Speciale

La nostalgia dei freelancer

16 Marzo 2015

Una volta li chiamavano “cani sciolti”, “battitori liberi”, “spiriti liberi”, di loro si diceva che non possono stare sotto padrone, che non possono scegliere un gruppo di appartenenza. In inglese – quando l’inglese era una lingua, e non una terminologia da interpolare all’italiano – sarebbero freelance workers, ove freelance è aggettivo, o, in sostantivo, freelancers, lancieri liberi. Il termine risale al romanzo Ivanhoe di Walter Scott. Significa soldato mercenario, letteralmente “libera lancia”, al servizio di chi la paga, indipendente da ogni servitù permanente. In epoca antica cavaliere, da quando prevale l’arma da fuoco, lanzichenecco, al servizio del territorio (Land), cavaliere (Knecht) senza cavallo, fante al soldo, servo. Johannes Hofer (1669–1752) diagnosticò il male di questi fanti svizzeri: nostalgia, dolore del ritorno, dal termine omerico nóstos (ritorno a casa) e álgos (dolore).

 

Oggi l’uso del termine “freelance” serve a evitare di dire “precario”. La vicenda è legata al progetto ideologico inventato da Tony Blair – alunno diligente di Margaret Thatcher – che ruota intorno alla parola employability (occupabilità?). I filosofi analitici illustrano come le parole che finiscono in abile, ibile, ebile, ecc., siano “termini disposizionali”; possiedano cioè caratteristiche che, solo in circostanze determinate, si manifestano. Un fiammifero è infiammabile, se sfregato contro una superficie ruvida s’infiamma; un detersivo è solubile, se versato in acqua si scioglie; una persona occupabile, se incontra un lavoro, lavora. Si tratta di rendersi occupabile.

 

 

Il progetto di Blair capovolge domanda e offerta: un tempo, le aziende si rivolgevano alle agenzie di collocamento e chiedevano d’impiegare persone per competenze definite dall’azienda; le persone si rivolgevano all’agenzia di collocamento e documentavano la loro competenza. Ora le persone “freelance” si rendono idonee a offrire il loro lavoro raccogliendo punti presso master, ecm, specializzazioni, “alte” scuole, corsi di riqualifica professionale, congressi e conferenze. Però non si capisce bene da dove venga la domanda. Un po’ come i commessi viaggiatori, i “freelance” devono convincere l’azienda a comprare le loro prestazioni, documentate da “nuove” competenze, mai viste prima. Se l’azienda si convince, bingo. Un tempo si era “liberi di vendere la propria forza lavoro o di morie di fame”, ora si è liberi imprenditori della propria forza lavoro e si muore di fame, oppure si riesce a convincere il “datore di lavoro” che lui, anche se non lo sa, ha proprio bisogno di voi. Ecco perché sono tornati in auge i corsi d’ipnosi!

 

Leggiamo, a mo’ d’esempio, questo testo del web:

La svolta epocale del web ha cambiato anche il modo di lavorare e di produrre. Oggi ci vogliono più flessibilità, più mobilità, più libertà. Ci vogliono le condizioni per creare senza limiti, aprire nuove prospettive, lanciare nuove idee. Al tempo stesso sono necessarie una sempre più solida formazione e specializzazioni sempre più precise. In questo contesto si muovono e aumentano sempre di più gli esperti e i professionisti del lavoro freelance.

 

Naturale che uno psicoanalista – che da trent’anni fa lo stesso lavoro e sa quanto sia ancora lunga la strada da percorrere per diventare ciò che si è – sia destato dal sospetto che concerne le parole. Il mezzo parla di sé, è spudorato. Come il narcisista, il mezzo – il web che parla di sé come “svolta epocale” – tradisce vanagloria: il “freelance” è un “esperto che conosce perfetta-mente la materia”, “assumerlo temporanea-mente significa evitare i costi tipici dell'impiego”, il “freelance” può “dedicarsi libera-mente a diversi clienti”. L’Io, diceva Freud, è come il clown Augusto, si presenta come il direttore del circo, tuttavia ne è servo. Gratta il “freelance” esce il precario.

 

Edward Hopper, Nighthowks, 1942

 

Chiunque sia questo “freelance” la sua condizione somiglia a quella dei suoi antenati etimologici: i soldati di ventura. In preda alla ventura, privo di radici, isolato in un mondo che non conosce, anche se sa bene il mestiere – nel caso del soldato, per esempio, quello delle armi – è destinato alla nostalgia.

 

Il giovane ingegnere freelance, laureato con 100 e lode al Politecnico di Milano, va al MIT per fare un dottorato, rientra, lavora come freelance, per un periodo a un progetto importante, produce tecnologie di alta qualità. I meriti li prende il capo, un “insulso farabutto”. Poi la compagnia va in crisi. Il progetto, pensato per uno scopo che viene meno con la crisi, i fondi richiesti non ci sono più, l’insulso farabutto si è intascato tutto. L’ingegnere si sgancia, è un freelancer, cerca altre aziende. S’istruisce il processo nei confronti della compagnia del farabutto, alla fine l’ingegnere riceve i rimborsi dovuti, si tratta di cifre importanti. Finito tutto per il meglio.

 

Invero l’ingegnere freelance comincia a soffrire di nostalgia. Rivive la stessa condizione vissuta durante gli ultimi mesi presso la compagnia precedente. Ricorda che là, negli ultimi tempi, il farabutto, che vantava e prendeva i meriti del suo lavoro, gli camminava nervosamente alle spalle mentre lavorava. Se qualcuno gli cammina alle spalle mentre lavora, anche adesso, sente lo stesso disagio, ha la sensazione che voglia controllarlo, perseguitarlo. Sembra il pazzo della Morte in banca di Pontiggia.

 

Un matematico, da giovane, abbandona il dottorato perché un coetaneo, che oggi insegna a Princeton, gli è superiore – “aveva una marcia in più” – e lui non può reggere. Va a lavorare, come matematico, in banca. Sviluppa programmi importanti, è ben pagato ma senza previdenza. Gli anni passano, le competenze diventano meno rilevanti, poi obsolete. Anno dopo anno la banca gli rinnova il contratto, ma non si tratta più di competenza matematica, bensì di funzioni di controllo delle attività altrui. Col tempo il matematico comincia a bere, finisce due bottiglie ogni sera, è sempre più stanco, come nella canzone di Gualtiero Bertelli sul Mulino Stucky.

 

La vita del freelancer ricorda il commesso viaggiatore di Arthur Miller, che, nella scena finale dell’opera, fa dire al cognato:

… se fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone, legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E, quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere.

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