Van Gogh e i suoi libri

1 Febbraio 2015

“I libri la realtà e l’arte sono una sola cosa per me”

 Vincent, lettera al fratello Theo, L’Aia, 11 febbraio 1883

 

Questa frase è oggi diventata una mostra: Van Gogh. La passione per i libri. Si tratta di qualcosa di diverso per Vincent van Gogh questa volta, una mostra in biblioteca tra i suoi libri più amati, più di quaranta, alla Sormani di Milano (fino al 25 febbraio). È così che scopriamo lo specchio più inedito di Vincent che non era certo l’artista impulsivo e spontaneo che è stato dipinto. Una mostra da leggere e da osservare, una passeggiata anti-mitologica in dodici teche a tema che raccontano la vita di Van Gogh attraverso i suoi libri e le citazioni dalle lettere al fratello Theo o agli amici pittori.

 

Vincent van Gogh era un lettore accanito, attento, curioso e informato; sin da ragazzo leggeva e rileggeva, copiava e meditava le sue letture multilingue, in olandese, inglese, francese, mettendo a confronto secoli di arte e letteratura. Si può dire che in lui la formazione letteraria precede il lavoro dell’artista. Gli studi più recenti sulle sue lettere hanno fatto emergere più di mille citazioni letterarie relative a 200 opere di 150 diversi autori, in quattro lingue. Non poco. Riflettono l’evoluzione del suo gusto e hanno ispirato il suo pensiero. Nei testi più amati egli si cerca, si riconosce in quelle idee, in quei sentimenti, da Dickens a Zola, Maupassant, Shakespeare o Loti, ai suoi critici d’arte preferiti, Charles Blanc o Sensier. Nelle sue letture incontriamo sempre gli stessi temi: lo sguardo verso i poveri, i diseredati, le ingiustizie; la semplicità, l’umiltà, il duro lavoro, la terra, la natura; l’indagine dell’animo umano, la verità delle cose. Ma Van Gogh non ci spiega la letteratura, non è un letterato, non è un bibliofilo, è e rimane “artista-lettore”, allora questi libri lui li macina, li prende li riprende li fotografa con la mente se sono illustrati, li fa suoi. Galleggiano nei suoi pensieri, entrano nella sua opera. Il lavoro degli illustratori, che Vincent osservava con straordinaria attenzione, è un fattore molto importante: per Van Gogh l’aspetto visivo era spesso in primissimo piano. Da questo legame parola-immagine si possono fare nuove ipotesi sulle edizioni che furono tra le sue mani e che ispirarono la sua opera. Sono solo due i libri conservati al Van Gogh Museum di Amsterdam che furono sicuramente suoi perché portano le sue tracce, Vincent, inscritto sul frontespizio. E gli altri 200? Una vita errante, 37 indirizzi diversi in 37 anni. E i libri? Alcuni li portava con sé, o li spediva, li scambiava, li faceva arrivare. Ma, soprattutto, li aveva tutti bene in mente, una biblioteca in testa, da artista errante con bagaglio leggero. Per lui non era tanto importante possederli, quanto farli suoi.

Ve ne racconto alcuni, che illustrano le fasi salienti del suo viaggio tra libri realtà e arte, un insieme inscindibile, una cosa sola, come scrive al fratello, ‘un sistema Van Gogh’, come mi piace definirlo. Un sistema che rispecchia una vita d’artista-lettore ben diversa da quella descritta nei film a lui dedicati.

 

 

UNA VITA TRA I LIBRI

 

Rembrandt, ‘le magicien’

 

“Questa mattina in chiesa ho visto una piccola vecchia, probabilmente una della chiesa, che tanto mi ha ricordato quell’incisione di Rembrandt, una donna che sta leggendo la Bibbia e si è addormentata sorreggendosi la testa con la mano. Charles Blanc ne scrive in modo meraviglioso.”

Siamo ad Amsterdam, è il maggio 1877, Van Gogh ha ventiquattro anni, ha da poco tolto la giacca dell’impiegato delle gallerie d’arte della Goupil & Co, che ha portato per quasi sette anni nelle capitali europee. Quell’impiego nel mercato dell’arte non fa più per lui: ha deciso per gli studi teologici, sulle orme del padre, è ad Amsterdam, da uno zio, a studiare il greco e il latino in vista degli esami.

