony of Rats, 2025. Da sinistra Ari Fliakos, Andrew Maillet, Jim Fletcher, Guillermo Resto © Spencer Ostrander.

Nella Sinfonia dei ratti di fine anni ottanta – in un’America affidata alle cure di un presidente ex attore hollywoodiano ai primi stadi del morbo di Alzheimer, devastata dai tagli alla spesa pubblica, dall’epidemia di Aids e dalla conseguente persecutoria creazione di capri espiatori, da una ‘tolleranza’ che va rapidamente avvicinandosi allo zero – Foreman mira a creare un evento vertiginoso e multisensoriale in cui le operazioni del pensiero siano il vero soggetto del dramma. La chiave di volta della sua creatura teatrale, l’Ontological-Hysteric Theater, è questa: non si tratta di narrare, spiegare, interpretare, recitare, ma di entrare nel ritmo convulso, contraddittorio, misterioso della mente e di quell’abitacolo senziente che è il corpo, con le sue defezioni e deiezioni, le sue ossessioni e le sue compulsioni. La disattivata macchina desiderante in cui si stanno trasformando lo spettatore e la spettatrice medi, saturi di beni di consumo acquisiti, sognati, invidiati, rischia uno stato di letargia cognitiva definitivo. Troppo ordine, troppe semplificazioni, troppa linearità, troppo storytelling deprimono la materia grigia, la atrofizzano. Sarà il caos organizzato in un complesso sistema di punti di vista diversi, e talora dichiaratamente neurodivergenti, a risvegliarla. Bando a ogni forma di indottrinamento, di pur dissidente pedagogia. Benvenuto quel radicale disorientamento che costringe ad aprire occhi e orecchi e ad aguzzare l’ingegno.

Chi, nei testi e nelle regie di Foreman, cerca un filo conduttore, una storia, personaggi riconoscibili, non può che sentirsi frustrato. L’intreccio che ti viene proposto è un altro e riguarda proprio la messa in questione delle trame che vanno da qui a lì, con perimetri ben definiti e riconoscibili, traiettorie lineari e prospettive identificabili a prima vista. La scena a lui cara è agerarchica, anarchica, paradossalmente molto più aderente al reale di qualsiasi palcoscenico naturalista: tutto si muove al contempo e in ogni direzione, voci, sguardi, oggetti, movimenti, suoni, fili, immagini moltiplicate in schermi e specchi. A chi guarda e ascolta la decisione e il compito di portare la propria attenzione qui anziché lì, per quanto tempo e in funzione di quale copione interiore in via di costruzione. Foreman non intrattiene e non vuole ingraziarsi il pubblico o compiacerlo. Anche per chi ad esso partecipa nel ruolo di spettatore o ‘testimone passivo’, l’atto teatrale è un lavoro in corso: richiede energia, passione, memoria, immaginazione, capacità di connettere e consapevolezza del mondo. Non a caso una delle battute – o dovremmo dire ‘appello’? – cardine della sua Sinfonia è “Non avere una mente, sii la mente”.

2021. NYC. Richard Foreman, che morirà il 4 gennaio 2025 a quasi novant’anni, viene interpellato da Elizabeth LeCompte, suo antico braccio destro: il Wooster Group vorrebbe rimettere in scena la sua Sinfonia dei ratti. Che cosa ne pensa l’autore? Risposta: “Fate quello che volete! Spero sia completamente irriconoscibile”. E LeCompte, coadiuvata alla regia da Kate Valk, che nell’edizione del 1988 era in scena come performer, si mette all’opera. Il 2 dicembre di quell’anno, in piena emergenza Covid, iniziano le prove, che andranno avanti a periodi alterni fino al marzo del 2024, momento del debutto newyorkese, seguito da alcune repliche a Los Angeles e a Nashville. A gennaio di quest’anno riprendono le prove che porteranno alla performance veneziana e al conferimento del Leone d’oro alla carriera a LeCompte. Un lavoro collettivo e ininterrotto, come ci tiene a precisare la regista in un breve discorso di ringraziamento, che riporto qui come sintesi di un metodo artistico che è anche un’indicazione politica: “Il Wooster Group è ed è sempre stato un esperimento in corso: una collisione di corpi, macchine, testi e fantasmi. Facciamo a pezzi le cose... e poi cerchiamo di capire come potrebbero essere riassemblate… per creare qualcosa di nuovo. E se questo vale un Leone d’oro, allora lo accetto... a nome di ogni collaboratore – ogni tecnico pazzo, ogni attore che si è mai chiesto: “E se provassimo in questo modo...?” Quindi merito questo premio solo in parte. La parte più importante appartiene ai miei colleghi del gruppo. Mi hanno dato tutto ciò che ho. Il nostro modo di lavorare insieme è straordinario e sono molto, molto fortunata. Grazie.”

 

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Elizabeth LeCompte, 2025 © Yudam Hyung Seok Jeon.



