4 dicembre 1890 - 4 dicembre 2019 / Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano

4 Dicembre 2019

"Nella mia vita ho incontrato qualche grande capitano: sono uomini molto rari, di grande ascendente, rigorosi in primo luogo con se stessi, che comandano senza urlare, che sanno affrontare con la forza della ragione le situazioni più drammatiche e difficili, che non amano le «gesta eroiche», che conoscono il valore di ogni esistenza e che vivono la storia. Tra i veri 'capitani' Emilio Lussu è stato il più grande. Re pastore, nobile cacciatore, domatore di cavalli, uomo politico in prima linea nei momenti più importanti della storia d'Italia del '900, narratore semplice come un classico antico, ma per me capitano. E basta. Così, quando ancora oggi vado a camminare per i luoghi che ci racconta, è come fosse con me a ripetermi cose che non ha scritto" (Un anno sull’altipiano, Einaudi, 2000, introduzione di Mario Rigoni Stern). Così Mario Rigoni Stern ha ricordato Emilio Lussu, poche righe che racchiudono l’essenza di un uomo con una personalità e una storia davvero memorabili.

“Sono nato in un piccolo villaggio della montagna, e credo di aver conosciuto gli ultimi resti di una società patriarcale di cacciatori-pastori predoni, senza classi e senza Stato”. Così scrisse una volta Emilio Lussu, dando il segno del suo modo di vivere e di pensare (ibid.). 

Nato il 4 dicembre 1890 nel paesino sardo di Armungia, Lussu è stato un ufficiale pluridecorato della Brigata Sassari, composta quasi esclusivamente da sardi, durante la Grande Guerra, un antifascista più volte incarcerato dal regime negli anni successivi, un politico che insieme ai fratelli Rosselli fondò nel 1929 il movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà, uno scrittore noto soprattutto per Un anno sull’altipiano

 

Questo libro, noto per lo stile chiaro e per la verità dura e sostanziale dei fatti narrati, racconta un anno di guerra sull’altipiano dei 7 Comuni. Sono montagne aspre, prive di vette, povere d’acqua, dove in quei giorni è difficile sia attaccare sia difendersi: sono segnate da enormi buche create da proiettili di cannone, sono attraversate da trincee. L’odore di morte è costante e ovunque, a volte mischiato all’odore del cognac somministrato ai soldati per dissolverne la paura.

Lussu era stato un interventista prima del conflitto mondiale, era tra coloro che ritenevano la guerra contro Impero Austro-ungarico e l’Impero tedesco un’occasione per rendere il vecchio continente più libero e democratico. 

Si ricredette presto, di fronte ai fatti, alle stragi inutili, all’insipienza degli alti comandi, all’orrenda disumanità delle battaglie. Ma durante il conflitto Lussu ritenne comunque necessario continuare a combattere, per non consentire ad austriaci e tedeschi di sfondare le linee e invadere l’Italia. Questa convinzione è ben evidenziata nel capitolo XXV, dove lo scrittore affida le sue opinioni al comandante della 10 ͣ: “Che ne sarebbe della civiltà del mondo, se l’ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza resistenza?”. Non ci sono motivi per credere che dieci anni dopo si fosse discostato da questa convinzione. Tutta la sua biografia la conferma. 

 

Quando Emilio Lussu scrisse Un anno sull’Altipiano erano passati vent’anni da quegli avvenimenti. Si trovava in Svizzera, in un sanatorio a Clavadel, sopra Davos, forzato a una lunga pausa della sua attività politica di fuoriuscito in Francia da una difficile operazione ai polmoni e quindi a una lunga convalescenza.

Era stato l’amico Gaetano Salvemini a insistere perché raccontasse la sua esperienza di guerra. Entrambi antifascisti, erano da anni costretti all’esilio; Salvemini, saggista politico di spessore, non aveva una grande opinione dei testi politici di Lussu, come Teoria dell’insurrezione, che giudicava velleitari e un po' fumosi, apprezzava invece moltissimo la sua capacità di raccontare i fatti, così come il nitore e l’ironia che avevano caratterizzato libri come La catena e Marcia su Roma e dintorni. In entrambi, Lussu aveva raccontato la sua opposizione decisa alla nascita della dittatura di Mussolini, le aggressioni, l’assalto alla sua casa da parte di un folto gruppo di fascisti dopo un comizio che aveva tenuto in un paese: avevano usato anche una scala per entrare dalla finestra e lui aveva sparato al primo che si era affacciato, uccidendolo. Era stata legittima difesa, e gli sarà riconosciuto.

 

Ma gli costò comunque un anno di prigionia dura, con danni gravi alla salute, ai polmoni in particolare, e poi il confino a Lipari, e la rocambolesca evasione per mare, con Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, nel luglio del 1929. 

