Speciale

Scuola e mondo digitale

23 Settembre 2014

Tra i libri che si occupano del rapporto tra scuola e mondo digitale, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, di Manfred Spitzer, Corbaccio 2013 è di gran lunga il più critico e il più allarmante. Spitzer dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le neuroscienze e l'apprendimento dell'Università di Ulm: è uno psichiatra che cura le patologie correlate al consumo di media digitali tra giovani e giovanissimi, ma anche un neuroscienziato che ragiona in termini epidemiologici sui rischi di diffusione delle demenze future in relazione ai danni cognitivi che si possono presumere partendo dai dati a disposizione.
 
La sua critica non è quella di un intellettuale che proviene dalla grande tradizione umanista, come il discorso recentemente fatto da Claudio Magris sulle pagine del «Corriere della sera». Spitzer conosce e usa la tecnologia, ha introiettato paradigmi cognitivi tipici delle scienze 'dure' al punto che gli si potrebbe imputare un eccesso di fiducia nei protocolli sperimentali in uso nelle valutazioni dei sistemi scolastici e nella recente ondata di studi neuropsicologici, con strumenti come la risonanza magnetica funzionale. Il libro in ogni caso si riferisce a esperimenti epistemologicamente corretti (in doppio cieco e randomizzati), in ambiti come Stati Uniti, Corea del Sud, Germania, ovvero paesi che hanno una storia di adozione e diffusione di media digitali, tanto nelle abitudini delle nuove generazioni quanto nelle politiche scolastiche, a volte fin dalle scuole primarie.

 

Quale che sia la nostra posizione nei confronti della migrazione digitale e del suo rapporto con la scuola, offre preziosi contributi, non tanto per un'inutile e insensata battaglia di retroguardia contro la tecnologia, quanto per una riflessione più avvertita possibile sul nostro rapporto con le macchine dell'informazione e della comunicazione e su come queste possano interagire con le nostre strutture cognitive profonde.

La tesi neurologica fondamentale è che le attività che svolgiamo con il computer, gli smartphone, internet abbiano un differente impatto sulle strutture cerebrali rispetto alle corrispettive attività svolte in modalità non-digitali, in virtù del minor coinvolgimento corporeo nelle attività e quindi di un minor rinforzo dell'informazione nell'attività. In particolare la neuroplasticità, da cui dipende la capacità di apprendimento dei soggetti risulterebbe minore in ambiente digitale, con il risultato che gli apprendimenti risultano meno efficaci e duraturi.

 

Il discorso decisivo riguarda quindi l'apprendimento nelle fasi evolutive dall'infanzia all'adolescenza, che sono il momento in cui vengono tracciate per la prima volta nelle nostra mente le strutture neuroplastiche fondamentali, in seguito poi soggette soltanto a modificazioni di più lieve entità: in altri termini, ciò che impariamo in fasi remote della nostra vita si radica in profondità e dopo un certo momento della nostra storia cognitiva saremo solo in grado di stoccare altre informazioni di minor rilievo a partire da ciò che abbiamo fatto prima.
Poiché «il problema dell'apprendimento di strutture più complesse, come ad esempio la grammatica, sta nel fatto che prima è necessario imparare strutture più semplici per poi passare a strutture più complesse», Spitzer sostiene che la sempre più diffusa esposizione di bambini anche molto piccoli alla visione di programmi televisivi a loro dedicati o all'uso di giochi su tablet o smartphone sia completamente insensata e controproducente; in particolare quando questa sostituisce rapporti educativi ed emotivamente significativi con adulti. Tale fenomeno si iriscontra inoltre soprattutto nelle fasce più povere e meno colte della società, dove avviene una maggiore delega ai media digitali di intrattenere la prole, con un effetto di peggioramento della situazione.

Lo stesso discorso riguarda, su una fascia più alta di età e su più ampia scala, il rapporto tra didattica tradizionale e digitale. Spitzer cita un'analisi condotta nel 2004 in Germania sul rapporto tra utilizzo del computer, in classe e a casa, e rendimento scolastico, che riguarda 125mila studenti quindicenni in merito a competenze aritmetiche e di lettura: esaminando i dati sensibili che riguardano anche la famiglia d'origine (ceto sociale, livello d'istruzione, professione, libri in casa) e scuola (numero di studenti per classe, formazione dei docenti, fondi per la didattica) risulta che «un computer a casa porta risultati inferiori a scuola e la presenza di un computer a scuola non ha alcun influsso sui risultati scolastici». L'introduzione di un computer, usato principalmente per giocare, diventa una fonte di distrazione che influisce negativamente sui risultati scolastici: la frequenza dell'uso del computer e dell'uso di internet è correlata ai risultati negativi.

 

Indagini dello stesso periodo svolte negli Usa hanno mostrato che non ci sono sostanziali differenze nei risultati scolastici tra gruppi classe che usano portatili in classe rispetto a quelle che non lo fanno: le capacità di scrittura risultano lievemente inferiori tra gli studenti dotati di computer e lievemente migliori in matematica, ma solo tra allievi già competenti. Studi del 2010, e quindi con significativi cambiamenti nell'uso dei media digitale per diffusione e durata nel tempo, analizzano i risultati di 500 000 studenti del North Carolina tra quinta elementare e terza media, fascia di inizio massivo nell'uso di tecnologie: questi tendono a mostrare che l'accesso ai portatili e alla rete abbassa il rendimento scolastico. In più, si evidenzia un aumento del divario tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ attraverso l'accesso a Internet: «i soggetti esaminati non hanno imparato di più grazie alla rete; al contrario, i giochi e i passatempi a disposizione li hanno fatti regredire». Significativo inoltre che una ricerca portoghese sull'uso di Internet nelle scuola, oltre a mostrare un peggioramento del rendimento scolastico proporzionale all'uso, abbia evidenziato un marcato effetto di genere: i maschi, che utilizzano la rete come passatempo più delle femmine, sarebbero più colpiti dall'effetto distrazione.

L'unico studio che mostra effetti positivi dell'apprendimento attraverso l'ausilio di strumenti informatici riguarda studenti universitari californiani, con una età media di 25 anni: per Spitzer dal punto di vista comportamentale e neurobiologico i giovani adulti sono soggetti già formati che hanno già strutturato e consolidato strutture cognitive e autoregolamentazione, affrontato percorsi scolastici e maturato motivazione nel loro proseguimento.

 

Sono queste pre-condizioni a rendere l’essere digitali una risorsa effettivamente vantaggiosa, sostanzialmente quelle soddisfatte da chi – come molti docenti, studiosi e professionisti – è entusiasta del mondo dell'informatica 2.0.

 

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