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Tutti gli usi della parola a tutti / Rodari, Einaudi e i Lucumoni

22 Giugno 2020

Ha scritto Italo Calvino ricordando Gianni Rodari in occasione della sua morte (1980): “Poche esistenze furono illuminate da un umore più gaio e generoso e luminoso e costante della sua”. Temo che Rodari, di cui attendiamo a settembre il “Meridiano” curato amorevolmente da Daniela Marcheschi, non si sia mai potuto concedere il lusso di essere gaio, così come spesso i grandi umoristi soffrono di umori malinconici e depressivi (metto tra quelli che anche Gadda, che quando rileggo l’Adalgisa e o il Pasticciaccio mi strappa ancora delle risate; e lo stesso Primo Levi, che umorista era stato acutamente definitivo da Massimo Mila nel suo necrologio).

No, tutto quello che ha ottenuto Rodari se lo è sudato palmo a palmo, lavorando come un metalmeccanico alla catena di montaggio delle parole, lottando contro il grigiore burocratico del suo stesso partito, contro le distrazioni del suo editore, Einaudi, che negli anni ’60, al culmine del potere culturale che si era conquistato sul campo, aveva troppe cose cui badare, troppi grandi autori da seguire, e dedicava una qualche attenzione ai libri per ragazzi principalmente per la passione del suo leggendario redattore capo, il mite, onnipresente, paziente, competentissimo Daniele Ponchiroli, non a caso assai caro all’incontentabile Gianfranco Contini (è il dottor Cavedagna cui è dedicato Se una notte d’inverno un viaggiatore). Rodari assomiglia piuttosto al Bartali di Paolo Conte, alle sue fatiche di passista e scalatore, alla polvere che ha mangiato. Imbronciato mai, ma anche lui sempre in fuga solitaria su qualche colle pirenaico.

 

A Calvino aveva scritto il 4 agosto 1952, da Roma, quando già lavorava a “l’Unità”, come aveva fatto il suo destinatario: “…Da un anno circa vado raccogliendo e approntando idee – e mettendo insieme un po’ di materiale – per un saggio su Pinocchio. Commenti a Pinocchio se ne sono scritti di molti, e anche strampalati: nessuno, a mia conoscenza, che abbia studiato la genesi di Pinocchio nel suo autore e nella storia della nostra letteratura infantile con un minino di serietà storica e critica; nessuno che abbia visto il reale segreto di Pinocchio, la sua adesione così completa e viva ad una morale popolare ed ai suoi elementi (allora, nell’80) costitutivi: un laicismo che è buonsenso, e non anticlericalismo – un realismo etico così relativistico che ha scandalizzato i cattolici – un senso della giustizia così partigiano che non a torto qualcuno vi ha visto per scherzo (e non così andrebbe visto) un influsso delle idee socialiste che erano nell’aria.

“Queste solo alcune idee. Altre: sfatare la stupida leggenda dell’improvvisazione di Pinocchio per pagare i debiti; ritrovare in Pinocchio la vita così movimentata e risorgimentale di Carlo Collodi. E infine, last but not least, studiare il segreto formale di Pinocchio, la fusione perfetta di realtà e fantasia con occhio critico esercitato, diciamolo pure, dal marxismo – anche senza metterlo in causa, che sarebbe eccessivo.

“Pinocchio mi sembra un esempio perfetto di favola e un esempio perfetto di realismo: vedo in esso, personalmente, una strada della narrativa non solo infantile. È legittima? È ripetibile? Credo che la questione interessi anche te da vicino, Naturalmente non dovrei farmi trascinare dall’entusiasmo al ridicolo: basterà analizzare Pinocchio”.

