Scrittrici italiane al cinema / “Daisy Miller”: una recensione immaginaria

18 Settembre 2018

Anna Banti, è lei stessa ad annotarlo, andava al cinema «alle tre, tre e mezzo, l’ora delle donne di servizio». È un’immagine inedita perché intesse alla postura rigida con cui sovente viene rammentata la scrittrice fiorentina un atteggiarsi meno severo, come un dimenticare di essere Lucia Lopresti in Longhi, colta studiosa d’arte e narratrice celebre con lo pseudonimo di Anna Banti, mentre si concede il gusto di immergersi nei film insieme a spettatori e spettatrici forse meno provveduti culturalmente ma pronti, come lei, a commuoversi, ridere, annoiarsi davanti alle star del grande schermo. Così, tra le righe della scrittura sul cinema di Banti s’intrecciano la frivolezza e il rigore, e la ricerca strenua di una saldezza ideologica si accosta al piacere venato di nostalgia di rivedere i volti delle stelle che, confidente, chiama per nome: Greta, Marlene, Jean...

 

È certo vero che nelle recensioni – che si dispiegano in un arco di quasi trent’anni, dal 1950 al 1977, prima, come timidamente, su «Paragone» e poi, con toni più professionali, su «L’Approdo» e «L’Approdo letterario», rivista che la Rai accompagna alla rubrica radiofonica omonima − Banti si muove con piglio intemerato che la porta a una certa fermezza ideologica nei giudizi. Ma sarebbe un errore limitare il suo pensiero sul cinema all’acrimonia di una certa caustica fiorentinità, forse gustosa ma trascurabile sul piano della critica, confinandone le pagine nella cura, preziosa ma in fin dei conti inutile, del bello scrivere. E in effetti, quell’immagine di lei che va al cinema nelle prime ore del pomeriggio, quasi di nascosto, come fosse una trasgressione dal piacere sottile e infantile, suggerisce anche un porsi meno impettito e più incline all’empatia. 

 

Se si ha la pazienza di leggere le molte pagine bantiane – raccolte nel volume Cinema. 1950−1977, curato da Maria Carla Papini e pubblicato dalla Fondazione Longhi nel 2008, da cui è tratto il testo che segue – si scorgono trame meno evidenti. Succede quando Banti, stanca del suo stesso lamentarsi della pochezza delle visioni squadernate sui grandi schermi italiani o francesi («tempi di magra, per chi crede nel cinema»), si azzarda a preferire la «fantasia» al «giudizio» e prova a immaginare una sceneggiatura per il racconto Daisy Miller di Henry James (1878). Sono due pagine percorse da un afflato che vorremmo dire femminista, non fosse che Banti detestava questa definizione. 

 

 

La Daisy Miller che la scrittrice evoca, «americana del 1874», riprende i tratti jamesiani di giovane donna inconsapevole della propria audacia. Nel testo, Daisy è una «pretty American flirt», «unsophisticated», miscuglio imperscrutabile di «audacity and innocence»; una giovane spregiudicata che non si rende conto di esserlo e che con il suo atteggiarsi leggero – cammina per le strade in compagnia dei suoi ammiratori senza chaperon, disdegna la prudenza ipocrita dei riti sociali, fino a intrattenersi a tarda notte, a Roma, in compagnia di un italiano di dubbia reputazione, e morendo poi di malaria – sfida le convenzioni che regolano il comportamento femminile e lo relegano alla riservatezza delle buone maniere che conducono a un’esistenza irreprensibile e prevedibile. Banti ricalca il ritratto di Daisy e vi sovrappone le figure femminili che in quegli anni andava tratteggiando. Così la protagonista del film allora solo fantasticato (Peter Bogdanovich porterà Daisy Miller sullo schermo nel 1974, con protagonista Cybill Shepherd; ma Banti non lo segnalerà) è «in anticipo sulle sue compatriote», «inconsapevole pioniera» alla ricerca di una libertà «formidabile» quanto lo sono la «selva dei pregiudizi» e «delle ipocrisie del suo tempo». Come molte delle «personagge» bantiane – uso consapevole il neologismo introdotto di recente dalla critica femminista, che segnala la ribellione, anche linguistica, alle gabbie di stereotipi che racchiudono il comportamento delle donne nei canoni del femminile – Daisy vuole sfilarsi dalle pagine numerate del copione. 