 

 

Ma in chiesa vede una piccola vecchia e pensa a Rembrandt e al meraviglioso commento di Charles Blanc. E cosa scrive Blanc? ecco la pagina con la piccola incisone, nel secondo volume che Blanc dedica a Rembrandt, L’Œuvre complet de Rembrandt. È un lavoro innovativo il suo, ri-cataloga tutta l’opera incisoria a tema e la descrive con passione: “Le rughe del volto, la dolcezza delle palpebre chiuse, le pieghe della pelle sulle mani lunghe e magre, il pelo del mantello […] sono resi con un compiacimento che, in Rembrandt, arriva raramente così a fondo. Mi sembra che bisogna guardare questa stampa in silenzio, o per lo meno che non bisogna parlare ad alta voce, per non disturbare un sonno così dolce e rispettabile”.

Guardarla in silenzio, pensiamo allo scenario: Van Gogh è in chiesa. Questa è la magia di Rembrandt, quel je ne sais quoi del grande maestro che sa trasformare scene di vita reale in qualcosa di eterno, di universale. Un credo per Van Gogh, sapremo più tardi, quando diventerà pittore, cosa significa per lui: Rembrandt è magico, le magicien, dipinge con una mano di fuoco, une main de feu, nel ritratto va “così a fondo nel mistero che dice cose per cui non ci sono parole, in nessuna lingua”. Irraggiungibile, inarrivabile, Rembrandt, l’amore di una vita.

 

 

Nel Borinage, uno spartiacque, 1878-1880

 

“Ebbene, ora non sono più tra quadri e cose d’arte, ma si pretende che quella cosa che chiamiamo anima non muoia mai e viva sempre e cerchi sempre e sempre e sempre ancora. Invece di soccombere alla nostalgia del paese, mi sono detto: il paese o la patria sono dovunque. Invece di disperarmi ho preso la via della malinconia attiva per quel tanto che avevo di energia di attività. In altri termini, ho preferito la malinconia che sperasse, che avesse delle aspirazioni, che cercasse qualcosa, ad una disperazione cupa e stagnante. Così ho studiato seriamente i libri che avevo a portata di mano come la Bibbia e la Rivoluzione francese di Michelet e poi l’inverno scorso Shakespeare un po’ di V.Hugo e Dickens e Beecher Stowe […]”

È il giugno 1880, siamo nella regione mineraria del Borinage, Vincent è a Cuesmes da quasi due anni a consolare la miseria. Ha scelto i minatori, gli ultimi tra tutti. Lavora come missionario e predicatore. Le innumerevoli nuove letture di questo periodo, per lo più in francese, riflettono e anticipano un passaggio di vita: dalla missione evangelica alla missione artistica.

Studia l’Histoire de la Révolution française di Jules Michelet che, per la prima volta, restituisce al popolo un ruolo attivo mettendolo al centro della dinamica rivoluzionaria. La vita quotidiana del popolo occupa dunque un posto essenziale in quest’opera, diventando il grande attore della storia di Francia. Anche Vincent metterà i volti della gente al centro della sua révolution nel ritratto, facendoli diventare i grandi attori della sua Pittura. Un affresco di parole e immagini, 3453 pagine in nove volumi, uno sguardo intimo, una scrittura che riga dopo riga coinvolge il lettore con i nuovi attori della Storia.

Un’innovazione anche visiva: in copertina la protagonista è la parola RÉVOLUTION.

 

 

Michelet, un nuovo padre intellettuale per Van Gogh, una svolta di vita e di pensiero. E poi, tra gli altri, legge Victor Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte; Beecher Stowe, La capanna dello zio Tom, o La vita tra gli umili, il successo del secolo, che contribuì alla liberazione degli schiavi d’America. Harriet Beecher Stowe, “la donna che ha scritto il più grande successo dei tempi tradotto in tutte le lingue e letto in tutto il mondo, divenuto il Vangelo della libertà per una razza”, come scrive Michelet nell’introduzione del suo libro, L’amour, una delle prime letture di Van Gogh.

“Prendi Michelet e Beecher Stowe, non dicono, il vangelo non è più valido, ma ci aiutano a capire com’è applicabile nei nostri giorni e nella nostra epoca, nella vita nostra, per te, per me, per esempio.

Michelet arriva a dire apertamente e a voce alta cose che il vangelo sussurra appena e Stowe arriva anche lei ai livelli di Michelet,” scriverà Van Gogh al fratello Theo nel novembre 1881.

Qual è il filo conduttore di queste letture del Borinage? La conquista della libertà e dell’indipendenza, l’importanza morale della letteratura, lo sguardo verso i poveri, i diseredati: un “vangelo moderno” per Vincent, in un momento di grandi dubbi e di rifiuto radicale per il “sistema religioso stabilito”.

