Albicocco

16 Maggio 2013

«Stelle e alberi da frutta in fiore. La permanenza completa e l’estrema fragilità danno ugualmente il sentimento dell’eternità» (Simone Weil, Quaderno I, a c. di Giancarlo Gaeta, Adelphi). È esattamente questo il senso di ossimorica vertigine che ci può cogliere, all’arrivo di ogni buona stagione, di fronte alla fioritura di un fruttifero. Più travolgente se si tratta di un prunus armeniaca, l’albicocco, conosciuto dai cinesi ben prima dell’era cristiana e diffuso in Europa dai romani con la conquista dell’Armenia.

 

 

Nel mettersi il vestito della festa, l’albicocco è precoce come vuole il suo allegro nome, esito di una curiosa vicenda etimologica. La primaticcia prugna d’Armenia era detta dai romani praecoqua (rispetto alla più tardiva pesca) da un praecocum, maniera secondaria di praecocem, passato agli arabi che, come loro uso, premisero l’articolo al-barquq, approdato poi alle lingue romanze: albaricoque, abricot, albercocco.

 

 

Nulla, dunque, del nome rimanderebbe al colore dei fiori dall’albicante nuance che li individua d’acchito distinguendoli dagli altri, più elementari, bianchi e rosa primaverili. Sono i calici, con i loro sepali, d’un rosso lacca tra l’amaranto e il carminio, stretti al ramo e privi di peduncolo, a rifrangere sulla candida seta delle corolle l’indefinibile sfumatura? O di quel particolare biancorosa sono tinti i cinque petali?

 

Fatto sta che l’aura di miracolo che circonda l’albicocco dovrebbe farcene piantare uno in ogni giardino. Oltre ai  frutti carnosi e dorati (a Napoli li chiamano infatti crisuommoli), potremmo mangiare alcuni (pochi!) semi. Amarognoli, sembra siano un anticancerogeno naturale: ricchi, oltre che di potassio, di una sostanza (laetrile) in grado di aggredire le cellule malate sprigionando cianuro.

 

Già nella Russia zarista tale sostanza era usata nelle cure contro il cancro. Che Aleksandr Solženicyn lo sapesse? È un altro mistero. Ma, se non credete alle terapie alternative, un albicocco in fiore vi rammenterà l’impareggiabile pagina di Reparto C, dove Solženicyn lo consacra a tangibile benché effimero simbolo di rinascita e di guarigione.

 

Scampato al cancro che lo minava e dimesso dall’ospedale, il protagonista Oleg, «sorridendo non a qualcuno, ma al cielo e agli alberi», va in cerca dell’albero fiorito nella città vecchia.    



Facendo sua l’infinitamente lenta maniera di vita locale, egli non si alzò, non andò a cercare del cibo, ma restò a sedere, dopo avere spostato la sedia. Allora dal terrazzo della sala da tè vide, sopra il vicino cortile coperto, un pallone rosa imponderabile, diafano, come un soffione di circa sei metri di diametro. Una pianta così grande e così rosa non l’aveva mai vista.
L’albicocco?...
Oleg capì la lezione: ecco la ricompensa per l’assenza di fretta. Quindi: non precipitarti in avanti, prima d’esserti guardato intorno.
Si strinse alla ringhiera e di lì, dall’alto, guardò quel roseo miracolo trasparente.
Se ne fece dono: per il giorno della creazione.
Come in una stanza di una casa del Nord un albero di natale addobbato con le candele, così in quel cortiletto chiuso da muri d’argilla e coperto soltanto dal cielo, dove si viveva come in una stanza, c’era, unico albero, un albicocco in fiore, e sotto di esso ruzzavano i bambini e una donna con un fazzoletto nero a fiori verdi zappava la terra.
Oleg guardava con attenzione. Il rosa era l’impressione generale. Sull’albicocco c’erano boccioli bordò come candele, e i fiori, quando si aprivano, avevano la superficie rosa, mentre, dopo che si erano aperti, erano semplicemente bianchi, come su un melo o un ciliegio. Ne veniva una rosea dolcezza inconcepibile e Oleg cercava di raccoglierla tutta negli occhi per ricordarla poi a lungo, per raccontarne poi ai Kadmin.
Il miracolo era stato presentito ed era stato trovato.
Ancora molte gioie diverse lo aspettavano quel giorno nel mondo appena nato!...
Il vascello-luna ormai non si vedeva del tutto.
(Aleksandr Solženicyn, Reparto C, cap. XXXV, trad. di Giulio Dacosta, Einaudi)



Simone Weil faceva dell’attenzione l’esercizio della grammatica della vita; la mirabile pagina di Aleksandr Solženicyn celebra il valore dell’osservazione e dell’attesa. Entrambi concordano nel suggerirci una via d’uscita al male negli effetti benefici della clorofilla.

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