Lettere d’amore di Giovanni Testori e Trionfi
“Voler scrivere l’amore significa affrontare il guazzabuglio del linguaggio: quella zona confusionale in cui il linguaggio è insieme troppo e troppo poco, eccessivo (per l’illimitata espansione dell’io, per la sommersione emotiva) e povero (per i codici entro i quali viene costretto e appiattito dall’amore)”. Nel catalogo delle voci che compongono i suoi Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes dedica alla scrittura cinque brevi, fulminanti paragrafi, volti ad attraversare le “illusioni, discussioni e impasses” che l’amore origina in chiunque tenti di tradurlo, riversarlo, trasformarlo in letteratura. È una sfida ancestrale, quella tra qualsiasi scrittore e l’amore, al punto che per il semiologo francese l’inizio stesso della scrittura si situa proprio “là dove tu non sei”, là dove la parola non può sublimarti. La sfida al linguaggio — e al contempo del linguaggio — è in questo senso anche una battaglia mossa contro l’ineffabilità dell’amore, il paradossale tentativo di costruirne il discorso nella piena consapevolezza del silenzio al quale ci costringe. Quando Giovanni Testori incontra Alain Toubas, il 24 febbraio 1959, il combattimento con la parola sembra già implicito, finanche necessario: solo pochi giorni separano quella data dall’invio della prima di più di duemila lettere, l’incipit di un carteggio strabordante, ossessivo e luminoso che giunge sino al 1962, sino al trasferimento di Alain dalla Francia, verso quella Milano in cui abiterà insieme a Testori. È ancora il giugno del ’59 quando Giovanni invia al ragazzo amato, un ventunenne parigino studente di medicina, una missiva in cui afferma di non potere più “tenere dentro le parole”: queste “chiedono, gridano di uscire”, eppure a Testori è ben chiaro (cristallino come può esserlo soltanto a uno scrittore, e al contempo a chiunque ami, o abbia amato) che quello stesso sentimento, quel ti amo, eccede le parole d’amore e insieme a esse, come scriverà pochi mesi dopo, “le parole di tutte le lingue della terra”. Qui, in questa frizione tra la passione da un lato, e lo sforzo autoriale, verbale, linguistico dall’altro, si situa tuttavia solo uno dei tanti nuclei incandescenti di un epistolario ancora inedito, e che adesso trova spazio e voce nel corpo di Alessandro Bandini. Per sempre, questo il titolo della creazione, concede ai suoi spettatori un accesso privilegiato a una sterminata tessitura biografica e letteraria, e ci offre l’occasione di avvicinarsi, per la prima volta o per l’ennesima, alla produzione dell’intellettuale lombardo, regalandoci lenti nuove grazie alle quali leggerne i percorsi, comprenderne le svolte, ricostruirne gli itinerari in una cronologia affettiva: ecco, qui è quando la necessità di una lingua nuova, di una lingua testoriana, si è affermata nell’urgenza del sentire; qui, invece, è quando più forte si è sedimentata un’estraneità al mondo, una differenza, l’esperienza di una marginalità. Lo spettacolo, al debutto assoluto a Lugano a ottobre e adesso in tournée, è infatti un oggetto prismatico, di fronte al quale dispiegare una pluralità di approcci all’opera di Testori e al contempo sondare, una volta di più, gli slabbrati confini tra il privato e la creazione artistica. Eppure i molti interessi storici e letterari, filologici e documentari a esso sottesi non sembrano esaurire la ricchezza di un lavoro che è tanto l’esito di un importante percorso produttivo — condiviso tra plurime realtà, ideato e voluto da un artista poco più che trentenne — quanto, e soprattutto, un meraviglioso e rigoroso pezzo di teatro, intimo e osceno come l’amore: e pertanto, di adamantina forza etica e politica.

Per sempre nasce durante BAT_Bottega Amletica Testoriana, quell’esperienza seminale e sperimentale diretta da Antonio Latella e sostenuta da AMAT in occasione, nel 2023, del centenario della nascita dell’autore: un laboratorio aperto, un work in progress, un tempo protetto per uno studio individuale e collettivo intorno alle parole di Testori, destinato a otto attrici e attori neo-diplomati — molti dei quali, oggi, apprezzati interpreti della generazione più giovane del nostro teatro. È durante una delle tappe di questa eccezionale immersione nell’arte testoriana che Bandini viene a conoscenza — grazie a Giuseppe Frangi, fondatore di Casa Testori — dell’epistolario tra Toubas e Testori, acquisito dall’archivio di Novate Milanese soltanto nel 2021: la lettura origina un cortocircuito emotivo e intellettuale — niente di più, e niente di meno, di un innamoramento — che lo convince a tornare ancora e ancora su quelle carte, ad affondare tra le righe di quell’inchiostro, negli interstizi tra l’angoscia, il desiderio, il rimpianto, la brutalità, la felicità che da esse rilucono. È una consonanza, un magnetismo autoriale e umano, un vibrare comune tra l’artista Testori, trentaseienne all’epoca della prima lettera ad Alain, e l’artista Bandini, di pochi anni più giovane; un riconoscersi —lo racconta lo stesso Alessandro, nelle dense note di regia — altrettanto disperato. «Cher Alain, je suis désespéré» sono le prime parole che Giovanni dedica all’amato, il significativo esergo di un coacervo di parole e frasi, di esclamazioni ed elenchi, di interrogativi e dubbi che in una struggente, esagerata, lucidissima prostrazione d’amore trova il suo collante più forte. E sono le prima parole anche di Per sempre, che ricama in un unico, abissale discorso amoroso decine e decine di lettere, cucendone singoli lacerti secondo fulcri tematici, tessendone i lemmi in melodie di assonanze e richiami, delineando un disegno coeso che spazia tra gli anni e i giorni della storia d’amore e condensa in una sola voce — quella di Testori, quella di Bandini, quella dell’artista — lo stupore nello scoprirsi amare qualcuno.