È tra questi libri che matura in lui la svolta della sua vita: decide di diventare pittore. Inizia a disegnare assiduamente. Ha ventisette anni. Alcune illustrazioni di Vierge, dell’edizione popolare di Le Vasseur, entrano nella sua eredità visiva.

 

 

L’Aia, la realtà e la vita, 1881-1883

 

Nel dicembre 1881 Vincent è all’Aia e prende lezioni di pittura da Anton Mauve. Disegna senza sosta, dipinge i primi studi a olio, sotto la guida del suo nuovo maestro, cugino acquisito. Vive in una pensioncina vicino allo studio di Mauve e con lui inizia a “capire i misteri della tavolozza e dell’acquerello”. Sono anni di grandi scoperte letterarie e di immersione totale nel realismo-reale che sperimenta anche nella sua nuova quotidianità: vive con Sien, la prostituta che vorrebbe sposare e così salvare dalla strada: “se ne andava in giro d’inverno, malata, incinta, affamata, non ho potuto agire diversamente” scrive nel maggio 1882, portando ad esempio a Theo L’amour di Michelet, a sostegno della sua buona azione.

Vorrebbe guadagnarsi da vivere diventando illustratore, sperimenta la litografia, colleziona migliaia di fogli, in particolare dal The Graphics; […] “ho acquistato a pochissimo prezzo splendide incisioni del Graphic, […] Le ho trovate da Bock, il libraio ebreo, e ho ritirato il meglio da un mucchio enorme di Graphic e London News, il tutto per cinque fiorini. Alcune sono superbe, come gli Houseless and homeless di Fildes (povera gente in attesa davanti a un ricovero per la notte) […]”.

 

 

Povera gente. Sien, la sua nuova modella, gli si è affezionata come “una colomba domestica”. E poi c’è la mamma di lei, la figlia di otto anni e, di lì a poco, il nuovo nato di Sien, li vediamo tutti insieme nella sua famosa Mensa dei poveri del 1883, realismo-reale, la sua nuova famiglia che durerà poco. Gli altri suoi nuovi modelli sono gli anziani dell’ospizio dei poveri, disegnati senza paura con la matita da falegname e il pastello litografico. “Dipingere con il nero” è il suo nuovo motto, non ha abbastanza soldi per i colori... ma investe tutto quello che ha per acquistare dieci anni del Graphic rilegati in 21 volumi “stampe come queste, tutte insieme, formano come una Bibbia per un artista, dove di tanto in tanto si torna a leggere per entrare nello spirito giusto”. Anche l’amico Rappard, a cui sta scrivendo, colleziona fogli, con lui commenta tutto.

Nel luglio 1882 scopre Émile Zola, che sa dipingere con le parole, ne è entusiasta: “in ‘Une page d’amour’ di Emile Zola ho visto alcuni paesaggi cittadini dipinti o disegnati in modo magistrale, davvero magistrale […] E quel piccolo libro fa sì che leggerò sicuramente tutto di Zola […]” ed è così che di Zola sarà più che un preferito. “Ho anche letto Nana. Ascolta, Zola è in realtà un Balzac II. Balzac descrive la società dal 1815-1848, Zola inizia dove smette Balzac e va avanti fino a Sedan o meglio fino ai giorni nostri. Io lo trovo davvero bellissimo. […] P.S. Leggi Zola il più possibile, è roba salutare e chiarisce le idee”, siamo nel luglio 1882.

 

 

Charles Dickens, i sentimenti ‘veri’

 

“Questa settima ho comprato una nuova edizione da 6 penny del Christmas Carol e The Haunted man di Dickens (London Chapman and Hall) […]

Trovo tutto Dickens magnifico, ma quelle due novelle – le ho lette quasi ogni anno da quando sono ragazzo, e mi paiono sempre nuove. […]

Secondo me non c’è un altro scrittore che è pittore e disegnatore come Dickens. Le sue figure sono resurrezioni. […]

Ah – ho l’edizione francese quasi completa di Dickens tradotta sotto la supervisione di Dickens stesso.”

 

 

Siamo all’Aia, è il marzo 1883, Vincent sta scrivendo a Anton van Rappard, l’amico pittore conosciuto due anni prima a Bruxelles. Rappard viene da una famiglia aristocratica, legge tanto ma conosce poco l’inglese, così Van Gogh gli offre la sua edizione francese di Dickens. Scopriamo così che Van Gogh leggeva Dickens in due lingue. Questo aspetto, poco noto, ci dice che Vincent, che scriveva e parlava olandese, inglese e francese – e masticava il tedesco – aveva anche una gran curiosità linguistica.