In guerra Lussu non aveva tenuto un diario, ma ricordava bene gli eventi, i drammi di cui era stato protagonista o spettatore. Scelse di raccontare solo un anno della sua vita militare, quello tra le montagne di Asiago, non la precedente esperienza sull’Isonzo né la successiva sull’altipiano della Bainsizza. Perché questa decisione? Perché ritenne quei dodici mesi racchiusi fra un inizio e una fine – l’arrivo in Altipiano nel giugno del 1916 e poi la ripartenza, un anno dopo – emblematici di cosa davvero avviene al fronte durante una guerra, un anno è una lunghezza infinita per chi è costretto a vivere dentro trincee fredde e fangose, nel continuo confronto con la morte e il dolore. A Salvemini, Lussu spiega: “posso dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno durata della guerra, che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti” (L’avvenire della Sardegna in Il cinghiale del diavolo, ed. Ilisso, 2004).

Tra quelle montagne belle e aspre, con scontri feroci che intersecano il passaggio dei colori delle stagioni, tra momenti di relativa quiete e massacri, a volte seguendo una logica militare a volte no, era successo di tutto. Lussu pensò che narrare gli eventi di quell’anno potesse far comprendere la guerra, la sua assurdità e la sua ferocia. I nomi dei luoghi e delle montagne sono reali, quelli degli ufficiali e dei soldati sono modificati, per necessaria cautela (lettera a Gaetano Salvemini dell’8 agosto 1935).

In una lettera del 18 agosto 1935 a Salvemini, Lussu gli preannuncia che si tratterà di “… un libro di ricordi personali e di guerra vissuta. Un documento umano”.

 

Monte Fior, Castelgomberto, Monte Spil, Monte Zebio, queste le montagne dell’altipiano dove Lussu ha vissuto e combattuto tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917. A percorrerle oggi si possono ammirare la dolcezza dei declivi, la particolare conformazione delle rocce, specie tra Monte Fior, Monte Spil e Castelgomberto, il panorama ampio e i silenzi: pare impossibile immaginare bombardamenti a colpi di cannone, mitragliatrici che falciano intere file di giovani soldati, assalti con bombe a mano e lame di coltello. Su Monte Zebio, a lato di un cartello che richiama il nome di Lussu, c’è la feritoia dove il generale Leone insiste a far affacciare un povero soldato che stramazzerà presto al suolo colpito da una pallottola (VII capitolo). Da Monte Fior si può davvero, in rare occasioni di cielo terso, vedere Venezia, come la videro i soldati austriaci quando occuparono la sua cima arrotondata, esultando festanti per una vittoria che pareva vicina (VI capitolo).

 

 

Nella sottostante Malga Lora ci sono i resti recuperati di un piccolo cimitero militare: lì, racconta Lussu, c’era allora il comando dei gruppi alpini, lì il colonnello Stringari, incupito e disperato, invita Lussu a riferire al suo comandante, una volta rientrato a Monte Spil, che “…qui dobbiamo morire tutti. Tutti dobbiamo morire. Il nostro dovere è questo” (IV capitolo). E il colonnello beve, beve molto, per darsi forza. In precedenza Lussu, a nord del paese di Stoccaredo, aveva incontrato un altro colonnello, Abbati, che aveva reagito con stupore quando lui si era dichiarato del tutto astemio: “Tirò dal taschino della giubba un taccuino e scrisse: «Conosciuto tenente astemio in liquori. 5 giugno 1916»”. Lussu lo rincontra ora su Monte Fior: “Io mi difendo bevendo. Altrimenti sarei già al manicomio. (…) Eppure se tutti, di comune accordo, lealmente, smettessimo di bere, forse la guerra finirebbe. (…) Abolisca l’artiglieria d’ambo le parti, la guerra continua. Ma provi ad abolire il vino e i liquori. Provi un po’”. Alla fine del libro è descritto l’esito di quella lenta discesa agli inferi: una follia senza più rimedio. 

 

I movimenti di truppe e le operazioni di guerra sono descritte in termini chiari ma essenziali, senza dettagli da diario militare: Lussu è consapevole di scrivere un libro di valore letterario, che deve essere compreso da lettori non necessariamente edotti su strategie e armamenti. Azioni a volte vittoriose altre no, ma con conseguenze sempre sanguinose, avvengono in mezzo a una natura montana tratteggiata con altrettanta essenzialità e abilità illustrativa. “Il giorno dopo continuammo l’inseguimento. Il battaglione d’avanguardia, superato Croce di Sant’Antonio, procedeva nel bosco, verso Casara Zebio e Monte Zebio. Man mano che esso avanzava, appariva sempre più probabile che il grosso del nemico si fosse fermato sulle alture. La resistenza era ridivenuta accanita. (…) Il 2° battaglione d’avanguardia ricevette l’ordine di fermarsi e trincerarsi. Durante la notte, il nostro battaglione gli diede il cambio. Quando noi arrivammo, una linea di trincea era già stata scavata, affrettatamente, sul limitare del bosco. Davanti a noi, v’erano ancora degli abeti, ma rari, come essi sono sempre quando le abetine accennano a finire nelle grandi altitudini. Il terreno continuava a essere coperto di cespugli. Più lontano, in alto, oltre qualche centinaio di metri, puntavano, tra le cime degli ultimi abeti, montagne rocciose. Probabilmente la grande resistenza ci sarebbe stata opposta i loro piedi” (IX capitolo).

