Pulire una società ostile / Stephanie, fighter sociale

26 Marzo 2019

Il racconto di una sfortunata ragazza della provincia americana che fa le pulizie nelle case degli altri e vive in un alloggio per senzatetto con una bambina piccola può catturare l’interesse e la curiosità del pubblico fino a diventare un best-seller a patto che sia scritto in modo particolarmente attraente e avvincente. Se poi la protagonista del racconto è anche l’autrice del libro che, dopo una lunga traversata del deserto, riesce a realizzare il suo sogno, caparbiamente dichiarato e perseguito, di diventare una vera giornalista, la vicenda si fa ancora più attraente. Non stupisce dunque che una storia così “piccola” abbia avuto un immediato e notevole successo di vendite negli Stati Uniti. Pubblicato nel gennaio 2019, subito Donna delle pulizie di Stephanie Land (ora nella traduzione di Chiara Libero per Astoria) si è ritrovato tra i primissimi titoli più venduti della classifica del “New York Times”, appena dopo, per intenderci, l’autobiografia di Michelle Obama. 

 

Ma prima di vedere di che cosa parla il libro credo sia importante sottolineare come l’autrice si sia avvicinata alla sua storia. Un racconto può attirare l’attenzione se è la storia di una vicenda umana extra-ordinaria, proprio per la sua eccezionalità, ma una storia comune può diventare uno strumento di conoscenza del mondo solo quando è ben drammatizzata, cioè trattata come immaginario, messa in scena. E proprio su questo, a mio avviso, cade parecchia narrativa nostrana che crede più alla fantasia del reale in sé che alla capacità di realtà della fantasia. Se poi la qualità della scrittura è piuttosto alta, questa sensazione di avere a che fare con la finzione si fa più forte, perché abbiamo come un tarlo cultural-psicologico che ci dice che più una narrazione è efficace, più è letteraria. Anche se parli della tua vita personale, se lo fai bene diventa un romanzo, come dire che la tua vita non può essere “veramente vera”, perché scritta così bene deve per forza essere almeno in parte immaginaria. Questa è una prima riflessione che ti accompagna leggendo Maid. Hard work, Low Pay and a Mother’s Will to survive, titolo originale, (Cameriera, lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre) e di solito, quando accade, è di per sé un segno di elevata qualità di un’opera, perché la scrittura della finzione letteraria è ancora uno dei livelli più significativi dell’espressione umana.

 

Un’altra osservazione di sfuggita: su fiction/non fiction la discussione, si sa, è apertissima (merita almeno una segnalazione il recentissimo The Great Report. Incursioni tra giornalismo e letteratura di Vincenzo Maggitti, Mimesis, 2018) e c’è chi (vedi per esempio tra gli italiani Mauro Covacich) ne ha fatto addirittura un tema integrante della propria scrittura. Ma, senza andare troppo lontano, ciò che qui interessa è vedere come ancora una volta la “rude razza americana”, parafrasando l’antica definizione di Mario Tronti, riesca a raccontare la vita in forma smagliante, con la nitidezza dell’osservazione disincantata, fatta di potente semplicità infantile, di “pulizia” culturale. 

Stephanie Land è una ragazza che non ha potuto andare all’università perché i suoi genitori, separati, non avevano soldi, e in un sistema come quello americano dove tutto si paga, questo è di per sé un grande svantaggio iniziale, poiché significa vivere con mezzi limitatissimi in una società priva di “ammortizzatori sociali”, come si dice da noi. Significa crescere una bambina piccola nata da una relazione conflittuale presto finita e riuscire, da sola, a non smarrire il senso della propria vita, le proprie aspirazioni, come diventare una scrittrice, appunto. 

 

 

“Alla fine trovai lavoro come donna delle pulizie”, qui inizia la traiettoria di Stephanie, “che sembra destinata a un disastro totale”, dice nell’introduzione la giornalista e attivista americana Barbara Ehrenreich, autrice a sua volta del celebre Una paga da fame (Feltrinelli, 2004), per molti versi analogo a Donna delle pulizie, ma con la sostanziale differenza che quello di Ehrenreich è un reportage e quello di Land un memoir, cioè un resoconto di una esperienza di vita vissuta senza alcuna intenzionalità, per cui è facile intuire quanto diverse e lontane siano le implicazioni interiori sperimentate dalle due autrici. 

Sappiamo che non ci sarà “un disastro totale”; al contrario, per Stephanie sarà un success. La sua capacità di narrazione ti conduce con intensità nella storia, vuoi vedere come si sviluppa, se e quanto il baratro sarà vicino e come Stephanie e Mia, la sua bambina, riusciranno anche questa volta a cavarsela. È un destabilizzante salire e precipitare, avvilente e ansiogeno, in un continuum di malinconia, rabbia, paura, interrotto appena da qualche istante di buon umore. Land mostra notevole acutezza psicologica nel dire le emozioni della sua povertà dura: “Lì in quel bagno, da sola, fissai la mia immagine allo specchio […]. Ora il mio riflesso mostrava una persona umiliata, ingobbita, che aveva voglia di scappare, altro che pulire il water di un’altra donna che intanto stava in un’altra stanza a sfogliare un catalogo, e che mi aveva anche ordinato di rifare tutto da capo.” (p.86) Sa lucidamente identificare sempre il sentimento che la attraversa: “Piansi concedendomi di dare alla tristezza almeno un paio di minuti della cura, dell’attenzione, dell’affetto che meritava.” (p.101) Oppure: “Nonostante la presenza costante di Mia, che mi toccava, mi strattonava e con le sue manine appiccicose cercava le mie, avevo una disperata sete di affetto, contatto, amore. Non c’è mai stato un periodo in cui non l’abbia desiderato. Avrei voluto essere forte e non averne bisogno, ma è sempre stato così.” (p.185).