Charles Dickens, l’ateo dai “sentimenti veri” è un discorso senza data per Van Gogh, un compagno di viaggio per tutta la vita. Quelle due novelle... rilette ogni anno, le conosceva praticamente a memoria. Un’occhiata ai Canti di Natale: The Christmas Books. Le cinque novelle furono pubblicate a Londra da Bradbury & Evans in cinque libri singoli e di ben piccole dimensioni, da qui la parola ‘Books’. Uscirono dal 1843 al 1848 (Van Gogh nasce nel 1853) sempre a ridosso di Natale, rilegati in tessuto rosso. Tra il 1871 e il 1879 la Chapman & Hall pubblicò tutta l’opera di Dickens nella Household Edition, 22 volumi, edizione che Van Gogh cita più volte. Le cinque novelle furono così raccolte in un unico volume.

 

 

Vincent conosceva queste prime edizioni vestite di rosso, pubblicate a Londra ben prima che lui nascesse? Forse sì, avido com’era di vedere il lavoro dei vari illustratori... In una lettera a Theo, dall’Aia, scrive di avere trovato “quelli piccoli”... dei tascabili, diremmo oggi, ma non abbiamo altri dati.

C’è però una illustrazione di John Leech – che Vincent tanto ammirava – per questa prima edizione del Grillo del focolare, The Cricket on the Hearth, che ci dice qualcosa di più. Entrò nella sua eredità visiva, per riemergere nel disegno Worn out, l’uomo davanti al focolare, la testa tra le mani. Ecco che possiamo ragionevolmente supporre che questa prima edizione dickensiana fu tra le sue mani.

 

Un discorso a parte merita Il patto col fantasma, The Haunted Man and the Ghost’s Bargain, l’ultima delle cinque novelle (1848). In estrema sintesi, il racconto ruota intorno al tema della memoria. Il protagonista Redlaw, uomo melanconico, fa un patto col suo fantasma per dimenticare avversità e dolori della sua vita. Perdere i propri ricordi negativi? Ma senza il dolore si perderebbe l’empatia necessaria a capire che nel dolore c’è il tema del bene. Van Gogh nelle lettere cita più volte la frase-sigillo a chiusura del Patto col Fantasma: “Lord keep my memory green, evergreen”, Signore, tieni viva la mia memoria, sempreviva, riportata nell’illustrazione di John Leech, per la prima edizione del 1848. All’amico Rappard, nel febbraio 1883, scrive e sottolinea: “Uno non ritrova mai esattamente se stesso in un libro, ma a volte vi sono tratti di natura in generale che uno scorge, in modo vago e indefinito, anche in cuor suo. Penso che questo sia molto vero per Il patto col fantasma di Dickens. Lo conosci? Né in 93 né nel patto col fantasma mi ritrovo con esattezza – tutto è abbastanza diverso, a volte l’opposto, ma molti sentimenti che ho provato si risvegliano in me quando lo leggo”.

 

 

Jean-François Millet, Père Millet

 

“Senti Theo, ma che grand’uomo Millet! Ho qui il grande lavoro di Sensier, in presito da De Bock. Mi coinvolge a tal punto che mi sveglio di notte, accendo la lampada e riprendo a leggere. Perché durante il giorno ho da lavorare. […]

Eccoti alcune parole che mi hanno colpito e commosso nel Millet di Sensier. Sono parole di Millet.

L’arte è un lotta – nell’arte bisogna metterci la propria pelle.

Uno deve lavorare come una squadra di negri.

Preferirei non dire niente piuttosto che esprimermi debolmente.

L’ultima frase l’ho letta solo ieri, ma la pensavo così anch’io, ecco perché a volte sento il bisogno di scarabocchiare ciò che provo non con un pennello soffice, ma con una robusta matita da falegname e una penna.” È il marzo 1882.

Quando Van Gogh lesse il libro che Alfred Sensier dedicò alla vita e all’opera di Millet, La Vie et l’œuvre de J.-F.Millet, ne rimase profondamente colpito, non solo per i contenuti teorici con i quali si trovava in perfetta sintonia, ma anche per l’analogia con il suo rapporto con Theo: Sensier seguì Millet da vicino come critico e amico e lo sostenne anche economicamente. Il carattere melanconico di Millet, descritto da Sensier, fu per Vincent una rivelazione. “Se non l’hai letto te lo consiglio proprio, è estremamente interessante. Ci sono cose che solo Sensier, come amico intimo di Millet, poteva sapere [...]” scrive Vincent a Rappard, nel maggio 1882.