 

Sembra, anche stilisticamente, una lettera scritta dallo stesso Calvino, il quale pare tuttavia non abbia risposto alla sommessa richiesta di sondare l’interesse di Einaudi. Senza saperlo, Rodari aveva scelto il momento peggiore per avanzare la sua proposta. Calvino aveva appena pubblicato nei “Gettoni” di Vittorini Il Visconte dimezzato. Non ne era del tutto convinto, aveva perfino pensato di pubblicarlo in rivista, per prudenza, come ballon d’essai. Proprio il 6 agosto Carlo Salinari lo aveva recensito su “l’Unità”. È un pezzo pieno di riserve. Calvino era sempre preoccupato dalle bordate dell’artiglieria dell’establishment, e in questo caso anche più del solito. Aveva tenuto nel cassetto due romanzi non riusciti (Bianco veliero e I giovani del Po), tentava una strada nuova, che aveva qualcosa a che vedere con la fusione di realtà e fantasia di cui parlava Rodari. 

 

Il 7 agosto Calvino scrive a Salinari una lunga lettera in cui cerca di spiegare le proprie intenzioni e all’inizio ammette che sì, d’accordo, si può anche parlare di “divagazione letteraria, pezzo di bravura, ammiccare agli intenditori, pochi lettori e tutti i limiti che ne derivano”. A lui che l’uomo sia un impasto di bene e male importa poco, è cosa vecchia e scontata. Piuttosto gli importava “il problema dell’uomo contemporaneo (dell’intellettuale, per esser più precisi), dimezzato, cioè incompleto, ‘alienato’”; e nemmeno tanto il visconte, quanto i personaggi di cornice, i lebbrosi, il dottore, gli ugonotti, rappresentanti di altrettanto tipologie. “L’antistoricità del libro, secondo me, non è nei suoi interessi, ma proprio nel suo carattere di gioco, che non vuole si cerchino allegorie, ma nello stesso tempo le suggerisce”. 

Per ammansire l’interlocutore, Calvino si dice stupito del successo del Visconte, che giudica “sproporzionato e in parte equivoco”, ma si stupisce anche della “faccia arcigna di alcuni compagni”. Racconti così potrebbe anche scriverne dieci o venti, ma è tutto preso dal desiderio di scrivere cose che crede più importanti: “Il mio ideale sarebbe di riuscire a scrivere in pari misura, e magari con pari facilità, cose ‘utili’ e cose ‘divertenti’. E possibilmente ‘utili’ e ‘divertenti’ insieme. Ti ho detto il mio programma di lavoro per i prossimi dieci anni, credo”. 

 

È un programma assai simile a quello che Rodari porta avanti negli stessi anni, tra incomprensioni, scetticismi, diffidenze, ma alla fine, alla svolta degli anni ’60, in conseguenza dell’approdo da Einaudi produce Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il libro degli errori. Nel 1950 gli avevano affidato la direzione di “Il Pioniere”, settimanale per ragazzi che se la doveva vedere con due corazzate, “Topolino” e il cattolicissimo “Vittorioso”. Al Partito non lo amavano mica tanto, mescolava cultura alta e cultura bassa, faceva dell’umorismo, non corrispondeva alla tipologia del funzionario allineato. Nel 1951 su “Rinascita” Nilde Jotti aveva collegato la delinquenza giovanile nientemeno che al dilagare dei fumetti, non a caso lanciati dall’editore americano Hearst, “imperialista cinico e fascista”.

E quando lui aveva auspicato “la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia” si era beccato un cartellino giallo da Togliatti: non bisogna “correre dietro alle forme più corruttrici dell’americanismo”, semmai si poteva guardare a una certa grafica popolare della rivoluzione cinese. Anni dopo il semi-eretico dirà che al “Pioniere” lo avevano “crudelmente snobbato e praticamente cacciato”, lui e le sue canzonette, trovandolo “poco divertente, poco progressivo, poco tutto”. 

 

 

Come che sia, l’idea di trasformare il meccano delle parole in strumenti di conoscenza attiva, in un manuale pratico di vita civile, gli era venuta addirittura leggendo Novalis nell’inverno del 1937-38: “Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare”. Pochi mesi dopo incontra i surrealisti francesi e crede di aver trovato come progettare una Fantastica. Comincia a insegnare alle elementari, ritenendosi pessimo ma non noioso. A lui premeva formare uomini liberi, faceva della vera pedagogia giocando con le parole di tutti i giorni, aprendo mondi capovolti, strappando sorrisi, divertendo.

