Scala. Boris Godunov: profezia sulla Russia

6 Dicembre 2022

Capolavoro isolato e anomalo dell’Ottocento operistico, Boris Godunov di Modest Musorgskij ha avuto vicende compositive ed esecutive particolarmente complesse. Per restare in Italia, un elenco degli allestimenti dalla prima assoluta avvenuta alla Scala il 14 gennaio 1909 fino alla metà degli anni Novanta, dimostra che durante il secolo scorso nei teatri della penisola sono state proposte almeno otto versioni diverse della partitura, prodotta peraltro più di 160 volte in 85 anni, e 26 volte a Milano, capitale della fortuna di Musorgskij nel nostro Paese. In queste esecuzioni prevale nettamente la revisione firmata da Nikolaj Rimskij-Korsakov nel 1896 e dopo varie esecuzioni in Russia a cavallo del secolo approdata a Parigi, ulteriormente elaborata, nel 1908. Grazie ad essa l’Occidente scoprì con sorpresa ed entusiasmo questo titolo, subito facendone un elemento decisivo del nascente modernismo. E un caposaldo del repertorio.

Questa versione è stata proposta in adattamenti di varo tipo, caratterizzati da aggiunte od omissioni di specifiche scene o di un intero atto (il terzo), ma l’elenco comprende anche rarità come la revisione firmata da Dimitrij Šostakovič nel 1940 (eseguita per la prima volta in Russia solo nel 1959 e a Venezia nel 1967). O la rappresentazione secondo la prima edizione integrale dell’opera, che fu pubblicata a Mosca nel 1928. 

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Delle due versioni autografe di Musorgskij, datate 1869 e 1872, la più diffusa è probabilmente la seconda, rappresentata su un palcoscenico italiano (quello del Maggio Musicale Fiorentino) nel 1940 e diventata sempre più frequente a partire dagli anni Ottanta, dopo la pubblicazione dell’edizione critica, avvenuta nel 1975. Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per la prima versione, il cosiddetto Ur-Boris (il Boris originale), in Italia allestito inizialmente nel 1971 al Festival di Spoleto. È questa la proposta del Teatro alla Scala per il prossimo 7 dicembre, in occasione dell’inaugurazione della stagione.

Documentando la multiformità degli “assemblaggi” per la rappresentazione, la ricerca (realizzata dagli specialisti del repertorio operistico Giorgio Gualerzi e Carlo Marinelli Roscioni e pubblicata nel programma di sala di una produzione del Boris alla Fenice) provava la persistenza anche in Italia del fenomeno globale che uno dei maggiori studiosi di Musorgskij, lo storico della musica americano Richard Taruskin, ha definito “furia sincretistica”. La tendenza, cioè, a realizzare partiture d’uso di quest’opera, mettendo insieme parti o addirittura intere scene appartenenti a versioni differenti, sia nel caso degli autografi che in quello della revisione di Rimskij-Korsakov. In genere, queste scelte venivano giustificate con la volontà di non rinunciare a pagine considerate di rilevante importanza; o di escluderne altre per la loro asserita debolezza. Oggi fortunatamente prevale sempre più spesso l’omogeneità richiesta da esecuzioni storicamente consapevoli.

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L’intricata storia di questo “dramma musicale popolare” per molti aspetti unico inizia nel settembre del 1868. Musorgskij non aveva ancora 30 anni (era nato il 21 marzo 1839) e aveva già aderito a quello che era stato definito dal pubblicista e suo fedele mentore Vladimir Stasov “il potente gruppetto”, cioè il Gruppo dei Cinque. Oltre a lui ne facevano parte Milij Balakirev, Tzesar’ Kjuj, Nikolaj Rimskij-Korsakov e Igor Borodin: tutti musicisti fautori di una visione nazionalistica ma soprattutto radicale della musica in Russia. Musorgskij, che aveva una formazione sostanzialmente da autodidatta (in seguito sarebbe stato spesso etichettato come “dilettante”), era in quel periodo particolarmente interessato al teatro musicale e stava lavorando alla trasposizione di una commedia di Gogol’, Il matrimonio, di cui avrebbe completato solo il primo atto. Decisivo fu l’incontro con lo studioso di storia Vladimir Nikol’skij. Il suo suggerimento di trarre un’opera dal Boris Godunov di Aleksandr Puškin fu accolto con entusiasmo dal giovane compositore, che si mise subito al lavoro.