 

 

Nella vita di Van Gogh il Millet di Sensier è un testo-immagine fondamentale: Il seminatore, uno dei suoi primi esercizi di copiatura, lo accompagna per tutta la vita. Galleggia per dieci anni nella sua mente, “ne ha quasi paura”, lo rilavora continuamente, è sempre nei suoi desideri, una trentina di disegni, almeno otto tele, un “tormento”. Nel 1888 si chiede se debba farne “un quadro terribile”... Cosa vuole Van Gogh dal suo seminatore? Vuole un’idea che è anche il suo credo: l’arte come missione. Ma è anche la parola stessa che riassume la sua vita, lui che si era definito “seminatore di parola” evangelica.

L’autoritratto di Millet, invece, fa emergere un aspetto linguistico interessante. Vincent lo commenta così, in una lettera a Theo del novembre 1882: “C’è un ritratto di Millet fatto da Millet che trovo bellissimo, null’altro che una testa con sopra una specie di cappello da pastore”. L’espressione di Van Gogh oggi potrebbe sembrare strana ma, in realtà, la parola ‘autoritratto’ a quel tempo non esisteva, sui dizionari inglesi dell’epoca non ve n’è traccia. Entrò ufficialmente nel dizionario francese nel 1950, come ben precisa Le Petit Robert. Abbiamo due schizzi a carboncino di Van Gogh, la testa di un uomo con un cappello da contadino, ripetuta due volte, del 1886, molto probabilmente un ritratto ‘di Vincent fatto da Vincent’, ispirato a quello di Millet.

Nella sua introduzione Sensier racconta la storia come una sorta d’intervista, con in puntini di sospensione: “Da quel momento, Millet parlò liberamente e mi lanciò qualche pensiero sull’arte che mi ha fatto sentire che avevo incontrato un uomo, e allo stesso tempo un cuore espansivo e generoso. «Tutti i soggetti vanno bene, – mi disse; si tratta di renderli con forza, con chiarezza… Nell’arte bisogna avere un’idea madre, esprimerla in modo eloquente, conservarla dentro di sé e comunicarla agli altri con forza come l’impronta di una medaglia… L’arte non è una partita di piacere. È una lotta, un ingranaggio che tritura… non sono un filosofo, non voglio sopprimere il dolore, né trovare una formula che renda stoici o indifferenti. Il dolore è, forse, quello che fa esprimere più fortemente gli artisti”.

Uno specchio, per Vincent.

 

Le guide teoriche, Charles Blanc

 

 Dopo aver lasciato Sien nell’ottobre 1883, Vincent passa tre mesi in erranza, nella regione della Drenthe. Nel dicembre 1883, stremato dal freddo e dalla solitudine, ritorna a Nuenen alla casa dei genitori e si dedica alla pittura della vita contadina, sulle orme di Millet. Vi rimarrà per quasi due anni di studi intensi. Ogni tanto l’amico Rappard lo va a trovare. “Ti ringrazio molto per avermeli lasciati da leggere, oggi riprendo il libro di Blanc e quello di Fromentin. Come ti ho detto, dopo aver letto Les Artistes de mon temps, ho comprato la Grammaire des arts du dessin, se vuoi la puoi leggere.” È il settembre 1884. Van Gogh cita la Grammaire di Blanc già nelle lettere a Theo del 1877, ben prima di diventare pittore, ma inizia a studiarla costantemente ora e non la lascerà più.

La stella a colori di Charles Blanc ha il posto d’onore nella sua vita d’artista. Grammaire, sezione Peinture.

 

 

Charles Blanc, nella sua stella cromatica, spiega l’azione dei colori complementari disponendoli opposti l’un l’altro così da formare tre coppie subito visibili: giallo-viola, blu-arancio, rosso-verde. Il primo colore di ogni coppia è il primario – giallo, blu e rosso. Mescolandoli, si ottengono i secondari, mescolando giallo e blu, per esempio, si ottiene il verde. Questo colore secondario è complementare del primario che non è stato usato, il rosso. Il primario e il secondario, il rosso e il verde, si rafforzano l’un l’altro quando sono messi vicini. Questo fenomeno, detto legge del ‘Contrasto simultaneo’ (descritto per la prima volta dal fisico M. E. Chevreul nel 1839), fu alla base della teoria dei colori di Eugène Delacroix. Van Gogh l’adottò pienamente, anche per i contrasti tonali, i “toni spezzati e i grigi”.

