Mengaldo: la poesia e i conflitti della critica
Mi si perdoni, fin da subito, questa breve scorciatoia (auto)biografica; ma la distanza storica e culturale che mi separa dall’antologia Poeti italiani del Novecento – e che separa il 1978 dal 2025, con i lettori che oggi vi si accostano per la prima volta – mi pare utile per introdurre alcune delle molte questioni che intendo discutere qui, limitandomi però a una scelta per ragioni di spazio.
La prima volta che sentii parlare di Pier Vincenzo Mengaldo fu in occasione di un convegno su Eugenio Montale e l’opera lirica all’Università degli Studi di Genova; dell’anno, però, non saprei dire nulla con certezza. Ero sicuramente uno studente triennale (2008-2010) e, in quanto tale, del tutto sprovvisto degli strumenti umani per capire davvero qualcosa di quelle relazioni che, con una certa (in)coscienza, ero andato ad ascoltare: un po’ per genuina curiosità verso Montale, un po’ per la seduzione intellettuale che eventi del genere esercitavano sul corpo studentesco genovese – seduzione che, di solito, si esauriva quasi subito, impietrita davanti e dietro dati, nozioni e letture che allora, come oggi, mi risultavano tra l’oscuro e l’iperspecialistico.
Di quella giornata però ricordo nitidamente che, tra una pausa caffè e l’altra, un giovane dottorando dell’epoca, per farmi capire chi fosse Mengaldo ed evitarmi ulteriori imbarazzi tra i suoi colleghi, mi parlò con eccessivo zelo e con una forma non del tutto chiara di reverenza nei confronti della celebre antologia Poeti italiani del Novecento (1978, 1981), nonché del giudizio piuttosto drastico di un allora giovane critico letterario (nato a Milano nel 1936) verso uno scrittore che neanche trent’anni prima si era tolto la vita in una camera d’albergo a Torino, due mesi dopo aver vinto il Premio Strega: “[per Cesare Pavese], i risultati [di Lavorare stanca, 1936, 1943] vanno commisurati all’assunto culturale, ben arduo per i tempi, e i limiti ideologici e artistici sono quelli di tutto Pavese, né più né meno. Uguale comprensione non è possibile avere per le liriche di Verrà la morte [1951], droga di intere generazioni di liceali (…), che riflette semplicemente l’illusione pavesiana che le brucianti esperienze amorose da cui nascono i testi avessero una dignità letteraria in se stesse, al di qua dell’elaborazione intellettuale e formale: che è un ulteriore episodio dell’eccessiva e infantile fiducia di Pavese nel valore esemplare della propria biografia” (658).
Erano altri anni (non so se migliori o peggiori) il 1978, il 1981 e, in fondo, lo era anche il biennio 2008-2010.
Oggi, tra politicamente corretto, wokeness, la sempre più desiderata categoria di vittima, e con una rete globale che trasforma anche le operazioni editoriali più periferiche e meno decisive in oggetto di commento, affondi militanti di questa portata risulterebbero difficilmente praticabili, soprattutto contro scrittori (poeti) recentemente scomparsi, tanto più se vittime di suicidio. Anche perché – com’è consuetudine – più che i morti, che al massimo possono esprimersi in poesia (cosa che fanno, tra l’altro, in molti dei testi antologizzati da Mengaldo), a mostrarsi (più) sensibili sono i vivi; sono loro, infatti, che, come ogni Cesare Pavese all’indomani delle proprie pubblicazioni (basti ricordare, in negativo, i Dialoghi con Leucò e il silenzio critico che accolse il libro nel 1947), leggono con grande attenzione (ansia, precipitazione) le parole rivolte contro di loro in certe (forse tutte) sedi critiche. Umano troppo umano, ripeterebbe, a vuoto, oggi, Nietzsche.
Non è di questo avviso, (s)fortunatamente, Mondadori: quest’anno l’editore milanese ha deciso di ristampare nella collana “Lo Specchio” l’antologia di Mengaldo, senza apportare – immagino in accordo con il suo curatore – alcun tipo di adattamento o aggiornamento, o di correzione ideologica (stilistica, politica, culturale): “l’impianto critico, la scelta dei testi e le schede biobibliografiche sono da ricondurre all’epoca della prima edizione”. Unica novità, come si legge nella Nota al libro, riguarda “i poeti che all’epoca della pubblicazione del volume erano vivi”; per chi è passato, nel frattempo, a miglior vita, sono state aggiunte “le date di nascita e morte tra parentesi quadre all’inizio della scheda bibliografica”. Ulteriori ragguardi editoriali si possono leggere anche nell’Avvertenza: “Per l’essenziale (introduzione, schede ai singoli autori e loro testi) la presente edizione economica riproduce la 2a edizione (1981) dei Poeti italiani del Novecento nella collana ‘I Meridiani’, a sua volta identica alla prima (ivi 1978) a parte la correzione di alcuni errori locali, di stampa o del compilatore. Inoltre fornisco, qui di séguito, veloci notizie integrative sulla biografia e la bibliografia dei poeti antologizzati, nell’ordine in cui essi si succedono nell’antologia: mi limito ai soli volumi di poesia, ivi compresi quelli (a mia conoscenza) di prossima pubblicazione”.
