Le mani di Boetti

1 Giugno 2011

Premessa sulla sintassi dell’indeterminazione.

 

Una delle frasi che Alighiero Boetti ha scritto nei suoi famosi quadrati dice: “Mettere i verbi all’infinito”. Come possiamo interpretarla?

 

Mi rendo conto che si tratta di un paradosso, ma qui l’interpretazione che viene in mente per prima è la meno immediata e la meno letterale: è l’interpretazione di tipo simbolico. “Verbi” sono tutte le parole, tutte le cose che diciamo. L’“infinito” è il limite di quello che si può pensare e immaginare, segna il punto oltre il quale la mente non può andare. Mettere i verbi all’infinito significherebbe, così, portare il linguaggio alla sua massima potenzialità e oltre ogni limite, fargli dire tutto e il contrario di tutto. A parlarci, qui, è quello stesso Boetti che gioca con il tempo, con la morte, con i sensi che gli uomini scopriranno in futuro, oltre ai cinque classici e oltre al senso del “pensare”. Ma questa non è che l’interpretazione simbolica, del tutto opinabile, della frase.

 

Un’altra interpretazione è di tipo sintattico, ed è più fondata. Una frase con i verbi all’infinito è una frase? Cosa afferma questa proposizione? Prendiamo un’altra frase quadrata boettiana: “Avere fame di vento”. Cosa dice, cosa descrive? Forse è proprio per la sua forma sintattica che è facile che una frase di questo tipo riceva un’interpretazione di tipo simbolico. L’indeterminazione dei verbi all’infinito è infatti tipica del linguaggio poetico classico, indipendentemente dal livello letterario a cui viene praticato. Tipica, cioè, dello Shakespeare di “Essere o non essere” e di “Morire, dormire, sognare forse” o del Mogol di “Uscir nella brughiera dove non si vede a un passo”. Tu chiamale, se vuoi, emozioni: ma, al netto delle differenze di livello letterario, è chiaro che il passaggio al modo infinito corrisponde all’uscita dalla prosa, e questo avviene grazie all’ambiguità per indeterminazione.

Il verbo all’infinito non constata, non descrive, non ha tempo, non ha soggetto: è esso stesso soggetto. Un’altra frase di Boetti: “Scrivere con la sinistra è disegnare”. Il verbo “scrivere” e il “verbo” disegnare sono usati come nomi di azioni. Il predicato senza soggetto diventa un soggetto senza predicato.

 

Nel caso della frase di Boetti “Mettere i verbi all’infinito” si riscontra anche la seconda caratteristica, oltre all’ambiguità, che lo strutturalismo assegnava alla funzione poetica del linguaggio: l’autoriflessività. “Mettere i verbi all’infinito” è appunto il caso di una frase con il verbo all’infinito, e così come “Scrivere con la sinistra è disegnare” è una frase scritta con la mano sinistra.

 

Il lavoro di Boetti sulle più inedite integrazioni e rifrazioni di figura e scrittura incominciava a svolgersi all’epoca in cui l’interesse per le condizioni formali del linguaggio, della letteratura e dell’arte si incrociava con i temi della nascente massmediologia. Si potrebbe certo leggere Boetti alla luce dello strutturalismo e di Roland Barthes; confrontare la sua attenzione all’ambito della sensorialità con le quasi contemporanee tesi di Marshall McLuhan. Naturalmente non si tratta di stabilire influenze dirette e ispirazioni, ma di ricostruire un clima culturale in cui si poteva arrivare al medesimo territorio concettuale a partire dalla teoria dell’informazione o da una pratica d’artista.

 

 

 

Boetti, di prima mano.

 

Un’altra frase quadrata di Boetti si svolge in un ambito perfettamente nominale: “Mano libera, pensieri sciolti”.

 

Due sostantivi, uno singolare l’altro plurale, - mano/pensieri - disegnano una classica opposizione, quella fra l’esecuzione e la progettazione o, se vogliamo, tra pratica e grammatica, braccio e mente, killer e mandante. La vicinanza sintattica giustappone due nessi sostantivo-aggettivo. “Mano libera” è un modo di dire preformato: riguarda una tecnica di disegno. “Pensieri sciolti” invece non è un modo di dire preformato, ma la metafora non è delle più ardite. Mentre i sostantivi si oppongono, i loro aggettivi (“libera” e “sciolti”) sono in relazione para-sinonimica. La relazione fra le due frasi sembra di tipo consequenziale, del genere: “quando la mano è libera i pensieri sono sciolti”; ovvero, “se la mano è libera è segno che i pensieri sono sciolti”. La struttura sintattica non determina inequivocabilmente, però, questa interpretazione: siamo ancora in un dominio di indeterminazione. L’equivalenza o la causalità potrebbe infatti essere di tipo ipotetico: “se la mano fosse libera, allora i pensieri sarebbero sciolti”; “solo se i pensieri fossero sciolti, la mano potrebbe essere libera”.

