Dress code 15. Colonialismo Glam
Cosa hanno in comune il matrimonio di Bezos a Venezia, le campagne delle collab di Skims con brand italiani e i VIP di Squid Game? lo sguardo colonialista, seppur applicato a due mondi diversi. In entrambi i casi, ciò che è al centro è una visione grottesca dell’Italia, ridotta a scorcio, cliché, cartolina esotica da consumare.
Partiamo da Squid Game – terza e ultima stagione – la serie che ha trasformato la Korean Wave in un culto globale. I VIP sono gli spettatori che possono godere di un punto di vista privilegiato, incarnano il Potere che osserva senza empatia. Nella prima stagione hanno un ruolo passivo, maschere kitsch e poche battute; nella seconda scompaiono; nella terza tornano, e per la prima volta compaiono sul campo da gioco, come guardie provvisorie. Non guardano più e basta: agiscono, si sporcano le mani, decidono. Il loro ingresso nella narrazione coincide con un’escalation della violenza e con una riflessione ancora più feroce sulla società dello spettacolo.
Ed ecco la scena chiave: il primo VIP si manifesta parlando italiano, esclama “Mamma mia!” nonostante interpreti il ruolo di un ricco britannico. È una parodia dell’italianità usata per marcare la paura, ma anche per schernirla. Non è un caso: è lo stesso tipo di intonazione comica che in America si riserva agli italiani nei film anni ’50, o agli immigrati nei cartoni animati, o, ancora, in Super Mario.
Il risultato? Una scena che sembra una gag, ma che in realtà introduce uno stereotipo linguistico e sociale: l’italiano è il codardo emotivo, la caricatura. Il VIP, invece, è l’Occidentale “superiore”, che può permettersi ogni abuso, ogni appropriazione, senza scrupoli né senso del limite. Ciò si riflette in un effetto collaterale dell’espansione dell’Hallyu, che ha generato fenomeni come l’Asian fishing – il desiderio di sembrare asiatici senza esserlo – o l’RCTA (race change to another), cioè voler apparire di un’etnia diversa dalla propria.
I VIP sostanziano l’involuzione della società dei consumi di cui Squid Game è transustanziazione in quanto crisi violenta portata all’essenza senza soluzioni. In Squid Game viene estinta la parte più complessa della forza lavoro, e dunque, come scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, è un modo per “risolvere” la crisi di una società con troppi mezzi, tutti fagocitati dal porcellino-montepremi del vincitore. Il proletariato in Squid Game diventa la merce stessa, la cui tragica consunzione colma la noia dell’oggetto inorganico, freddo e privo di sangue e vene. I VIP, in fatto di lingua e giudizi di valore, rappresentano le nazioni forti, quelle che colonizzano. America, Cina, Gran Bretagna, che, paradossalmente, si affidano a chi oggi sa fare meglio intrattenimento, vale a dire la Corea del Sud. In questa sintassi emerge la resilienza di chi subisce il regime nordcoreano, che si dimostra più forte fisicamente e forse pure con una maggiore lucidità di pensiero. Il colonialismo, in Corea, ha lasciato cicatrici profonde. Durante il periodo di dominazione giapponese (1910–1945), anche l’Occidente si fa avanti, sfruttando la fragilità di un popolo stremato per trascinarlo altrove, come manodopera.
È questo lo sfondo di Black Flower, romanzo di Young-ha Kim (2012), che segue le rotte del flusso migratorio verso il Messico, dove nelle haciendas migliaia di coreani vengono impiegati nei campi di henequén. Una destinazione forse meno nota, ma più brutale delle deportazioni nelle Hawaii per le piantagioni di canna da zucchero o in California per gli aranceti. I VIP di Squid Game potrebbero essere l’evoluzione contemporanea delle figure che hanno tratto profitto dalla buona fede della popolazione coreana.
Per rimanere sulla falsariga di Squid Game, Kim è anche autore di Quiz Show (2007), romanzo che racconta di una società segreta impegnata in furiose competizioni di quiz in un mondo parallelo, a cui partecipano persone smarrite, alla deriva.
Ecco, per me il punto centrale è proprio questo: lo smarrimento, nella doppia accezione etimologica della radice mar-: “ostacolo” in germanico, “oscuro” in tedesco.
La colonizzazione – reale o culturale – parte sempre da qui: dalla difficoltà, dal disorientamento, dalla perdita della strada e dell’animo. È in quella crepa che si insinua la lunga mano del Capitale, approfittando dell’angoscia per sgretolare il significato stesso delle fondamenta di una cultura.
In gioco, dunque, c’è la sottomissione al piacere del colonizzatore straniero. E torna a galla con forza nell’Italia sovranista, piegata al sovranismo più “ismo” di tutti: quello americano.
E così, oltre a turisti scarsamente alfabetizzati – quasi peggio di noi, che eccelliamo nell’analfabetismo funzionale – ci becchiamo anche i più grandi esponenti del patriarcato capitalista. A cui facciamo credere che qualsiasi cosa, italianità compresa, abbia un tempo e un costo di noleggio. L’Italia, oggi, non è tanto colonizzata quanto felicemente disponibile a esserlo, purché il bonifico arrivi in anticipo. Non c’è più bisogno di cannoni o trattati: bastano il catering, i droni, cappelli di paglia e tanti Lemoncello Spritz.
