INDICATIVO PRESENTE 2 / 9. Scuola. Fine di un anno non finito

11 Luglio 2020

Nella seconda metà di luglio Milo Manara ha cominciato a disegnare acquerelli dedicati ai “lockdown heroes”: tutte donne; tutte recano la mascherina; la maggior parte di quelle donne sono anche madri dei milioni di studenti minorenni che conta la scuola italiana. Sono loro che hanno fatto da partner alla didattica digitale e hanno dovuto rinunciare al lavoro per imparare competenze digitali in tempi frenetici e stressanti. Un giorno Manara ha pubblicato la prima donna senza mascherina: non ce l’ha perché è in casa, sola; la ritrae di tre quarti, non vediamo quasi il suo volto; davanti a lei, sullo schermo del suo personal computer, la griglia dei suoi allievi, maschi e femmine; l’eroina del lockdown quel giorno è stata la prof, quasi triste, china sulla sua “mission”. Una immagine che trovo potente e esemplare di quei tre mesi in cui tutti avevamo paura del Sars-Cov-2 e tutti speravamo di sconfiggerlo con l’arroccare nei nostri appartamentini.


Tutto è ricominciato, o quasi tutto: in particolare quello che significa spendere e guadagnare. La fine della stagione scolastica corporea è arrivata senza avviso dopo una vacanza; non ci siamo salutati, non ci siamo più visti. La scuola italiana, vergognosamente, non ha riaperto. E quando è finita la didattica digitale, la DD di vicinanza empatica a studenti e padri e madri e fratellini e sorelline, i ragazzi hanno cercato di rivedere noi prof. Hanno proposto la pizzata di fine anno. Ma la maggior parte dei miei colleghi prof aveva paura, così io ho proposto la gelatata di fine anno; avremmo simulato di incontrarci per caso, tutti con mascherina, loro accompagnati da un genitore, in coda davanti alla gelateria di quartiere. Ho invitato tutti: prof, studenti, genitori della mia prima e della mia terza. Così si sono rivisti quindici di prima e sei di terza; ho rivisto una decina di genitori; le mamme alla fine mi hanno ringraziato tanto per essere rimasto vicino alle loro figlie e ai loro figli giorno dopo giorno: «Aspettavano tutto il giorno l’ora delle videolezioni con Lei! È stato con loro!»; ero l’unico di venti professori che al gelato erano venuti. Ma le mamme erano contente, nel sole di Barriera di Milano, a fine giugno. Si toglievano continuamente le mascherine, i miei di prima: e io ricordavo di rimetterle su; le ragazze facevano selfie a ripetizione, felicissime, e i ragazzini, tontoloni, avvicinavano i loro smartphone per condividere segmenti di videogioco; alla fine ho fatto loro la foto di fine anno che non avevamo fatto: la prima in maschera!

 

 

Tra le decine di webinar che ho seguito in lockdown ce n’era uno di quattro ore su TikTok: se tutti stanno lì sopra tutto il giorno, è ovvio che dobbiamo portare l’apprendimento anche su TikTok; sino a quella mattina mi faceva orrore, ma ho capito che se lo colleghiamo all’apprendimento, alla didattica digitale, possiamo tirare fuori da loro il talento espressivo, musicale, ballerino, teatrale, ad esempio adattando la metodologia del role play, stimolandoli non al solito labial sync su canzoni blockbuster pop scelte dai programmatori cinesi, dirottando un po’ le dodicenni dagli sculettamenti per i pedofili sotto mentiti account. Per trovare un modo di fare apprendimento con TikTok ho bisogno di rivederli, di conoscere i nuovi di prima, di rifondare la relazione uno a uno che nei mesi della pandemia lentamente si è affievolita, ma ha potuto resistere perché una radice di relazione c’era, e si è soltanto fatta più diafana, più intuita, e malinconica. Di questa distanza a volte triste racconta il maestro elementare di Reggio Emilia Giuseppe Caliceti nel libro che esce in questi giorni pubblicato da Manni: La scuola senza andare a scuola: diario di un maestro a distanza: «Io ho un ritorno ottimo dalle famiglie – ha detto Caliceti a Loredana Lipperini a Fahrenheit su Radio3 –. Ma vogliono che a settembre si torni in classe. Va bene l’emergenza, ma alcuni (tra cui la Ministra) fanno indignare insegnanti e famiglie se dicono “Covid-19 ha dato improvvisamente alla scuola italiana la possibilità di fare un salto in avanti tecnologico”. Questo vuol dire non aver capito bene la situazione. Noi e le famiglie abbiamo fatto tutto in emergenza. Ora però bisogna tornare a far le cose per bene, perché questa crisi ha messo in luce tutti gli errori. Per esempio, ora ci dicono “no classi pollaio”: ma quando io iniziai a insegnare avevo 14 alunni, ora ne ho 26! La pandemia ci esorta a tornare indietro. Non son stati fatti concorsi per anni. Covid-19 ci dice 2 “avete gli insegnanti più vecchi d’Europa!”».