 

Due mani, una matitaè una fotografia del 1975 in cui appare per la prima volta l’immagine presa dall’alto della testa e delle braccia dell’artista, che tiene nelle due mani giunte una matita. Negli anni successivi, Boetti mise spesso nelle sue opere di carta il disegno di lavori come Afghanistan o Alternando da uno a cento e viceversa, aggiungendo nel margine inferiore e superiore l’immagine di Due mani, una matita, come a mettere fra parentesi l’istanza di enunciazione dell’opera. Era la teoria dei Livelli di realtà espostada Italo Calvino in una conferenza del 1978. Dalle sirene di Ulisse si risale a “io, qui, ora” attraverso un progressivo imbricamento di istanze dell’enunciazione.

 

Le sirene cantano.

Ulisse ascolta le sirene cantare.

Ulisse racconta a Nausicaa che Ulisse ha ascoltato le sirene cantare.

Omero narra che Ulisse ha raccontato a Nausicaa che Ulisse ha ascoltato le sirene cantare.

Calvino ricorda che Omero ha narrato che Ulisse ha raccontato a Nausicaa che Ulisse ha ascoltato le sirene cantare.

Io dico alle persone presenti oggi nell’auditorium Rai di Torino che Calvino ha ricordato che Omero ha narrato che Ulisse ha raccontato a Nausicaa che Ulisse ha ascoltano le sirene, e le sirene cantavano.

 

L’anno prima, era il 1977, Italo Calvino aveva scritto un testo intitolato La penna in prima persona per una mostra parigina di disegni di Saul Steinberg, alla Fondazione Maeght. Il testo di Calvino partiva da Guido Cavalcanti e dal sonetto in cui a parlare sono le penne “Noi sian le triste penne isbigottite, / le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente” che si rivolgono al lettore e gli narrano, in prima persona, dei patemi del poeta, ovvero: “La man che ci movea”. Se Boetti non conosceva questo testo sicuramente ne condivideva l’ispirazione: sottolineava il rapporto tra l’opera-enunciato e l’autore-enunciatore, metteva in scena gli strumenti del suo lavoro, si identificava con la sua mano.

Lo schema compositivo in cui poneva tra virgolette il suo lavoro veniva da lui chiamato “Tra sé e sé”. Ancora un aggregato di parole indeterminato, che questa volta disegna uno spazio: l’artista parla a sé stesso, l’artista mette la sua opera tra un sé passato e un sé presente, tra il sé che opera e il sé che guarda, il sé-mano e il sé-occhio.

 

La mano e le mani di Boetti sono presenti, disegnate da se stesse, fotografate o anche xerocopiate, in moltissimi lavori. In Annemarie le nove lettere che compongono il nome sono realizzate con l’alfabeto muto. Lo Strumento musicale ha due manici opposti e simmetrici. In Ciò che parla sempre in silenzio è il corpo le due mani scrivono la frase-titolo in due sensi opposti, partendo dal centro, fino a che lo scrittore non appare quasi come crocifisso alla sua scrittura: scrittura che a sua volta potrebbe essere la soluzione dell’ossimoro “parlare in silenzio”. Altrove aveva scritto, con la mano sinistra, “Scrivere con la sinistra è disegnare”. In Alighiero e Boetti la mano sinistra di uno tiene la mano destra dell’altro.

 

La seconda mano di Boetti non è solo la sua sinistra che, quando scrive, disegna. L’artista aveva coniato il neologismo “ononimi” (sovrapposizione di anonimi e omonimi) per denominare quei lavori che faceva eseguire ad altri. Altre mani boettiane sono dunque la mano della donna afghana che tesse i quadrati e le mappe senza conoscerne la scrittura e la regola convenzionale; oppure la mano dell’assistente che campisce pazientemente ampi pannelli con una penna biro. La penna biro che normalmente lascia il segno sullo sfondo del foglio, qui fornisce lo sfondo: l’apparato criptico e semiotico delle virgole e dell’alfabeto con cui si ricomporrà il messaggio è negli spazi su cui la penna biro non è passata, né vi è passata la mano dell’ononimo.