Lo dimostra il matrimonio di Jeff Bezos e la colonizzazione di Venezia, già messa in scena in altri casi: tipo le nozze Clooney-Alamuddin. In realtà, l’Italia da anni si svende per i destination wedding, da cui emerge una forma paradossale di rispetto e al tempo stesso stereotipizzazione della nostra cultura.

Stereotipi impressi non solo nei testi promozionali rivolti ad americani e britannici, ma anche nelle attività e negli abiti scelti per le giornate di festeggiamenti.
Nel caso di Bezos e Sánchez – alcune invitate comprese – ha vinto l’Italia porzione singola di Dolce & Gabbana: un modo per “armonizzarsi” con lo spazio ospitante attraverso reference a prova di infante.
Come non pensare al vestito che Sophia Loren indossa per sposare Cary Grant nel film del 1958 Houseboat – Un marito per Cinzia: una commedia degli equivoci dove l’italiana in America è troppo imperfetta per gestire una casa, ma alla fine bellezza e buoni sentimenti risolvono ogni problema.
Del resto, anche quello era un secondo matrimonio. Come quello di Bezos.
Da qui si può inferire che la rete di citazioni tra testi è a prova di granchio blu e di simpleton trumpiano. Se così non fosse, le Kardashian non avrebbero sfoggiato vari “Dolce” – detto con voce acuta à la Carrie Bradshaw nei suoi raid sfrenati di shopping – ma anche Versace, Valentino e Roberto Cavalli.
Tutti rigorosamente vintage, per sottolineare che il culmine dello stile italiano si è raggiunto negli anni Novanta: l’era pre-colonizzazione.
Oggi, i sovranisti non si riconoscono più dalla sahariana, ma dall’accesso agli archivi vintage dell’età dell’oro delle grandi case di moda. Brand che, non a caso, sono i protagonisti anche delle famigerate collab di addomesticamento del genius loci italiano.
Mi riferisco agli immaginari simmetrici evocati dalle campagne promozionali delle collaborazioni tra il brand di intimo e leisurewear di Kim Kardashian – Skims, quindicesimo hottest brand al mondo per Lyst – e due case di moda italiane: Dolce & Gabbana (novembre 2024) e Roberto Cavalli (giugno 2025, sotto la direzione creativa di Fausto Puglisi).
E qui si chiude il percorso del letale Squid Game colonialista, cristallizzato in immagini – anzi, immaginari – sempre uguali, ridondanti, stancanti. Qui le donne italiane sono sempre al limite tra soft porn e folklore, tra veracità esibita e volgarità di maniera. Strizzate in bustini animalier, incollate a pose innaturali, diventano l’emblema di un’estetica mediterranea rigonfia, fertile, urlata.
È come se da mille anni stessimo tutte a casa a fare la pasta al sugo – vedi Lauren Sánchez ritratta da Vogue America seduta sulla cucina rustica in muratura, vestita in un “Dolce” di vellutino ispirato ai dogi veneziani – e nel tempo libero, invece di leggere, dipingere o praticare karate, ci dedicassimo all’arte del chiacchiericcio alla finestra, circondate da gatti random (ché i cani sono troppo da signora perbene).
I capelli, ovviamente, corti e ricci – perché subiamo il patriarcato. Tinti male – perché siamo povere e l’hairstyling è una cosa da americane. La pelle? Traslucida, a metà tra il sudato e l’unto, perché la nostra attività principale è fare le casalinghe, non certo esistere come soggetti politici o estetici.
Non a caso, nell’episodio del docu-reality The Kardashians dedicato al backstage della campagna Skims x Dolce & Gabbana, Kim posa accanto alla sorella Kourtney, la quale confessa di sentirsi “sabotata” perché pettinata alla Shirley Temple.
Un guizzo di autocritica? Forse. Ma rivela soprattutto come ci vedono le altre culture: datate, fissate in un passato mitizzato e cinematografico, ridotto a cliché e replicato all’infinito.
Lo schema non cambia nemmeno nella campagna Skims per Roberto Cavalli, dove Kim rimane al centro ma scende in campo anche la madre, Kris. Si passa dal bianco e nero anni Cinquanta ai colori tenui anni Settanta, ma il punto resta lo stesso: l’Italia – e con lei l’Euro-summer – è una reiterazione di un passato idealizzato dai turisti.
Pur di stare al tavolo dei potenti, abbiamo lasciato che colonizzassero ogni aspetto della nostra cultura.
La Corea del Sud – che pure si è appoggiata agli Stati Uniti per uscire da decenni di crisi – ha saputo ribaltare la dinamica, costruendo un’industria dell’entertainment capace di egemonia culturale. Noi, invece, restiamo a servire.
Il nostro passato è ancora influente, certo. Ma è un’influenza da esposizione museale, come si legge sulle pareti del dormitorio comune di Squid Game, dove campeggia la locuzione latina: “Hodie mihi, cras tibi”.
Oggi a me, domani a te, dice la morte al vivente. È l’epigrafe funeraria per una cultura che si è fatta gadget.
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