Alessandra Sarchi. L’amore normale

10 Aprile 2014

Laura, Davide, Violetta, Bettina, Fabrizio, Letizia, Mia: sono questi i personaggi che si dividono la scena (a coppie o singolarmente) nel dramma borghese di Alessandra Sarchi, L’amore normale (Einaudi). La vicenda è quella di un ordinario ménage interrotto a un certo momento da un imprevisto: per Laura, insegnante che vive con Davide, il marito medico, la vita formularmente soddisfacente di una coppia con due figlie in età scolare, l’accidente è il ritorno imprevisto di Fabrizio, l’innamorato dei vent’anni e poi amico fedele durante la malattia, ormai archiviata (non fosse per le vistose cicatrici, com’è ovvio metonimiche). Fabrizio ha a sua volta una famiglia, anzi due, visto che ha sposato prima la madre di sua figlia Gaia e poi Francesca, che di figlia ne ha un’altra, l’adolescente Letizia. Nemmeno a Davide si risparmia l’incontro inatteso, sotto le spoglie di Mia, ventisettenne bibliotecaria comunale.

 

Alessandra Sarchi, L'amore normale

 

A cosa servono tutti questi personaggi, e che cosa devono combinare insieme? Sarchi li dispone in accostamenti obbligatori, quasi stereotipati (l’ultraquarantenne alle prese col ritorno di fiamma, il marito suo coetaneo perso dietro alla fanciulla dai folti e lunghi capelli, le figlie dei diversi matrimoni in analogo tripudio ormonale), per ottenerne un effetto di attutita sorpresa o di acclarata «normalità», come da titolo.

 

Quella normalità che ha ridotto nell’attuale configurazione plurima dei rapporti il grande tema romanzesco del tradimento a una sceneggiatura sonnacchiosa, senza colpi di scena se non prevedibili e seriali (entrambe le adolescenti qui rimangono incinte, anche se l’una abortisce coll’inevitabile contraccolpo per sé e gli adulti e l’altra, pur nel finale aperto, si presume di no, ingenerando per simmetria rovesciata una plausibile riconciliazione familiare).

 

Più Centovetrine che Affinità elettive (cui l’autrice esplicitamente si richiama)? Non del tutto. O meglio: se il quid del libro fosse la trama, la vicenda di ordinaria dissolvenza della foto-ricordo della bella famiglia di una volta (in verità sbiadita da diverse generazioni, stando all’improponibilità attuale del suo modello mononucleare) saremmo certo in area telenovela o romanzo d’appendice, con tutti gli ingredienti topici, dall’irrecusabilità dell’amore adulterino (mezza letteratura mondiale sin dalle origini, se non parla di guerra, è su questo che si fonda) allo sgamo via computer del tradimento che fa molto sorveglianza liquida, come nell’ultimo di Bauman.

 

Però il libro di Sarchi non parla solo di tradimento, o non è questo il suo aspetto più interessante. Quando la trama di un romanzo, dovrebbero chiarirsi i lettori da classifica (e molti degli editori massimi), non ne esaurisce il senso ed è un pretesto per muoversi in altri territori, per raccontare qualcosa che riguardi non propriamente o non i soli personaggi ma il loro vario disporsi nelle trame delle vite di tutti e di ciascuno, e ciò per cavarne giammai una morale bensì una interrogazione, è lì lo specifico dell’interesse letterario. Su che cosa si interroga L’amore normale? Su tutte e due le componenti del titolo: sull’amore, sul suo farsi e disfarsi come il principio che convoglia le cellule in una determinata natura e poi le spariglia per riportare l’individuo alla comune fragilità (così il cancro di Laura, emblema della sua, della costitutiva condizione di precarietà creaturale), e sull’aspetto meccanico di quelle vite che a un certo punto invece di procedere come sempre e come per tutti si sfrangiano, anche in assenza di smottamenti particolari. Se per Laura e Davide la malattia ha agito da fattore disgregante, non è che l’irrequietezza a rotolare Fabrizio da una donna ad un’altra senza consentirgli mai un assestamento (per questo la decisione di Laura di vivere alla luce del sole le vicende extraconiugali al fine implicito di stabilizzare le nuove coppie lo trova un po’ troppo sottomesso, per il carattere che gli avevamo, con l’autrice, riconosciuto).