           

 

Giochi di mano

 

Un altro punto di indeterminazione del linguaggio è dato dal rapporto tra titolo e opera. Si parla spesso del celebre Manifesto di Boetti, ma non sempre si sottolinea come il titolo di questo lavoro sulla crittologia e sul simbolismo para-alfabetico sia una parola che oltre al significato di “supporto esibito della scrittura” significa anche “esposizione di principi ideologici o di poetica” e, come aggettivo, “chiaro, evidente, tutt’altro che enigmatico”.

 

Un caso analogo pare quello dell’opera che Boetti descrisse così: “Il Cimento dell’armonia e dell’invenzione consiste nel rifare i quadratini”. Il lavoro consiste nel paziente ricalco della quadrettatura di un foglio da parte da una mano che è libera (nel senso che non è guidata dal supporto di un righello) e non lo è (nel senso che non può svariare liberamente sul foglio).

 

È certamente possibile pensare che titoli come “Manifesto” (per un’opera criptica) o “Cimento dell’armonia e dell’invenzione” (per un’opera di ricalco) siano ironici. Ma dobbiamo chiederci: è solo ironia e paradosso? Io penso che neppure Oscar Wilde andrebbe ridotto ai suoi aforismi; figurarsi Alighiero Boetti, che teneva aperte sempre le sue locuzioni sin dalla loro struttura sintattica. Non è possibile che sotto il titolo “Cimento dell’armonia e dell’invenzione” ci sia davvero un discorso che riguarda l’armonia e l’invenzione ?

 

La mano non appare mai meno libera di quando deve ricalcare le linee ortogonali della quadrettatura di un foglio. Ma nella scelta del suo percorso la mano sta esplorando un territorio, lasciando delle tracce che potranno rimanere visibili, sbagliando - anche - non riuscendo a ripetere perfettamente la linea sottostante. Quindi, pensiero sciolto o no?

In un testo del 1938, intitolato Che cosa è l’arte? Raymond Queneau aveva scritto una frase che Calvino avrebbe poi spesso ripreso:

 

“Un’altra falsissima idea che ha pure corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo d’altre regole che ignora”.

 

Tra il progetto e l’esecuzione, tra i vincoli e la libertà c’è uno spazio, così come tra la linea ricalcata e la linea che la ricalca si può aprire un vuoto di inesattezza.

In modo probabilmente non del tutto consapevole, Boetti faceva allora quello che la letteratura sperimentale a lui contemporanea (per esempio, nel gruppo dell’Oulipo, con Queneau, Perec, Calvino) teorizzava e praticava: inventava forme, sfruttando gli interstizi delle convenzioni linguistiche, sociali, tecnologiche, tipografiche (eccetera) della scrittura. Con questi scrittori Boetti condivideva una convinzione: la libertà espressiva è la libertà di scegliere i propri vincoli.

La semiotica, lo strutturalismo ma anche la riflessione semiseria di Queneau sulla letteratura potenziale definiscono concordemente il gioco come la scelta di un vincolo e il tentativo di uscirne. Non è una nozione frivola di gioco: è la nozione che concorre a uno dei principali impulsi dell’uomo, l’impulso a ritornare sull’identico e ripeterlo in modo diverso.

           

Il lavoro di Boetti dimostra in modo del tutto personale che nel gioco la scrittura si apre sempre a una dimensione che eccede la sua linearità: prende spazio e si fa, letteralmente, figura.      

La mano sinistra lavora sul vincolo della scrittura in maniera diversa dalla destra: fatica a realizzarlo, questa sua fatica se ne discosta ed è per questo che scrivere con la sinistra è disegnare. La mano prende il suo ulteriore significato di partita al gioco.

Si potrebbe, allora, concludere che disegnare con la sinistra è iscrivere un spazio di libertà in un sistema di vincoli.

Disegnare con la sinistra è giocare.

 

 

[Traccia scritta dell’intervento tenuto sabato 28 maggio, all’Auditorium Rai di Torino, per l’ “Alighiero e Boetti Day” curato da Luca Cerizza, Massimiliano Gioni e Francesco Manacorda.]

 

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