Ha ben chiara l’idea che la fantasia, cioè una lettura del mondo da una diversa angolatura, deve per prima cosa essere una scienza, una tecnica. Racconta storie che sembrano non avere riferimento con la realtà e invece parlano proprio di quella, solo che ti insegnano a vederla per quella che è veramente. Scopre i trucchi per collegare parole e immagini. La rima, la filastrocca, l’associazione casuale, l’errore linguistico, l’assurdo, il paradosso, i ricalchi, i remake, l’insalata di favole e personaggi, l’uso del “come se”, sono tutte cose che avevamo sotto il naso, ma lui le ha trasformate in grimaldelli che aprono spazi di verità, di libertà. Non lanciava messaggi diretti, ma insegnava a smascherare le ipocrisie. Demistificava con il sorriso. Si divertiva a far deragliare i treni della banalità, del già visto, dei luoghi comuni, della pigrizia mentale. Basta un apostrofo per trasformare un lago in un ago, con tutto quello che ne consegue. Apriva la monodimensionalità della nostra immaginazione a un 3D in continuo movimento. Il suo motto: “Tutti gli usi della parola a tutti… Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. La sua poetica: essere utile a chi crede nella “necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola”. Bisognerà aspettare il 1973 perché il kit rodariano trovi posto nella Grammatica della fantasia.

 

Ce n’è voluto per capire quanta serietà, quanta civiltà si nascondesse nel divertimento dei suoi giochi, quasi sospetti in un paese serioso ma non serio. Se la critica non si occupava di lui, come non si era occupata di Pinocchio, la scuola se ne accorse presto, si infiammò. Con Bruno Munari, illustratore congeniale di suoi libri e con il maestro Mario Lodi, spalleggiato dal MCE, il Movimento di Cooperazione educativa, formava la triade di una sorta di rivoluzione copernicana. Generazioni di maestre lo adorarono.

Il suo funambolismo combinatorio è della stessa pasta di quello di Calvino, Primo Levi, Umberto Eco, di Queneau e di Perec e della banda dell’Oulipo, anche loro attentissimi alle infinite possibilità offerte dalla combinatorietà ben temperata e dai cortocircuiti verbali, da giochi, rebus, calembours, anagrammi. Rodari è un oulipiano di provincia, per nulla provinciale, spiegato al popolo, reso fruibile alle masse.

Di quella pattuglia di scienziati del gioco, quello che sotto questa veste si conosce meno è Levi, l’uomo che si circondava di dizionari etimologici, lo scrittore dal lessico tra i più estesi dell’intera letteratura italiana, l’inventore di rebus e palindromi complicatissimi, uno dei quali addirittura misto di inglese e italiano: “in art it ripose to life: è filo teso per siti strani”. Come nella sua vita professionale di chimico, difficoltà, costrizioni e gabbie scatenavano la sua creatività. In Lilìt il racconto Calore vorticoso ha per protagonista un personaggio che conia palindromi che alludono alle varie situazioni in cui vive: “Ad orbi, broda”, “Ettore evitava le madame lavative rotte”, “È mala sorte, ti carbonizzino braci, tetro salame”. Con tutte le questioni filosofiche che ne derivano: rovesciare il linguaggio è rovesciare il tempo? Questi serpenti che si mordono la coda sono parenti dell’Ouroburos caro agli alchimisti? In fondo, come ha osservato Stefano Bartezzaghi, anche il sistema periodico di Mendeleev e il libro di Levi che porta lo stesso titolo sono dei cruciverba scientifici. E tipicamente leviana è l’idea dell’importanza, della necessità dell’errore nello sviluppo di una ricerca che non può avere mai fine: le biforcazioni sbagliate dei sentieri imprevisti ti possono portare là dove nemmeno potevi immaginare di arrivare. 