 

Il tema sottotraccia, l’altra grande questione che il libro affronta è indubbiamente la menzogna, che del tradimento è premessa, sostanza e corollario fin nella vulgata macchiettistica del Caro non è come pensi, in inconfutabile flagranza. Nella condizione normale raccontata da Sarchi, viceversa, l’ammissione non solo dell’adulterio ma del suo movente sentimentale («lo/la ami?» «Sì», ammettono entrambi i fedifraghi) si presenta come la via per un’altra possibile declinazione dell’amore coniugale quando la routine (come la malattia per le cellule aggredite) lo porterebbe a conflagrare: una specie di riconoscimento della sua fallibilità ma al contempo di resa alla natura, alla normalità, appunto, dei corpi soprattutto, che s’incontrano e riconoscono molto di più e in modo molto meno esclusivo di quanto la morale esplicita voglia consentire.

 

C’è un’altra morale fondata non sulla competizione ma sulla complicità (mai idilliaca, perché a sua volta fondata sull’anagnorisis delle cicatrici metonimiche di cui sopra), non sul duello, ma sulla comprensione (o piuttosto sulla concessione). Regge questa morale? L’autrice sembra non volersi spingere fino a questo: tant’è che l’ex sessantottina Giovanna, sorta di falsa coscienza in dismissione, non solo viene a smontare con il suo aperto dissenso tale possibilità ma a rinnegare la sua stessa storia personale, col mostrarsi ostile ai cardini di quell’ideologia rivelatasi mendace, dalla coppia aperta alla mentalità indiscriminatamente abortista.

 

Nel libro di Sarchi si descrivono in momenti diversi dei quadri che rimandano alle due tracce fondamentali di questa vicenda paramatrimoniale: la coppia e la necessità della menzogna (Ulisse e Penelope di Primaticcio) e, all’opposto, la convivenza degli amanti, di tutti gli amanti insieme (come in Joy de vivre di Matisse).

 

Alessandra SarchiAlessandra Sarchi

 

L’ekfrasis è affidata nel primo caso a Laura, che è il personaggio meglio calato nella storia attuale e quello dall’attitudine più spiccatamente speculativa (anche se tale attitudine viene poi a effondersi tra tutti gli altri, quasi come se fosse sempre sua la voce narrante, e sempre suoi i pensieri che circolano, senza vere e proprie escursioni, malgrado l’alternanza delle voci, dalla consapevolezza dell’amante âgée a quella della figlia novenne); nel secondo a Giovanna, la memoria di un’epoca passata, per nulla edenica, se poi quello che la riguarda maggiormente, del quadro, è l’elemento incongruo dalla non meglio identificata natura posto a tutela delle pudenda della donna in primo piano (mentre tutti gli altri amanti sono nudi). Anche nell’altro quadro c’era una crux (l’atteggiarsi assai poco sereno e ancor meno rassicurante dei due amanti ricongiunti): c’è sempre una frattura, un anello che non tiene, come (una volta di più) le cicatrici sul corpo di Laura, che metteranno in fuga la giovane amante di Davide, dissolvendo l’utopia della convivenza ideale. Ben lontani dai tempi in cui quell’altro personaggio di libertina poteva esclamare, della sua esuberanza sessuale: «che debbo fare di quel che avanza, gittarlo ai cani?». E anche da tempi viciniori, in cui la «separazione del maschio» funzionava ancora e sempre da legittimazione dell’atavica sperequazione per cui è invece sempre a lui, al maschio, che tocca la scelta e la possibilità di distribuire e differenziare l’amore.

 

Si dirà: sono temi leggeri, frivoli, dov’è la Storia, le mafie, i guasti del capitalismo, l’Intrattenimento infinito come metafora del Disastro? Qui è il contrario, a ben vedere: tra le rovine e i disastri, un’altra via percorribile, la ricerca di una narrazione che non sia né epocale né minimale, ma che riparta dalle piccole cicatrici quasi invisibili eppure così in rilievo delle vite che, per dirla con l’autrice, consumiamo: «Come i corpi che si consumano nell’amore, si consumano nella malattia, si consumano vivendo, mentre noi continuiamo ad abitarli, senza alternativa».

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