La straordinaria partitura drammaturgica — firmata da Bandini in un processo condiviso con Ugo Fiore, autore della traduzione dal francese delle lettere e dramaturg del progetto — è uno dei principali punti di forza di Per sempre: ciò che ascoltiamo è così un catalogo ragionato, e al contempo un flusso magmatico, intorno ai luoghi dell’amore quando a percorrerli è uno scrittore. C’è lo spasmo dell’attesa, il languore, la tenerezza; c’è la geografia dei luoghi condivisi —Rue Saint Sulpice, la fermata della metro di Jussieu, la collegiata di San Gaudenzio — e la zoologia emozionale dei vocativi —«cervo eroico e selvaggio, cervo che grida d’amore, cervo dal manto di rosa e di perla» —; c’è il tentativo di costruire un mito fondativo, un racconto immaginifico che restituisca una trama comprensibile e simbolica al fulgore dell’incontro tra i due; soprattutto, c’è lo sconcerto provato di fronte a un amore talmente vasto e potente da sconquassare le fondamenta stesse dell’afflato creativo: «Tutto ciò che mi accade nel mio lavoro di scrittore lo dedico a te», e «Ciò che ho scritto fino a qui non mi sembra nulla. Ciò che ho scritto fino ad ora, paragonato all’immensità del mondo, al suo senso e soprattutto alla sua tragedia, non diventa altro che un’ombra». Ecco che la vicenda amorosa, e il carteggio che di essa è traccia, diventano per lo scrittore un territorio di esplorazione letteraria, l’ambito nel quale concessioni plurilinguistiche e riferimenti artistici (primo fra tutti, quel Tanzio da Varallo la cui riscoperta deve molto proprio a Testori) così come annotazioni sul paesaggio lombardo e un riconoscibile meticciato tra cultura alta e bassa — ovvero alcune tra le principali cifre dell’arte di Testori — trovano qui forme di fioritura primigenie e quotidiane. E infine, o piuttosto al principio di tutto, c’è il corpo, la carne: le lettere ne mettono al centro il bruciante desiderio, ne delineano un’anatomia poetica, si soffermano sui dettagli fisici, sezionando con lo sguardo e la parola la figura dell’amato. La passione di Testori per Toubas non trasla l’esperienza su un piano intellettuale, non omette il racconto della materia viva e organica, sensuale perché sensoriale, che edifica la relazione: è, questo, “il vero modo di amare (…), quello che fonde due corpi in un solo corpo”, un amore che assaggia e assapora, che divora e ingoia, un amore che fa vergare le lettere “con le labbra, la lingua, le gambe, il ventre”. Tutto, in questi testi, è esaltazione e smodatezza, è iperbole ed enfasi; tutto è dramma e melodramma, e perciò ironia: e non potrebbe essere altrimenti in una scrittura che tenta di fermare su carta il terremoto dell’amore — e nel farlo ne sancisce la deflagrazione, lo sconquasso, il terrore, la lancinante bellezza.