 

Poi ci sono gli altri, il mondo di Stephanie, per così dire, la gente (di cui “lustravo la vita perché apparisse perfetta”) incontrata via via nelle case dove viene spedita dall’agenzia di pulizie: La Casa di Henry, La Casa di Wendy, La Casa dello Chef, La Casa Triste, La Casa Porno, La Casa dei Clown, usi e costumi osservati molto accuratamente nella loro intimità domestica fatta di prime colazioni, biancheria sporca, con relative tipologie di sporco, arredamenti più o meno approssimativi, calore umano, indifferenza e gentilezza. La donna delle pulizie osserva dettagliatamente quei mondi, li legge riuscendo per un po’ anche a distogliere la mente dalla sua propria condizione: “In alcuni casi, […] avevo il tempo per sfogliare i libri che trovavo sui comodini o in cucina. Cominciai a osservare l’aumento delle scorte di alcol, il cioccolato nascosto in giro, i sacchetti dei negozi di lusso che restavano chiusi e intonsi per mesi. Mi affascinava capire in che modo la gente affrontava la vita. Ficcavo il naso perché mi annoiavo e, in un certo senso, quello divenne il mio modo di affrontare la vita.” (p.205).

 

Con gli occhi di Stephanie si osserva la società americana di oggi, una società che, diciamo così, ha poco di sociale. Chi vive con i buoni spesa è ritenuto un fallito a carico di chi paga le tasse, i test antidroga sono frequenti e numerosi per accertare che il sussidio non se ne vada in fumo o altro. “Quell’anno [2010], – scrive Stephanie – insieme a me circa 47 milioni di famiglie fecero domanda per l’assistenza governativa. Le carte prepagate, distribuite dal dipartimento della Salute e dei Servizi Sociali da utilizzare come buoni spesa o sussidi in contanti, erano ormai la normalità alle casse dei supermercati” (p.177). In quel momento lei può disporre di un’entrata di circa 800 dollari e un appartamento ne costa almeno 700 d’affitto, per questo si rivolge agli amici, che la spingono ad aprire una raccolta di fondi tramite PayPal , un tipo di soccorso emergenziale che spesso in rete si fa con il crowdfunding per sostenere le spese di terapie costosissime di una malattia, ma non per poter vivere semplicemente. Questo fa dire a Stephanie che “Il welfare è morto”.

 

Le persone della sua vita compaiono e scompaiono ciascuna molto rapidamente, i genitori, i loro nuovi rispettivi compagni, il padre della bambina, l’uomo con cui vive per qualche tempo, come se solo lei dovesse portare tutto il peso dell’esistenza stando in prima fila, sempre. Ma anche come se tutto suo dovesse essere il merito della “salvezza finale”. Qui il tratto “calvinista” dell’America profonda emerge in tutta evidenza, la vita self-made appare ancora più potente, più virtuosa, più sana. Non c’è nel racconto nessun filone politico, nessuna istanza schiettamente ideologica, c’è solo un individuo con il suo destino ingrato o il suo successo. Al più c’è un alto senso di sé e dell’altro da sé, prodotto dall’inesauribile motore affettivo di Mia, bambina avvolgente e poetica. “Nonostante quello che ci circondava, io la mattina mi svegliavo piena d’amore. Ero lì. In quella stanzetta. Ero presente, potevo vedere Mia che faceva i suoi balletti e le facce buffe, e ne amavo disperatamente ogni istante. Il nostro spazio era una casa perché, lì dentro, noi ci volevamo bene. Nonostante quello che ci circondava, io la mattina mi svegliavo piena d’amore. Ero lì. In quella stanzetta. Ero presente, potevo vedere Mia che faceva i suoi balletti e le facce buffe, e ne amavo disperatamente ogni istante. Il nostro spazio era una casa perché, lì dentro, noi ci volevamo bene.” (p.244)

 

Stephanie la sera, esausta, mette a letto la bambina e poi, con l’aiuto del caffè, studia fino a notte fonda e scrive il suo memoir. Vuole fermamente diventare scrittrice. Da qui la forza generativa della svolta: “La mia stanchezza era ormai arrivata a livelli insostenibili. Non c’era altro modo per spiegare questa decisione avventata.” (p.271) È il momento in cui chiede la cifra massima concessa per il prestito studentesco, cioè la condizione per portare a termine gli studi all’Università di Missoula (Montana). 

L’individuale si fa collettivo nel momento in cui diventa paradigma, quando cioè contiene le componenti necessarie e sufficienti per sviluppare e suggerire agli altri un comportamento positivo. Stephanie Land gestisce con “pulizia” (ecco, donna della pulizia) e determinazione la dialettica tra privazione e desiderio che è propria dell’esistenza, per questo diventa paradigmatica. E il suo libro ne è un documento eccellente.

 

Stephanie Land, Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre, traduzione di Chiara Libero, Astoria, 2019, pp. 317, Euro 18,00.

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