 

 

Parigi, 1886-1888

 

Dopo tre mesi ad Anversa a cavallo del 1885, dove conosce per la prima volta le stampe giapponesi, Van Gogh raggiunge il fratello a Parigi nel febbraio 1886, dove rimarrà per due anni. Sa già tutto del romanzo “moderno” francese, tanto da stupire Gauguin e il futuro cognato Andries Bonger. Si appassiona alle stampe giapponesi, ne avrà a centinaia (Hiroshige, Hokusai, Kunisada e altri). Abbiamo pochi commenti sulle letture parigine (pochissime lettere in questi due anni), ma lesse pile di libri, dai fratelli de Gouncourt a Maupassant, da Zola a Baudelaire, tutte le novità. E queste pile di Romans Parisiens le dipinge più volte, sparpagliate sul tavolo, senza titoli visibili. Poi a fine 1887 realizza una composizione speciale, ne dipinge due fedelmente in giallo e in azzurro, riproduce i titoli con cura; ci mette accanto una statuetta di gesso su un fondo blu di un cielo che non c’è, aggiunge un fiore fresco... una rosa con i boccioli inventati, o una camelia con le foglie imprecise? o un fiore di fantasia? non lo sapremo mai... Sono Bel Ami e Germinie Lacerteux, due preferiti, come scrive da Parigi alla sorellina Willemien, alla quale dà consigli di lettura. Siamo a fine ottobre 1887.

 

 

“Così per esempio io, che nella mia vita conto già talmente tanti anni in cui non ho proprio avuto nessuna voglia di ridere, a prescindere se sia stata colpa mia o meno, ho soprattutto bisogno di farmi una bella risata ogni tanto. Ci sono riuscito con Guy de Maupassant e ce ne sono altri qui [...]

Invece se si vuole la verità, la vita così com’è, per esempio De Goncourt in Germinie Lacerteux, La Fille Elisa, Zola in La joie de vivre e L’assommoir e così tanti altri capolavori descrivono la vita esattamente come noi stessi la percepiamo e quindi rispondono a quel bisogno di sentire la verità. [...] Le opere dei naturalisti francesi Zola, Flaubert, Guy de Maupassant, De Goncourt, Richepin, Daudet e Huysmans sono magnifiche, difficile dire di appartenere al nostro tempo se non li si conosce. Il capolavoro di Maupassant è Bel-Ami, spero di riuscire a procurartelo.”

Vincent van Gogh non aderì mai a nessun movimento artistico o letterario, ma proseguì sempre con il suo credo fondamentale: “qualcosa di onesto e vero”. Dalla gente per la gente. Di Zola amava le descrizioni di vita reale. Lo scoprì all’Aia ed era esattamente ciò che stava vivendo, ma non sposò il naturalismo di nessuno, nemmeno a Parigi, per lui era un confronto interiore “con l’artista che c’è dietro”, la conferma alle sue idee, l’entusiasmo a procedere: un’opera d’arte nasce dalla vita di tutti i giorni, in tutta la sua semplicità. “Sentire la verità”, dipingerla a parole o a colori, nulla cambia.

 

 

La Provenza, 1888-1890

 

Lunedì 20 febbraio 1888 Van Gogh 1888 parte per la Provenza. Nel suo bagaglio letterario ci sono nuove letture avventurose, divertenti e caricaturali: Il Tartarino, l’eroe di Alphonse Daudet che va a Tarascona, Vincent ci andrà nell’estate. Lascia Parigi e la lezione impressionista, si avventura nel Sud da artista esploratore, come Delacroix “che ha giudicato indispensabile andare nel Sud giù fino in Africa”, in cerca di nuove luci. E “così ha potuto vedere un nuovo sole” come scrive Charles Blanc in Les Artistes de mon temps, che Vincent ben conosceva.

“Ho appena letto il Tartarin sur les Alpes che mi ha divertito enormemente”, è il 9 marzo 1888, è arrivato ad Arles con la neve che immortala in un paesaggio dove, sul fondo, pare di vedere un piccolo Fuji. La Provenza gli piace, un paese strano, caricaturale: “Che strano paese questa patria di Tartarin. Sì sono contento della mia sorte; non è un paese superbo e sublime, è solo un Daumier vivo. Hai riletto i libri di Tartarin, ah, non dimenticarlo! Ti ricordi in Tartarin le lamentele della vecchia diligenza di Tarascon, quella pagina mirabile? Ebbene, l’ho appena dipinta questa vettura rossa e verde, nel cortile della locanda. – La vedrai”.