 

L’idea di cinema che fa capolino da queste pagine evoca un racconto che ritesse le fila della letteratura bantiana ricamando, sull’ordito del romanzo di James, la trama di figure femminili inedite, sospinte verso un’indipendenza che cozza contro un universo al maschile pronto a circondare di vergogna le donne desiderose di uscire da un oroscopo obbligato. «Cosa pretendeva Daisy Miller? Di passeggiare, di scherzare, di “flirtare” un poco, giovanilmente, senza che la gente la sospettasse di nequizia. E perché le fu impossibile, non le importò di morire»: piena di grazia frivola e al contempo consapevole di sé e dei suoi desideri, Daisy chiedeva solo di andare al cinema alle tre, tre e mezzo, insieme alle donne di servizio. (Chiara Tognolotti)

 

Cybill Shepherd nella versione cinematografica (1974) del racconto di James, diretta da Peter Bogdanovich.

 

Daisy Miller

 

Tempi di magra, per chi crede nel cinema: le nostre previsioni scoraggiate si verificano, purtroppo, appuntino e ogni serata male spesa ce le riconferma, togliendoci via via la speranza di quella lieta sorpresa (un film senza pubblicità che inaspettatamente prenda quota) sempre invocata dal nostro cuore. Dal cinema italiano, almeno per ora, siam quasi certi che non verrà. La tanto deplorata Romana non era neppure un cattivo film, era solo un film mediocre, e quanto a Senso di Visconti ci dicono stia subendo, in clinica chirurgica, le più crudeli amputazioni di questa età farisaica. Né sarà la Francia a far salire il barometro depresso, colle illusorie grazie di un Monsieur Ripois [Le amanti di Monsieur Ripois, 1953, di René Clément], invecchiato come Gérard Philipe o di un Air de Paris [Aria di Parigi, 1954, di Marcel Carné], affaticato, stanchissimo. Tace, o quasi, l'Inghilterra; dell'America non occorre parlare, quando non si affrontino i batticuore del film giallo e livido. His fretus, ci è venuto in mente che gli spettatori potrebbero, almeno per una volta, esercitare, in luogo di un giudizio, la propria fantasia. E valga un esempio.

 

Sono anni – che dico? – decenni che aspettiamo il regista W.Y. o il regista M.N. alle prove con un soggetto di nostra predilezione. Tanto lo aspettiamo che potremmo suggerirgli gli sceneggiatori, gli attori, i costumisti e tutto quanto. Ve la ricordate la storia di Daisy Miller, raccontata da Henry James? Nel nostro film, la figura indimenticabile di questa ragazza americana in anticipo sulle sue compatriote di almeno ottant'anni, agisce e pensa con una obbiettività che più visiva non potrebbe essere. Lei ha avuto vent'anni nel 1874 e non è colpa sua se si comporta come faranno le più savie delle sue nipoti nel 1954 e passa, quando si mantengano, per grazia di Dio e naturale inclinazione, limpide e innocenti.

Tale era miss Daisy, al tempo che incontrò a Vevey, davanti al lago Lemano, il giovane Winterbourne, suo conterraneo, ma educato a Ginevra. Gli abiti secondo impero e i gesti misurati non impediranno all'acuto regista d'impostare con finezza il personaggio della inconsapevole pioniera e del riflessivo intellettuale europeizzante, posto dinanzi a un problema femminile avanti lettera. Coincidenza portentosa, miss Daisy possiede una madre ipocondriaca, picchiatella, apparentemente svaporata (che ruolo per Billie Burke!) che le lascia fare ciò che vuole, costume già praticato in America, ma riprovato in Europa dalle americane medesime. L'ambiente è quello cosmopolita di un grande albergo svizzero, dovizioso di spunti di colore e di satira mondana, oltreché ottocenteschi, attualissimi.

 

Ed ecco, il vento di scandalo che, senza sconvolgerla, soffierà per tutto il film sulla figura della protagonista, si fa lieve brezza romantica durante la gita al castello di Chillon, insidiata da sguardi malevoli, ma di una così icastica innocenza che la stessa curiosità del giovane corteggiatore ne rimane come purificata. Nulla impedisce alla ragazza di dimostrare a Winterbourne la sua candida simpatia, come nulla la tratterrà dal dichiarargliela inalterata, quando, fra pochi mesi, lo incontrerà di nuovo, a Roma. Ma nel frattempo il vento dello scandalo è divenuto glaciale e tagliente, né valgono a mitigarlo il sole meridionale e la chiara e mite spensieratezza di miss Daisy. Adesso l'americanina se ne va in giro – orrore! – con un signor Giovannelli, il tipo, secondo le matrone cosmopolite, del cacciatore di dote senza scrupoli: e l'istintivo rispetto di mister Winterbourne comincia a tentennare.