Scritto nel 1825, pubblicato nel 1831 e arrivato alle scene solo nel 1870, il dramma del grande poeta racconta, sulla scorta della Storia dello stato russo di Nikolaij Karamzin, vicende accadute durante il cosiddetto Periodo dei Torbidi, dopo la morte dello zar Ivan il Terribile, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600. Boris, del quale Ivan aveva assoluta fiducia, aveva svolto le funzioni di reggente durante il regno del pio Fëdor, considerato debole di mente, ed era salito al trono alla morte di quest’ultimo, perché nel frattempo era morto anche l’ultimo figlio del Terribile, Dimitrij, un bambino di sette anni trovato con la gola squarciata da un coltello. Su questo episodio lo stesso Boris aveva ordinato un’inchiesta, che ufficialmente aveva escluso la responsabilità di qualcuno in una fine causata probabilmente da un attacco epilettico. In breve tempo, però, le tensioni politiche con la nobiltà e la situazione sociale, aggravata dalle ricorrenti carestie, avevano fatto sì che da un lato molti considerassero Boris quanto meno mandante del delitto, e dall’altro che emergesse e tentasse di andare al potere un falso Dimitrij, un impostore che aveva approfittato della diceria popolare secondo la quale il figlio di Ivan il Terribile era scampato all’attentato. Al culmine di questa situazione di devastante instabilità, mentre il popolo smarrito e affamato sembrava averlo abbandonato e i boiari complottavano contro di lui, Boris Godunov era morto, lasciando il Paese in una situazione di grave e prolungata incertezza e quasi di guerra civile.

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Il libretto approntato dallo stesso compositore – in almeno un paio di scene utilizzando quasi letteralmente l’originale – vede una drastica riduzione del dramma di Puškin. Di 23 quadri ne rimangono sette, suddivisi in quattro parti. Nella versione di Musorgskij la vicenda si apre con una scena di massa al monastero di Novodevichij, durante la quale il popolo – dietro pressione dei boiari – supplica Boris di accettare la corona; quindi, sulla piazza davanti al Cremlino, dopo una processione, il nuovo zar viene incoronato mentre il popolo canta l’Inno di Gloria, in russo “Slava!”. 

Nella seconda parte l’azione si sposta al monastero di Chudov, dove il monaco-scrivano Pimen sta completando una sua cronaca degli eventi recenti, ascoltato dal novizio Grigorij. Il monaco rievoca l’uccisione di Dimitrij dicendosi certo della responsabilità di Boris come mandante e il novizio, che apprende di essere coetaneo della vittima, maledice lo zar e si propone di fare giustizia. Il secondo quadro della seconda parte si svolge in una taverna al confine con la Lituania, dove giungono i monaci vaganti Varlaam e Missail e lo stesso Grigorij. Mentre i primi due cantano alcune canzoni, il finto Dimitrij chiede all’ostessa quale sia la strada per entrare in Lituania. Giunge la polizia, che segue le tracce dell’Impostore. Scoperto, Grigorij riesce a scappare da una finestra.

La terza parte è ambientata negli appartamenti imperiali al Cremlino, dove sono presenti anche i due giovani figli di Boris, Ksenia e Fëdor, con la nutrice. Lo zar è inquieto, tormentato come i protagonisti di tante tragedie di Shakespeare (al proposito si citano spesso Macbeth e Riccardo III) e svela in un drammatico soliloquio i suoi sensi di colpa per la sorte di Dimitrij, prima di essere interrotto dai cortigiani e dal boiaro Šujskij, che gli porta le ultime notizie sulle mosse dell’Impostore. Quando il nobile esce, Boris Godunov vede il fantasma del bambino morto.

La prima scena della quarta e ultima parte – cronologicamente collocata anni dopo – ha per cornice la piazza davanti alla Cattedrale di San Basilio, a Mosca. Lo zar esce dalla chiesa e la folla lo supplica di far distribuire del cibo; fra la gente si aggira l’Innocente, un “folle di Dio” che affronta Boris dopo essere stato derubato dell’unico soldino che possedeva e gli rammenta i suoi crimini, chiamandolo Erode. Nella scena finale, al Cremlino, mentre i boiari discutono sull’ukase con cui Boris cerca di fermare l’avanzata dell’Impostore, condannandolo alla pena capitale, lo zar è ripreso dalle visioni e muore, dopo avere salutato per l’ultima volta il figlio.

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Ph Brescia e Amisano, Teatro alla Scala.