 

Allo stesso modo certi apologhi di Rodari, come C’era due volte il barone Lamberto (1978) sono vicini a quelli che Calvino scrive negli anni ’60, come Il midollo del leone, La sfida al labirinto, La grande bonaccia delle Antille. L’apologo ti consente di leggere la realtà senza schemi prefissati, illuminando indirettamente il qui e ora con la longue dureée della storia e magari con i miti, operando continui rovesciamenti, ammiccando, alludendo, giocando di sponda: che è poi quello che deve fare la letteratura 

Stessa aria, stesso garbo illuminista, stesso sguardo sorridente che nasconde lo scetticismo, il disincanto, la pena di uno stoicismo che tiene botta anche se sa benissimo che non può vincere le sordità degli interlocutori, le grevi opacità della Storia. Ma quanta fatica a entrare nei programmi editoriali di Einaudi, a farsi versare anticipi e diritti maturati, a far capire ad amici e simpatizzanti che lui faceva ben altro che libri per bambini.

Per spiegare con un piccolo esempio i nervi scoperti che si portava dietro anche quando era già diventato Rodari, ho ricordato, in occasione di interviste per il centenario della nascita (23 ottobre), il siparietto di un incontro in casa editrice negli anni ’70, in cui vedendolo arrivare in via Biancamano gli avevo dato del Maestro, proprio con la “m” maiuscola. Gli è subito scattato un riflesso: ha pensato che lo volessi retrocedere al suo antico mestiere di maestro, ammesso che possa essere considerata una retrocessione. Maestro sarai tu e maestrini i tuoi bambini, ha replicato secco. Poi gli ho spiegato e ci siamo messi a ridere. Lui non tanto.

 

Nel 2005 Stefano Bartezzaghi ha pubblicato una plaquette fuori commercio, riservata agli amici della casa editrice, di Lettere a don Julio Einaudi, Hidalgo editorial e ad altri queridos amigos. Anche lì lo humour, le continue invenzioni, le trovate, le gags nascondono l’imbarazzo di dover chiedere. Recita la parte del tapino di fronte all’autorità: tratta i destinatari editoriali come bambini cui raccontare favole divertenti per disinnescarne l’aggressività o catturarne la benevolenza. Assume i panni di un Bertoldo che ha molto studiato e pensato, e gode della licenza carnevalesca di irridere il suo signore. Chiama l’editore sire, eccellenza, don, monsignore, Sua eminenza, cardinale, comandante, generalissimus, padrone, Toro Seduto. Se ha incontrato Giulio Bollati parla di un incontro di altissimo livello, perché Bollati è molto alto. Volge in parodia del linguaggio burocratico: “Apprendo con vivo dolore che mi siete debitori della somma di lire 1.706.388. Non ci si può distrarre un momento, o un paio d’anni, e subito vi mettete a far debiti”. In una delle lettere più esilaranti adotta lo stile di Totò: «Eccellenza, io trasecolo – anzi, se me lo permette, esorbito. Ella mi chiede, in caratteri dattilografici di stupefacente nitidezza e perfetta marginatura, notizie dei miei raccontini: i quali, viceversa, giacciono tuttora inevasi presso codesta Santa Sede, affidati alle cure di un Capitale sociale di L. 400.000.000 e di più telefoni, nonché alla lettura di Italo Giulio Bollati Calvino – persone di Sua e Mia totale fiducia, amici di diversa lunghezza, perfetto pendant di acuta bontà e acuta cattiveria, vanto di Torino tutta e della Liguria in parte, che il mar circonda e l'Alpe».

 

Nel dire a Einaudi la sua soddisfazione per la qualità grafica delle Filastrocche in cielo e in terra, dichiara la sua incondizionata devozione: “Se ha dei nemici, disponga di me”. 

Nel 1963 compera una “brutta casina, in blocchetti tufo”, ai margini di un bosco, a 45 km da Roma, vuole ristrutturarla, ha bisogno dei diritti che gli spettano, e magari un piccolo anticipo. Cose da poco anche per quei tempi, un milione e mezzo di lire. In una lettera del 28 agosto a Ponchiroli, intestata a “Gianni Rodari/piccolo proprietario/ coltivatore diretto”, c’è un post-scriptum: “Dí a Bollati che nello scavare le fondamenta per la mia casina di campagna i muratori hanno incontrato e sfasciato un muro etrusco: ho i Lucumoni in cantina! Porsenna mi regge la tazza del cesso. Che farete, adesso? Allibirete, finalmente?”

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