Nelle ultime settimane il protrarsi delle decisioni sul rientro a scuola ha esasperato posizioni che a me paiono neoluddiste, fondamentaliste (“avete consegnato la scuola a Google”!), anche sragionate o opportuniste (essere di sinistra vuol dire avercela con il digitale? Chi protesta ora demonizzando la “didattica a distanza” non usa forse ogni istante della sua giornata i sistemi operativi Android, Windows, iOS, il motore di ricerca Google? Facebook/Instagram/WhatsApp tutti di un solo uomo, Zuckerberg?). #iononhopauraditiktok potrebbe essere l’ashtag di settembre di chi con la didattica digitale ha sempre lavorato, mai per sostituirla ai corpi socratici dell’apprendimento, ma per fare abitare attivamente, creativamente (anche con coding e robotica) ai ragazzini il digitale che comunque abitano da dieci anni come utenti passivi e incompetenti. Dobbiamo portare l’apprendimento dentro i loro dispositivi e dentro le loro app, non espellere i loro dispositivi e le loro app come se rotolarsi nel fango e giocare fossero le sole metodologie per ricostruire tanti nuovi Émile vaccinati per sempre al capitalismo consumistico che noi tutti abbiamo annidato nelle nostre insoddisfazioni pulsionali.

 

 

Quando ho detto che ora sapevo anch’io usare TikTok, mentre salivo in macchina dopo il gelato avevo già mezza classe che mi followava, nei minuti in cui erano rimaste senza l’unico prof hanno fatto davanti alla gelateria decine di balletti… secondo me, ho fatto scuola anche lì; vedendoli fuori dalle mura, fuori dal calendario scolastico, e fuori dagli esami. C’ero solo io, ma pazienza, non ho fatto ancora finire una stagione che è finita già due volte e che non finirà neanche a settembre, quando l’impatto del rientro nei nostri baracconi carcerari porterà a vivere situazioni surreali e ancor più carcerarie, se non tireremo fuori unghie e denti, prof e ragazzi.

 

Roberto Maragliano da più di dieci anni ci spiega come il digitale non sia una tecnica capitalista che cancella la socratica dell’insegnamento: qui su doppiozero (https://www.doppiozero.com/materiali/scuola-post-shock) ha scritto qualche giorno fa un pezzo lucido e ancora una volta avanzato che non si fa ingabbiare in ordinanze, e decreti, e circolari, e timori, e vocazioni a sedazione e controllo; grandi idee come sempre le sue: niente sarà più come prima perché la scuola chiusa ha reso tutto trasparente, dislocato; è ora di accettare di essere anfibi (testi + interazioni creative), connettendosi a tutti i saperi del mondo. È ora, anche, dico io, di arieggiare le stanze prima di soggiornarvi, fare soffiare un vento di energia, di fiducia, di divertimento che spazzi le croniche lagne dei miei colleghi prof, le comprensibili ma insensate proteste delle madri che scambiano spero per sbaglio la didattica digitale per alienazione dei loro piccini. Chiaro, la distanza ci ha tolto affettività corporale, ma ha aumentato esponenzialmente la compassione psichica, la confidenza tra i prof disponibili e ragazzini, tra prof e genitori! I ragazzi hanno capito che il problema non sono i prof, ma un impianto burocratico e segregante che dovremmo far saltare in aria il più possibile in questo momento di confusione ministeriale e dirigenziale.