Venezia 2025, dunque, Teatro alle Tese. In scena Niall Cunningham, Jim Fletcher, Ari Fliakos, Andrew Maillet, Tavish Miller, Michaela Murphy, Guillermo Resto, sette performer anziché quattro come nell’edizione storica. Il set, stratificato quanto basta per essere attribuibile a prima vista, è quello caro al Wooster Group: un lungo tavolo rettangolare parallelo al pubblico, assediato in altezza, larghezza e profondità da utensili tecnologici avanzatissimi annegati in una sorta di polveroso bric-à-brac. A sezionare in profondità lo spazio scenico: un fondale/schermo; un grande monitor su cui scorrono immagini che interagiscono con i performer; vari speaker; una foresta di cavi, fili, tiranti, pulegge, pannelli mobili manovrati con fulminea destrezza, da destra a sinistra, come velocissimi tagli di montaggio. Poiché la nuova Sinfonia dei ratti mette a tema le interferite temporalità della mente umana contemporanea, quei siparietti che creano un istante di imprevisto blackout, di cesura, annunciano che anche il tempo mentale è una variabile multipla e incostante, un’illusione ritmica.

Tutto ha inizio a partire da un sogno. Ari Fliakos, l’attore che impersona il non meglio identificato ‘Presidente’ (ruolo nel 1988 affidato al magnifico Ron Vawter, all’epoca già malato di Aids, che nel 1994 morirà di infarto a bordo di un aereo che da Zurigo lo sta riportando a New York), sogna la propria dissociazione e lo racconta alla compagnia, che lo ingloberà come materia prima nel proprio remake. Siamo in piena emergenza Covid e la nostra psiche, insieme alla nostra percezione dello spazio pubblico e privato e del tempo, un tempo che all’improvviso si è fermato, comincia a misurarsi con i propri fantasmi e a diventare sostanza dei nostri incubi. Una vera e propria alterazione sensoriale e cognitiva. Chi siamo? Siamo davvero quello che pensiamo di essere? In che spazio agiamo? Chi sono coloro che ci stanno accanto? Dove sono spariti gli altri? A chi affidarsi? Con quale visione, progetto, destinazione? È immaginabile il futuro nel tempo statico di un confinamento sine die?

La ‘pillola magica’ che il presidente ingoiava nell’ouverture della Sinfonia foremaniana per trasferirsi nell’immensità dello spazio intergalattico, si trasforma qui, in modo non pedissequo, nella duplice inoculazione di un vaccino antiinfluenzale e del vaccino anti-COVID-19. Comincia da lì il viaggio psichedelico in compagnia dei ratti del Wooster Group. E, a poco a poco, ci si accorge che quel presidente dinamico e instabile, la cui ‘Polaroid mentale’ si è guastata, non è Nixon, Clinton, Reagan, Biden, Trump…, bensì il cittadino tipo delle ‘democrazie’ occidentali odierne. Il ‘ratto da laboratorio’ siamo noi. Inutile cercarlo in qualche personaggio pubblico su cui scaricare i peccati del mondo. Nemica giurata tanto della letteralità quanto della metaforicità pomposa che, poveri noi, spesso si accompagna al teatro di ricerca o variamente impegnato, LeCompte propone qui un gioco scatenato di rimandi, citazioni filmiche e letterarie, autocitazioni, stacchi musicali che non danno scampo a chi pensa che ridere e far ridere non sia serio, che la compostezza sia una virtù.

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Da sinistra: Andrew Maillet, Niall Cunningham, Ari Fliakos.

Fisico atletico enfatizzato da una canottiera alla “Un tram che si chiama desiderio”, salute di ferro, dieta e funzione sfinterico-digestiva supervigilate, abbigliamento casual, inclinazione alla disciplina refrigerante dello sport – quante palle, palline, palloni targati Spalding sul palcoscenico (un omaggio a Spanding Gray, membro fondatore della compagnia, morto suicida nel 2004?) – il ‘Presidente’ di Ari Fliakos e la sua esilarante, canora corte di ratti/alter ego/super io dalle voci angeliche, cavernose, virate da tecnodistorsioni controllate al millesimo, hanno ben poco a che vedere con la formalità metronomica dei personaggi in completo nero – un po’ FBI, un po’ Blues Brothers e molto Roy Cohn – della Sinfonia del 1988. E ci mancherebbe altro: sono passati trentasette anni, due misteriose emergenze sanitarie globali non domate e almeno nove ‘guerre’ conclamate. Nel frattempo la protesica mutazione antropologica prodotta dall’intelligenza artificiale si è tradotta in progressiva disidratazione della cosiddetta intelligenza naturale. La mirabile promessa tecnologica annunciata negli anni ottanta si è convertita in incubo e il futuro è evaporato.

Che fare? Riandare con nostalgia ai bei tempi andati, che tanto belli non sono mai stati? Monumentalizzarsi come Romeo Castellucci, mettendo letteralmente in scena l’Angelo della storia benjaminiano e la tempesta di vento che lo spinge verso il futuro lasciandosi alle spalle cumuli di macerie e dolore? Denunciare in formato pop l’abuso (e autoabuso) sociale e mediatico dell’immagine imperitura della jeune fille che toglie tutte le voglie del mondo, come fa la tedesca Yana Eva Thönnes nel suo macchinoso Call Me Paris?

Non può essere un caso che la proposta per ora, a mio avviso, più interessante in arrivo dalla Biennale Teatro di Venezia sia proprio questo ritorno al futuro di una ultraottantenne che ha dimestichezza con i fantasmi e che sa burlarsi di se stessa e di loro.


Nell’ultima immagine un momento dello spettacolo. Da sinistra: Michaela Murphy, Ari Fliakos, Jim Fletcher, Guillermo Resto ©Angel Origgi.

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