Ma qui, più che difendere Cesare Pavese o la woke culture – cosa che peraltro non mi interessa fare, né qui né altrove –, vorrei riflettere su questa operazione editoriale e, lato sensu, sugli effetti antologici che libri di questo tipo producono nel nostro immaginario (di lettori e di critici): cosa vuol dire, allora, ristampare oggi un’edizione del 1978 – senza cambiare nemmeno le virgole –, che studenti e lettori di poesia potevano comunque reperire, con un po’ di fortuna e qualche spesa in più, nei Meridiani Mondadori o tra le bancarelle dell’usato, nel formato degli Oscar Moderni?
Rispetto al Meridiano, questo Specchio è certamente più economico ma anche più ingombrante, e non solo per la mole (il formato) del volume.
A questo proposito, per liberarlo (o almeno per alleggerirlo) da tale veste, conviene partire subito dal titolo e dai suoi, più che ovvi, dettagli, che furono infatti tra gli aspetti più discussi – insieme alla selezione dei testi e dei poeti – dai recensori di Mengaldo, in particolare da Romano Luperini sulle pagine della ormai defunta “Belfagor” all’inizio del 1979, cui seguì una replica dello stesso Mengaldo sulla stessa rivista a pochi mesi di distanza: poeti italiani, e non poesia italiana, del Novecento; e, su questa falsa riga, ritratti del Novecento, e non la sua totalità.
Si pensi, per contrasto paratestuale, ad alcuni titoli alternativi che precedono l’operazione di Mengaldo: quello di un filologo (Gianfranco Contini) in Letteratura dell’Italia unita (1968); e quello di un poeta (Edoardo Sanguineti) in Poesia italiana del Novecento (1969). O andando un po’ più indietro nel tempo, si pensi all’antologia del filosofo Luciano Anceschi, Lirici nuovi (1943). Oppure, rimanendo nel nostro ampio presente, alle antologie di Laura Pugno (poeta) e Tommaso di Dio (poeta): Mappa immaginaria della poesia italiana contemporanea (2021) e Poesie dell’Italia contemporanea (2023), entrambe uscite per il Saggiatore.

In questo contesto, varrebbe forse la pena rievocare lo scontro tra le sinistre culturali di quegli anni: Sanguineti, Giuliani, Luperini e Mengaldo si scambiavano parole al vetriolo, discutendo di politica e letteratura, di ideologie e forme — altri tempi, non so se migliori o peggiori, specie se confrontati con le recensioni che oggi si leggono in rete (o in rivista) e con le polemiche che un libro riesce a suscitare nel suo ristrettissimo gruppo di lettori. All’estremo opposto di questo quadrante maschile ed eteronormativo, si pensi invece al relativo disinteresse che circondò l’antologia tutta al femminile curata da Biancamaria Frabotta, Donne in poesia (1976), oggi pressoché introvabile. Entrambi gli esiti – i plausi e le botte, da un lato; il silenzio, dall’altro – sono difficilmente pensabili nel nostro mondo postmoderno; e forse, è giusto così.
Ad ogni modo, l’antologia, ieri come oggi, rispecchia l’impianto metodologico del suo autore – storico-filologico, ideologico, fenomenologico, quantitativo, civile, e di genere – come attestano i nostri pochi ma significativi casi che ho appena citato. Per quanto riguarda Mengaldo, va notato che in quegli anni – ancora formativi, benché nel 1975 fosse già uscito il primo volume di quello che di lì a poco sarebbe diventata la serie La tradizione del Novecento – il suo metodo non si era ancora del tutto consolidato nell’onnicomprensiva dialettica tra stilistica e metrica (di cui darà poi ulteriore conto e seguito, anche come scuola, con la fondazione, nel 2001, della rivista padovana Stilistica e metrica italiana). In quella fase, piuttosto, Mengaldo – come leggiamo in una lettera a Fortini del 1980 – aspirava a “essere voce collettiva, parte di un coro (un coro in cui tanti sono muti perché non possono parlare), e anche titolare di una lezione trasmissibile”, “di una funzione”.