La composizione procedette rapidamente per tutto il 1869 seguendo l’ordine delle scene, e alla fine dell’anno la partitura era completa anche nella strumentazione. La scrittura era radicalmente innovativa rispetto a quanto si andava realizzando nel mondo operistico europeo a quell’epoca, dominato da Verdi, dal grand-opéra alla Meyerbeer e da Wagner. Bandite le forme chiuse, come Arie e numeri d’insieme, il compositore aveva messo a punto – sull’esempio di quanto aveva fatto Aleksandr Dargomyžskij nello sperimentale Il convitato di pietra – un declamato denso e febbrile, particolarmente d’impatto nelle parti corali e quando Boris è preda delle visioni. Ne sortiva una sorta di prosa musicale, che aveva come pilastri drammaturgici un notevole numero di “leitmotive”, di motivi ricorrenti, legati a tutte le figure del dramma ma specialmente a quelle dell’Impostore e naturalmente del protagonista in titolo.

Significativo ma tutto sommato non particolarmente ampio, in questa prima versione (lo sarebbe stato ben di più nel 1872), l’apporto di temi popolari, realisticamente riservati ai momenti nei quali in scena si cantano inni o canzoni tradizionali. Dettaglio singolare, il testo e il tema utilizzati da Musorgskij per il grandioso coro “Slava!” nella scena dell’incoronazione, celebre pagina storico-politica, derivano in realtà – secondo Taruskin – da una filastrocca per augurare buona fortuna, comune soprattutto tra le fanciulle nei giorni di Natale. Sessant’anni prima, nel 1806, il tema era stato “pescato” da Beethoven in una raccolta di canti tradizionali russi pubblicata a Pietroburgo nel 1790, e utilizzato nello Scherzo del secondo dei tre Quartetti per archi op. 59, omaggio all’ambasciatore dello zar a Vienna, conte Andrej Razumovskij, che aveva commissionato le composizioni

Completata la partitura, Musorgskij la sottopose alla Commissione di lettura dei Teatri Imperiali, passaggio necessario per l’autorizzazione alla rappresentazione. L’esame rimase in sospeso per circa un anno, fino al febbraio del 1871, e quindi il lavoro fu bocciato con sei voti negativi su sette. A favore si espresse solo il direttore d’orchestra Eduard Náprávník. A quanto risulta dai documenti, il “niet” non fu causato dalla delicatezza dell’argomento storico, e probabilmente in maniera molto marginale dalle caratteristiche della partitura, ma essenzialmente dal fatto che mancava nell’opera una parte femminile ben delineata.

Per nulla scoraggiato, Musorgskij si mise subito nuovamente al lavoro, come se il parere della Commissione in qualche modo “confortasse” le nuove idee che nel frattempo aveva maturato sul suo lavoro. La revisione fu profonda e portò alla realizzazione di quella che si può per molti aspetti considerare un’opera diversa sullo stesso soggetto, anche se naturalmente vennero conservate, talvolta ampiamente rielaborate, molte parti della prima versione.

All’inizio dell’estate del 1872 la nuova partitura era pronta: consisteva questa volta in un Prologo e quattro atti, oltre un’ora di musica in più rispetto all’altra, che supera di poco le due ore. Il terzo atto, scritto ex novo, portava in scena il personaggio femminile richiesto dai Teatri Imperiali, l’ambiziosa e cinica nobildonna polacca Marina Mnišek, che allaccia una relazione con l’Impostore al solo scopo di tentare la scalata al potere, appoggiata da un sordido religioso cattolico, il gesuita Rangoni. Oltre a questa importante aggiunta – comprendente un’Aria di Marina e un duetto amoroso con Dimitrij, ma anche una Polacca per orchestra eseguita durante una festa al castello di Sandomir, dove l’azione si svolge – sono da annotare altri due interventi cruciali. Il primo riguarda l’ampliamento della terza Parte, ora secondo atto, con dettagli musicali legati alla presenza dei figli dello zar (canzoncine, situazioni giocose) che ottengono il risultato di accentuare per contrasto l’impatto drammatico del soliloquio di Boris e specialmente delle sue allucinazioni.

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Ph Brescia e Amisano, Teatro alla Scala.

Il secondo e decisivo intervento riguarda il finale dell’opera, nel quale l’ordine delle scene è rovesciato rispetto alla versione 1869: il quarto atto si apre infatti con la morte dello zar al Cremlino, mentre la conclusione è affidata a una scena di massa che non si svolge più davanti a San Basilio, ma nella foresta di Kromij. Qui il popolo insorto in favore dell’Impostore, che è giunto alla testa dei suoi sostenitori, schernisce un boiaro che è stato catturato e canta un “coro rivoluzionario”. Le ultime parole del dramma spettano all’Innocente: un compianto sul triste destino della Russia.