 

E qui si dichiarerà la bravura del nostro regista. Una serie di scene spettacolari nel paesaggio più bello del mondo, fra monumenti illustri: e l'aperta seppure inconscia polemica di una fanciulla integra contro la formidabile selva dei pregiudizi, delle ipocrisie del suo tempo. Ecco l'impetuosa miss Walker che lancia la sua pariglia all'inseguimento di Daisy sul Pincio, nell'ora della passeggiata. Ma la fanciulla rifiuta questo salvataggio teatrale della sua reputazione e chi pensasse di scorgervi un aperto gesto di ribellione, potrebbe anche sbagliare, in realtà Daisy non ha voluto mortificare il povero Giovannelli che l'accompagnava a passeggio. Che altro le rimane da fare se i suoi connazionali ed eguali si accordano nel voltarle le spalle? Seguita dal suo cavaliere occasionale, in fondo più galantuomo e rispettoso dei tanti gentlemen cosmopoliti del suo mondo, essa continua la sua vita innocente, ma, ormai, oscuramente amareggiata.

 

Sempre più dubbioso, sempre meno amichevole, Winterbourne la incontra a San Pietro, al Castello dei Cesari, ma con lei non si trattiene. E tutto si conclude nel clima già delicatamente funereo della visita notturna al Colosseo, dove il giovane riceve l'ultimo colpo: Daisy, turista instancabile, scortata dall'assiduo romano, e con lui seduta, poco innanzi alla mezzanotte, nella solitaria arena. Chi può credere, ormai, alla sua innocenza? Certo non Winterbourne che, riconosciutala, s'allontana senza salutarla. «Ma è Winterbourne!» esclama la fanciulla; e, costretto ad avvicinarsi, egli ne profitta per adempiere il suo ultimo dovere verso di lei, freddamente umano e quasi impersonale. «Andate a casa subito, o prenderete la “febbre romana”» egli insiste, mentre ella vorrebbe spiegargli, nel suo candido entusiasmo, come sia felice di aver visto il Colosseo a lume di luna. Il signor Giovannelli è andato innanzi a cercare la carrozza, i due giovani camminano soli, com'erano a Chillon quando si conobbero. Ma Daisy si ferma e guarda il compagno: «Avete creduto, l'altro giorno, che fossi fidanzata?». A cui Winterbourne risponde: «Lo siate o no, per me è indifferente».

 

 

Lo spettatore capirà a questo punto che Daisy avrebbe amato Winterbourne come una ragazza d'oggi ama il suo compagno liberamente scelto. Così, senza segni d'amore e senza baci una storia d'amore si conclude, lugubremente. «Poco m'importa di prendere o no la febbre romana» afferma stancamente la fanciulla, montando in carrozza. E l'ha già addosso. 

Apprezzeremo il buon gusto del regista che non c'introdurrà nella camera dove Daisy Miller va incontro alla morte ma, seguendo Henry James, nel vestibolo dell'albergo romano affollato di servitori, di “corrieri”, di turisti indifferenti e anche di chi chiede notizie della bella americana (non mancano i lazzi) rientrata dopo mezzanotte in compagnia di un uomo. Vi compare, pregata da Winterbourne, la povera mrs. Miller, non così svaporata, dopo tutto, se assiste con tanta intelligenza la figliola. «Non so perché» essa dice «ma per tre volte mi ha ripetuto di dirvelo che mai si è fidanzata coll'italiano; e se vi ricordavate di Chillon...».

 

Non vi aspettavate che Winterbourne, americano, ma educato a Ginevra, corra al letto della fanciulla morente. Lo rivediamo invece al cimitero protestante, tra una folla più numerosa e più dolente di quanto ci si potesse aspettare. In prima fila, il signor Giovannelli che, sul fresco tumulo, ha qualche cosa da dire. «Era», confessa, «la più bella creatura che abbia mai vista e la più gentile. E anche», qui abbassa la voce, «la più innocente».

Così si chiude il film, e non sappiamo se Winterbourne abbia inteso il messaggio di Daisy Miller: non un semplice messaggio d'amore, ma soprattutto dell'ansiosa fiducia che una donna – una americana del 1874 – chiedeva all'uomo che stava per amare. Cosa pretendeva Daisy Miller? Di passeggiare, di scherzare, di “flirtare” un poco, giovanilmente, senza che la gente la sospettasse di nequizia. E perché le fu impossibile, non le importò di morire. Ecco un film con tutte le grazie della frivolezza e tutto il peso morale di un documento d'oggi.

E farà bene il regista W.Y. a darci un antefatto del dramma che James non poteva immaginare: una moderna discendente dei Miller, in tutto simile alla lontana Daisy, che racconta al suo ragazzo, sulla fede di vecchie carte e fotografie, questa storia di amore e di dignità senza fortuna. Crediamo che anche l'America, dopo tutto, abbia bisogno di questi ricordi.

 

(Pubblicato originariamente su «L'Approdo», III, 4, ottobre-dicembre 1954; poi raccolto, con il titolo redazionale qui riportato, in A. Banti, Cinema. 1950−1977, a cura Maria Carla Papini, Fondazione Longhi, Firenze, 2008, pp. 41-44. Per gentile concessione della Fondazione Longhi).

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