Molti studenti alla maturità hanno performato alla grande, anche se sono arrivati a un’ora in presenza dopo tre mesi di videolezioni martellanti: liberati dal vecchiume delle aule dei licei sono andati a costruirsi da soli collegamenti, deduzioni di causa-e-effetto, e collegando Arte a Italiano, Storia a Inglese, Filosofia e Scienze hanno aumentato le loro competenze di cittadinanza, e di saper apprendere. Preparando l’esame di terza media ho visto allievi spariti nei primi mesi di lockdown tornare grazie ai dispositivi dati in comodato d’uso dalle loro scuole (e ai soldi stanziati dal Governo), ricollegarsi, venire alle simulazioni della prestazione orale, ascoltare ed eseguire i suggerimenti su come disporsi, come illuminarsi, come inquadrarsi, come parlare, come guardare l’obbiettivo, come non inchiodarsi, come essere entusiasti del loro elaborato. Una classe in presenza tumultuosa e spesso violenta ci ha parlato degli amati paesi di origine (Marocco, Egitto, Burkina Faso, Senegal, Moldavia), di calcio, adolescenza, razzismo, nazismo, conflitto arabo-palestinese, Rivoluzione Francese (Andrea Chénier poeta ghigliottinato e personaggio dell’opera di Giordano), Zahir ha parlato con orgoglio di cittadino europeo dell’Unione Europea, accusando l’UE di incertezza e pavidità nell’affrontare in ordine sparso la pandemia, la pigra e bella Samantha ha messo in relazione con Grosz e i sistemi di potere l’Opera da tre soldi che stavo portando in scena a fine anno e di cui lei era brillante interprete della falsa oca Polly, ribelle all’ipocrisia truffaldina di mamma e babbo Peachum. Aziza ha portato il suo riscatto al culmine, e chattando settimane con tutti i prof ha scelto donne coraggiose che sono diventate il suo modello per il liceo scientifico che andrà a fare in uno degli istituti prestigiosi di Torino, lei figlia di genitori cui lei fa ancora da interprete in italiano: Chimamanda Ngozi Achidie, Gracia Nasi, le donne curde di Jinwar (Siria), aerogrammi dei femminicidi nel mondo, Marie Curie, Rosa Parks, Simone de Beauvoir, Lise Meitner, Frida Kahlo, Clara Wieck, Billie Jean King, Nilde Jotti. Questa sarebbe la didattica digitale che ha asservito i nostri studenti alle multinazionali del capitalismo? Eh no! Questa è la gioia di vedere una ragazza di origine marocchine prendere in mano una visione del mondo, e ragionarla, grazie al lavoro educativo! Questo è vedere sgorgare pensiero indipendente, colto: «Questa è sul serio la mia mappa, un percorso cui mi sono dedicata e il quale avrà sempre una cartella nel mio Drive, nonostante io ami concludere i capitoli e non mi piacciano i lieti fini, io preferisco le fini tragiche, le storie che finiscono anche se non sono mai iniziate, mi piacciono le storie di donne forti, non coraggiose ma forti, anche quelle spiaggiate sul loro divano a mangiare schifezze e che se ne fregano delle convinzioni sociali, quelle che si guardano allo specchio e dicono di farsi schifo ma poi sorridono, quelle che stanno zitte ma poi quando parlano ti fanno stare zitto, anche le donne che parlano quando non vorrebbero, le donne che esternando in tutti i modi e non solo mi piacciono pure quelle che ascoltano, che ti danno spazio e tempo non affetto solamente tempo e spazio».

Ieri mattina in una videoconferenza con “alcuni eroici colleghi” stavamo organizzando un bel programma STEaM per settembre: Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Arte, Matematica, ma anche fisica, storia, fantascienza nei musei della città. Uno dei colleghi (maschio, sardonico, veterano dell’inclusione sociale) ha detto: «No, vi prego, non mi mettete in nessun comitato, per favore, non voglio passare ore e ore a elaborare documenti che poi l’ennesima ordinanza ministeriale raderà al suolo… ma se c’è bisogno di spostare armadi, banchi, pulire, io ci sono; mi porto una mazza, e tiriamo giù anche un po’ di muri». Ci sono molti muri da tirare giù, questa estate e nel prossimo autunno: in presenza e in digitale con i dirigenti scolastici o contro i dirigenti scolastici; fare avanguardia educativa significa fare spazio, allargare aule, aprire finestre sulla realtà, spietata sì, eppure mutabile da menti allenate a connettere, svelare, denunciare ciò che non è giusto. Il virus da diffondere è sempre quello, la cultura, e crescere menti intelligenti, come aveva capito Gramsci, rimane il contagio più virtuoso.

 

 


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