Sulla scia di questo entusiasmo collettivo e sulle orme del suo Maestro – parola che uso qui per necessità, pur non amandola – Gianfranco Folena, in questa antologia Mengaldo ragiona per veri e propri ritratti stilistici, facendo dialogare le ideologie con le forme: non tanto secondo un andamento della storia letteraria o delle sue manifestazioni simboliche (ermetismo, realismo, modernismo), né nei punti di tensione storica (1910 e 1963, l’avanguardia e le neoavanguardie) che hanno messo alla prova la lingua letteraria italiana, quanto piuttosto restituendo di ciascun poeta un’impronta linguistica e formale.
Attraverso i rapporti associativi che l’antologia stabilisce tra poeti e poesie, tale metodo mira a delineare una visione d’insieme del secolo breve – da Corrado Govoni (1884-1965) a Franco Loi (1930-2021), da Le fiale (1903) a Secundum lüna (1965) – per far emergere, attraverso i Poeti del Novecento, un rapporto dialettico tra individualità e totalità. Da un lato, troviamo l’autonomia della forma: i realia di un autore affiorano come funzioni linguistiche del testo (per esempio, in Sereni, la ripetizione), senza però irrigidirsi in un sistema o in una categoria dell’essere. Dall’altro, le individualità assolute dei poeti che raccolgono tale eredità linguistico-estetica: ciò che appare come frammento formale disgiunto concorre in realtà a un orizzonte interpretativo aperto, plurale ed elastico, in cui una scheggia di Sereni si lascia leggere entro un movimento più ampio, dove forme e individualità coesistono, conflittualmente e in equilibrio, nello spazio della cultura.
A chi legge Mengaldo dopo il 1978 (in base alla propria nascita e ai propri pre-giudizi culturali), e magari pure lontano dal suo centro padovano, una volta dissipato l’abbaglio intellettuale iniziale, queste battaglie dei sessi (e dei maschi) finiscono per apparire del tutto svuotate di quella Storia collettiva di cui in realtà dovrebbero (avrebbero dovuto) essere espressione o riflesso (anche convesso): a tratti impercettibili, queste tenzoni scivolano in un imbuto di letture oscillanti tra il pieno (della letteratura) e il suo vuoto (poetico, di lettori). E tuttavia, in un clima di tensione politica e culturale come era quello degli anni Sessanta e Settanta, la letteratura non poteva scindersi dalla propria voce politica, né da quella idea formativa – di Bildung, per l’appunto – che mirava a educare le nuove generazioni e a renderle più consapevoli della dialettica delle forme che attraversava le scritture del Novecento, o meglio: dei suoi poeti.
Non sono affatto certo che quell’atmosfera militante sia ancora viva e valida oggi – o addirittura trasferibile al 2025 – né che il prezzo pagato dall’antologia, che descrive una stagione per campionature, isolando testi (e tagliandone altri, com’è normale) ma trascurando l’aspetto più centrale della poesia novecentesca, ossia la forma-libro, non comporti una perdita nella comprensione del sistema poetico del Novecento. Mengaldo, del resto, è stato ed è tuttora un grandissimo saggista proprio perché è in grado di isolare il dato stilistico, la singolarità di una poesia, facendone specchio della totalità che quel frammento rappresenta; e forse per questo non ha mai sentito l’esigenza, euristica e metodologica, di rovesciare del tutto il suo sguardo sulla poesia partendo dal macroscopico (il libro, per esempio) per arrivare all’individualità (del testo o del poeta).
Non mi sembra un aspetto secondario (che vale per Mengaldo come per ogni scelta antologica), soprattutto se consideriamo l’idea culturale che soggiace al genere stesso della poesia: il testo come unità assoluta, come spirito di un’intera stagione o di un autore. Un’idea che l’antologia, con la sua campionatura per immagini o “ritratti”, riflette e talora impiega, lasciando al lettore l’arduo – e quasi mai assolto – compito di ricomporre il quadro: inferire la forma-libro, le relazioni sintagmatiche e l’orizzonte estetico che i singoli testi da soli non sono in grado di restituire.
E tuttavia, la centralità storica e culturale che quest’antologia riflette – e a cui Mondadori ha voluto restituire nuova linfa – mi sembra una via percorribile, e per certi versi utile, per tornare a interrogare i rapporti tra cultura e mondo; o addirittura, per riprendere il giovane Lukács (1911), tra l’anima e le forme. Anche attraverso la forma-antologia – che resta una delle possibili manifestazioni del genere poetico in competizione per il primato nel campo letterario – è possibile verificare se, e in quale misura, quell’unità tra l’uno e il molteplice possa (ancora) esistere; e in che modo il genere e la sua configurazione, insieme al punto di vista adottato, siano in grado di sottrarre o meno un’individualità al proprio campo.