 

Ma la guerra non è incompatibile solo con la vita degli uomini, lo è anche per la natura: l’altipiano uscirà dal conflitto mondiale con montagne del tutto devastate e interi boschi distrutti, con migliaia di alberi ridotti a tizzoni anneriti. “Tutto intorno, il sibilo delle falciate delle mitragliatrici, ininterrotto, faceva pensare a un uragano. Le cime degli alberi, segate dalle raffiche, precipitavano al suolo con stridori sinistri” (X capitolo). 

In Un anno sull’altipiano il ritmo della narrazione è incalzante, fasi concitate di combattimenti vengono sapientemente alternate ad altre più pacate, dove c’è tempo per la discussione, per l’ironia, e perfino per qualche sorriso. I dialoghi sono efficaci; a volte, come nell’alterato frasario del generale Leone rasentano la follia ma si tratta invece di una retorica del tutto realistica e credibile che era propria di molti alti ufficiali. Leone chiede a Lussu se ami la guerra, salendo di tono, di enfasi e di rabbia, quando si sente rispondere con argomentazioni razionali e ragionevoli. Alla fine Lussu se la cava dichiarandosi speranzoso in una pace ‘vittoriosa’ (VII capitolo).

Ancora più drammatico, perché di una disperazione quieta che non può lasciar spazio a sorrisi amari, il dialogo che precede l’ordine del colonnello Carriera al tenente Santini e a un suo soldato di uscire a tagliare il filo spinato disposto dagli austriaci a difesa delle loro trincee.

 

Una missione impossibile, sotto il tiro nemico, che Lussu cerca di impedire con argomenti di pura ragionevolezza, che restano inascoltati: il colonnello gli risponde con minacce, il capitano Bravini, pur consapevole della follia dell’ordine, tace, l’aiutante maggiore del colonnello procura con zelo le pinze. Santini e il soldato muoiono trafitti da decine di colpi appena giungono ai reticolati. Vale la pena evidenziare che Lussu, con una narrazione asciutta, senza commenti, non stigmatizza solo l’ottusità dell’alto ufficiale ma anche il silenzio e lo zelo servile dei due ufficiali di secondo livello. E i nomi d’invenzione che attribuisce ai protagonisti di quella piccola tragedia sono significativi. Piccola nell’ambito di un conflitto con milioni di morti, grande per chi deve assistervi, terribile per chi ne deve morire. 

 

Un anno sull’altipiano esce in Francia nel 1938, e ottiene subito un buon successo di critica; le recensioni sono favorevoli, non solo negli ambienti vicini a Giustizia e Libertà. Nella prefazione Lussu spiega con precisione e apparente semplicità il senso e il contenuto del suo libro: “Il lettore non troverà né il romanzo né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati a un anno., fra i quattro di guerra ai quali ho preso parte. Io non ho raccontato che ciò che ho visto e mi ha maggiormente colpito. Non alla fantasia ho fatto appello ma alla mia memoria; e i miei compagni d’arme, anche attraverso qualche nome trasformato, riconosceranno facilmente uomini e fatti”. 

 

In Italia, nel dopoguerra, sarà Einaudi a stampare e distribuire la prima edizione italiana, purtroppo non in una collana di narrativa ma in quella dei “Saggi”, poco visibile e anche di maggior costo. Un errore che penalizzerà anni dopo anche un altro grande libro di guerra, I lunghi fucili di Cristoforo Moscioni Negri. I commenti della critica sono comunque positivi, salvo in ambienti conservatori e tra alcuni dirigenti scolastici, che arriveranno a proibirne la lettura perché i riferimenti al bere e allo spregio per le vittime degli assalti appaiono a loro avviso denigratori per gli ufficiali. La grande diffusione arriverà più tardi, negli anni Sessanta, con la ripubblicazione tra i libri di narrativa dei “Coralli” einaudiani e nell’edizione scolastica. Riguardo quest’ultima, avrebbe dovuto essere pubblicata con una prefazione di Mario Rigoni Stern: tra loro c’era una grande stima reciproca, anche se appartenevano a due generazioni diverse, ma il testo di Rigoni, pur interessante e coinvolgente, non soddisfò pienamente le aspettative di Lussu e così il libro venne pubblicato senza prefazione. Lussu non volle mai tornare sull’altipiano dei 7 Comuni. A Rigoni Stern che amava Un anno sull’altipiano al punto da saperne alcune pagine a memoria, e che lo invitava a venire, rispose che non poteva, che camminare per quei monti sarebbe stato come calpestare il sangue dei suoi commilitoni. A tutti loro, lo capì solo anni dopo averlo scritto, aveva dedicato un libro redatto con uno stile del tutto originale nel panorama letterario italiano del Novecento, un testo vero e appassionato, che colpisce sia il cuore sia la mente.

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