Fu questa versione di Boris Godunov ad arrivare – grazie all’appoggio di cantanti e musicisti della cerchia di Musorgskij – sulle scene del Teatro Imperiale l’8 febbraio 1874, diretta da Náprávník. Largamente incompresa dai critici e dagli stessi amici del Gruppo dei Cinque, nonostante il radicalismo della prima stesura fosse stato notevolmente ammorbidito. Nella nuova scrittura, il discorso musicale e anche quello drammaturgico risultano più efficaci, collegati in vari aspetti alla tradizione melodrammatica europea e capaci di costruire un edificio molto coeso e strutturalmente efficacissimo, oltre che musicalmente intrigante. Da questo punto di vista, è sintomatica la frase scherzosa che il compositore scrisse in una lettera a Stasov durante il lavoro di revisione: «Boris, zar colpevole, sta perpetrando un Arioso». 

Le differenze fra le due versioni sono profonde non solo per quanto riguarda le scelte compositive ma anche per l’aspetto ideologico. Nella sua fedeltà al dramma di Puškin e quindi alla narrazione di Karamzin da cui esso prendeva spunto, l’opera del 1869 – mai rappresentata vivente l’autore né con i Romanov sul trono – finisce per delineare una visione in certo modo di rassegnata accettazione dell’assolutismo, del quale lo storico era un convinto assertore. Discorso opposto per l’opera del 1872 ripresa per una ventina di repliche fino al 1881, quando Musorgskij morì stroncato dall’abuso di alcol, una settimana dopo aver compiuto 42 anni. Il quadro nella foresta di Kromij cambia decisamente il ruolo del popolo rispetto all’antecedente: quella che va in scena è un’insurrezione e la sua collocazione come finale ultimo ne sottolinea l’importanza, solo temperata dalle cupe parole dell’Innocente. Non a caso, lo storico populista Nikolaj Kostomarov, citato da Stasov, approvò calorosamente, parlando di «una pagina di storia», nella quale si disegnava per le masse un ruolo nuovo e protagonistico. Inevitabile che ben presto questa versione dell’opera fosse censurata, quanto meno nella parte conclusiva, che suscitava, specialmente nei giovani, entusiasmi ovviamente sgraditi al regime zarista. 

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Ph Brescia e Amisano, Teatro alla Scala.

Riscoperto grazie alla discussa revisione di Rimskij-Korsakov – fin troppo brillante nei colori orchestrali, ma criticata specialmente per le “manomissioni” tonali e armoniche rispetto all’originale e oggi quasi definitivamente abbandonata –, Boris Godunov ha visto negli ultimi tempi il suo autore guadagnare una centralità che in precedenza non aveva. Né il doveroso ritorno a Musorgskij ha incrinato la forza e il fascino del sofferto e grandioso personaggio principale, per la cui affermazione a inizio ‘900 era stato decisivo il grande basso russo Fëdor Šaljapin (1873-1938). Dopo di lui, una ormai lunga e prestigiosa serie di interpreti vocali ha contribuito in maniera determinante a fare di Boris – parte peraltro scritta originariamente per baritono – uno dei ruoli-simbolo dell’opera dell’Ottocento. 

Quanto alla versione 1869, che Stasov aveva citato quasi di sfuggita nel necrologio del compositore, essa sarebbe salita per la prima volta alla ribalta nel 1917, quando Andrej Rimskij-Korsakov, bibliotecario a Pietroburgo e figlio del compositore, ne parlò diffusamente in un ampio articolo su una rivista musicale. Solo nel 1928, però, grazie alla pubblicazione di tutti gli autografi avvenuta a Mosca a cura di Pavel Lamm, sarebbero stati a disposizione i materiali per la prima rappresentazione, avvenuta il 16 febbraio di quello stesso anno a Leningrado. Ben presto, il regime stalinista avrebbe nuovamente messo in ombra l’Ur-Boris, rivalutato in Russia, negli studi e negli allestimenti, solo dagli anni Ottanta, quando la glasnost’ che ha preceduto la caduta del regime sovietico alimentava molte speranze, poi inesorabilmente e tragicamente tramontate. Recentemente non di rado lo ha adottato (con una connotazione ideologica che appare molto diversa da quella di 40 anni fa) anche il plenipotenziario musicale di Vladimir Putin, il direttore Valery Gergiev. Così, oggi, appare più che mai suggestiva l’idea di Richard Taruskin: oltre la sua ambiguità storico-politica, Boris Godunov rimane una triste profezia sul destino della Russia.

La fotografia in copertina è di Brescia e Amisano, Teatro alla Scala.

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