 

 

Uno dei suoi grandi obiettivi è quello di formare una comunità di pittori nel sud della Francia, una residenza d’artisti, la Casa Gialla. La trova in maggio, quattro stanze. Nei primi mesi di Arles assistiamo a una ricerca senza precedenti verso una poetica della natura che respira in giapponese, mandorlo in fiore, frutteti, progetta dei crépons, di 6,12 fogli “come gli album dei disegni originali dei giapponesi”. In giugno legge Madame Chrysanthème di Pierre Loti, ambientato a Nagasaki, la storia di un ufficiale francese che sposa una donna giapponese, Kikou-San, il nome di un fiore, di qui Madame Crhysanthème. Lo scrive subito a Émile Bernard, il giovane amico pittore conosciuto a Parigi: “Per me, io sto meglio qui che al nord – lavoro anche in pieno sole senza il minimo di ombra nei campi di grano ed eccomi lì, come una cicala. […] I giorni scorsi ho letto Madame Chrysanthème di Loti; ci sono interessanti osservazioni sul Giappone”. Il Giappone, che Van Gogh associa all’idea di una società ideale non corrotta, come scriverà all’amico Bernard in autunno, è per Vincent un mondo in cui gli artisti sanno scambiarsi le opere “e questo dimostra che c’è amore e armonia fra loro e non intrighi”. È quello che sogna per la Casa Gialla... E poi “Il giapponese disegna veloce, molto veloce, come un lampo, e questo perché i suoi nervi sono più fini, il suo sentimento più semplice”.

Eccolo l’amabile Monsieur Sucre, illustrato in Madame Chrysanthème. Siamo sull’edizione con stupendi acquerelli di Rossi, Myrbach e incisioni dei fratelli Guillaume, che Vincent tanto ammirava. E si rivede lì... “quando la natura è così bella, non sento più me stesso e il quadro mi viene come in un sogno”, scriverà in settembre. Poco dopo dipinge un celebre autoritratto dove “ho l’aria di un giapponese”, gli occhi a mandorla.

 

 

E sotto il solleone di quell’estate provenzale, l’estate dei girasoli e della notte stellata sul Rodano, Vincent si sente una cicala... che disegna in mezzo alle parole in una lettera a Theo del luglio 1888: “le cicale qui non sono come da noi... cantano più forte di una rana”. Si pensava che l’ispirazione venisse da un album giapponese, invece è di questa edizione che si nutrì. Varie cicale sparse per il libro di Loti, ecco la più bella, pare che sia pronta a volar via dalla pagina libro...

 

 

Il sogno della Casa Gialla dura poco, Gauguin è il primo invitato ma temporeggia, si fa pregare, si fa pagare i debiti da Theo e finalmente arriva in ottobre... Poche settimane per un disastro vero. Vincent, a ridosso di Natale (1888), si taglia il lobo dell’orecchio e lo porta a Rachel, la prostituta del paese: è l’unica cosa certa, comparsa sul giornale di Arles. Non sapremo mai la verità, Vincent non ne parla, la leggenda vuole che Van Gogh rincorresse Gauguin con un rasoio... ma questa è la dichiarazione di Gauguin, che se ne va l’indomani col primo treno per Parigi. Tante versioni diverse anche vent’anni anni dopo... Ma nelle sue memorie, Avant et après (1923), Paul Gauguin scrive qualcosa che ci interessa, aprendo un altro possibile scenario (o almeno per me)... il più semplice, in fondo.

In breve Gauguin si lamenta dell’aspetto economico e racconta che alla Casa Gialla avevano due cassettine per i soldi “riempite modestamente dal fratello” e divise così: “In una scatola tanto per le passeggiate notturne e igieniche, tanto per il tabacco, tanto per l’affitto. In un’altra scatola il restante diviso in quattro per il mangiare di ogni settimana”. Insomma le finanze erano sul filo del rasoio... Nelle stesse memorie Gauguin cita una lettera di Van Gogh che molto dopo “la catastrophe...” gli scrive: “certamente dovreste consultare uno specialista per guarire dalla follia. Non lo siamo un po’ tutti?” Questa lettera è perduta.

Ma in una lettera a Theo del 19 gennaio 1889 Vincent scrive al fratello ‘in codice’, dicendogli chi è Gauguin, anche attraverso due illuminanti illustrazioni del Tartarin sur les Alpes, di Daudet: vediamole, siamo al capitolo finale del libro di Daudet intitolato, non a caso, La Catastrophe:

 

 

“Gauguin ha mai letto il Tartarin sulle Alpi e si ricorda dell’illustre compagno tarasconese di Tartarin che aveva una tale immaginazione da immaginare una Svizzera immaginaria tutta d’un colpo?

Si ricorda di quel nodo di una corda ritrovata in cima alle Alpi dopo la caduta? E tu, che tanto desideri sapere come stavano le cose, hai mai letto tutto il Tartarin?

Forse ti insegnerebbe a conoscere passabilmente Gauguin.

Ti consiglio proprio sul serio di rileggerti questo passo del libro di Daudet.”

Il nodo della corda tagliato e ritrovato sulle Alpi è sempre presente nell’epilogo del libro, variamente illustrato nelle diverse edizioni. Era la corda con la quale Tartarin e l’amico Bompard si erano legati per la scalata. Il tema è sul tradimento e le promesse non mantenute. Bompard è un bugiardo e un traditore.

Nel maggio 1889 il sogno della Casa Gialla è interrotto. Van Gogh è sfiduciato, non se la sente di tornare ad Arles tra gendarmi e vicini, soffre di allucinazioni, insonnia crisi... e decide di entrare volontariamente all’Hospice pou Alienés di Saint-Rémy. Spera di rimanerci tre mesi “per cominciare” ma ci rimarrà un lunghissimo anno. Ai primi di giugno chiede un libro a Theo: “Mi farebbe davvero piacere aver qui da leggere di quando in quando uno Shakespeare. Ce n’è da uno scellino, il Dicks shilling Shakespeare, che è completo”.

 

 

“Ti ringrazio tanto anche dello Shakespeare. Mi aiuterà a non dimenticare quel poco d’inglese che so – ma soprattutto è così bello […] quello che mi colpisce in certi romanzieri del nostro tempo è che le voci di queste persone, che nel caso di Shakespeare ci giungono a distanza di parecchi secoli, non ci sembrano sconosciute. È così vivo che par di conoscerle e di vederle.” Un volume di più di mille pagine, di piccolo formato, A5 diremmo oggi, scritto più piccolo di una guida del telefono. C’è tutto, ma Vincent inizia con il ciclo dei re; i temi sono questi, coraggio, intrighi e tradimenti, presagi, pazzia.

 

 

“Sono parecchio assorbito nella lettura di Shakespeare che Theo mi ha mandato qui, dove finalmente avrò la calma necessaria per seguire una lettura un poco più difficile. Ho iniziato con la serie dei re, di cui ho già letto Riccardo II, Enrico IV, Enrico V e una parte dell’Enrico VI – visto che sono i drammi che conoscevo meno. Hai mai letto Re Lear? Ma in fondo penso non ti esorterò a imbarcarti in libri così drammatici, dato che anch’io quando emergo da questa lettura sento il bisogno di andare a guardare un filo d’erba, un ramo di pino, una spiga di grano, per calmarmi” scrive alla sorella il 2 di luglio 1889. E poi rileggerà Voltaire, Zadig o il destino, “è come il candido. Là almeno il potente autore fa intravedere che resta una possibilità che la vita abbia un senso”. Meno ottimista del Candido, Zadig ha a che fare con il fato, il destino avverso e l’assurdità delle cose.

Si sente “un fortunato” ad avere il tempo di farlo e spera tanto di leggere Omero, mentre “fuori le cicale cantano a più non posso”.

 

 

La campagna parigina, estate 1890

 

Nel maggio 1890 Van Gogh si trasferisce a Auvers-sur-Oise a trenta chilometri da Parigi. Negli ultimi due mesi di vita, prima del suicidio, non parla di libri nelle lettere, non ci sono nuove scoperte letterarie, concentra tutto se stesso nella pittura, dipingendo più di un quadro al giorno. Forse niente più gli interessa, se non dipingere la propria “solitudine estrema”.

 

 

Mariella Guzzoni, curatrice della mostra, è autrice di

Van Gogh: l’infinito specchio. Il problema dell’autoritratto e della firma in Vincent (Mimesis, 2014)

www.mariellaguzzoni.net

 

La mostra è fino al 25 febbraio 2015

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