Bandini, con un’intelligenza e una sensibilità attorale già mature, affronta l’incendiario materiale drammaturgico e sentimentale giocando per contrappunti: tanto è magniloquente il dettato, quanto giocoso — ma mai distaccato — il timbro recitativo, l’intonazione, il ritmo; quanto più forsennata si fa la prosa, smaniosa la lingua, impetuosa la colata lavica delle parole, tanto più rigido e perentorio è il suo stare in scena. In piedi, al centro di un vuoto dominato solo da uno schermo posto alla sua sinistra, sul quale scorrono inarrestabili le date delle lettere (la consulenza sullo spazio scenico è di Giulia Pastore, le luci di Elena Vastano), Bandini lascia detonare la parola testoriana concedendo una mobilità vertiginosa solo alla voce, al volto, alle braccia e alle mani che si agitano e scrivono nell’aria il nome Alain; fisse a terra, ancorate, le gambe sono un baricentro di cui cogliamo la tensione, il tremore muscolare. Per la quasi totalità della performance, Bandini si lascia soltanto attraversare dalle parole, deviandone il corso con inflessioni brillanti e sorridendo della loro energia, di sé stesso, di un amore che non si vergogna; parole che detonano sotto la sua pelle e di cui percepiamo ancor più il vigore nella stasi, nell’arresto del corpo. Appaiono in filigrana il magistero di Alessandro Sciarroni e di Tindaro Granata, rispettivamente sguardo esterno e coach di una performance estenuante ed esaltante: c’è quell’attenzione al gesto millimetrico, alla prossemica, al rivelarsi progressivo del corpo nella sua qualità statuaria, c’è quell’interesse nella modificazione dello sguardo percettivo, quando è dispiegato in una lunga durata, che contraddistinguono l’autore di DREAM e di U. (un canto), di cui Bandini fu interprete; e c’è quel modo di porre il dettato in equilibrio tra sorniona distanza e commossa partecipazione, tra adesione biografica e salvifica leggerezza, che costituiscono l’ossatura recitativa e autoriale di Granata. Ma Bandini ha ormai sviluppato una propria identità recitativa, una presenza sul palco che è sfrontata e irruente, che accentra su di sé gli sguardi e le energie, che seduce ora con incoscienza ora con calcolo.

Per sempre offre a queste qualità un magnifico banco di prova, soprattutto quando, nella sezione conclusiva di questa travolgente giostra, le lettere lasciano il posto a un lungo estratto da I Trionfi: il monumentale poema dedicato ad Alain, pubblicato nel 1965 e primo di una trilogia che di questo amore è sogno e rivelazione. Qui Bandini accantona qualsivoglia ironia, qualsiasi separazione con la parola pronunciata: se ne fa abitare, la incarna, la rincorre e la possiede. È un virtuosistico tour de force, un conflitto mnemonico, un’elettrica ed elettrizzante dimostrazione di dépense, di dispendio di energia e soprattutto d’amore. Ecco, di nuovo, il Barthes dei Frammenti, a ricordarci che “quando il dispendio amoroso viene continuamente riaffermato, senza freno, senza soluzione di continuità, si verifica quella cosa splendida e rara che si chiama l’esuberanza e che è uguale alla Bellezza”: un’esuberanza, prosegue, identica a quella del fanciullo. Ed è un fanciullo euforico, Bandini, in pantaloni corti e calze sotto il ginocchio, camicia a quadri e giacca scamosciata (lo styling è di Ettore Lombardi) che vede in Alain un essere “quasi adulto, eppur così bambino”, e che ne diventa simulacro amandolo, fondendosi a lui e con lui. I Trionfi appaiono qui non più soltanto un prodigio letterario, ma anche la testimonianza di un amore comunissimo e irripetibile: Per sempre restituisce e mette in luce i legami, le corrispondenze, le relazioni tra la poesia e la vita, tra i versi e le lettere, ravviva la fiamma dei Trionfi illuminandone, una volta ancora, la matrice autobiografica e sentimentale. Ma di questo sentimento Per sempre mostra — accanto alla carica generativa, alla valenza creatrice — l’unicità, la differenza, l’alterità: lo scandalo di un amore che, nell’Italietta del 1960, è ancora inaccettabile. Sono le giornate successive al discusso debutto dell’Arialda, quelle in cui Giovanni scrive ad Alain di quanto “l'esplosione del conformismo e del livore” non voglia fermarsi: il “ritorno dello spirito fascista nel paese” — di memorabile, asciutta rabbia la sequenza in cui Bandini recita queste frasi — impone una volta ancora un esercizio di “rischio, coraggio e libertà”. In queste stesse settimane in cui Per sempre calca i palcoscenici nazionali, a sancire un nuovo rinascimento testoriano è anche VIVONO. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996, la mostra a cura di Michele Bertolino allestita negli spazi del Centro Pecci fino al 10 maggio: a risuonare nel museo pratese, in un documento video d’epoca, è In Exitu, il romanzo del 1988 poi adattato per il teatro e che nella vicenda di Riboldi Gino — l’eroinomane che si prostituisce per acquistare le dosi, e che muore alla Stazione Centrale di Milano — tratteggia un’epoca drammatica, un destino di emarginazione e dolore, una possibilità di salvezza. È in quel margine che è “improprio definire alba”, ma che non è possibile “ritenere notte”, che Testori chiude la storia di In Exitu: un tempo in cui forse ha sempre vissuto e scritto, e dal quale parla a un oggi altrettanto dissestato. Sono le ore — lo scrive Giovanni ad Alain, nel settembre 1960 — “che non sono più giorno ma non sono ancora notte, o che non sono più notte ma non sono ancora giorno”, le ore in cui anche la ragione concede spazio alla follia, per dare forma “all’Uno, il nostro Uno, il nostro capolavoro”, il per sempre.
Per sempre sarà in scena a Brescia (Teatro Mina Mezzadri) dal 7 all'11 gennaio 2026; a Roma (Teatro Torlonia) dal 19 al 22 febbraio 2026.
Le fotografie sono di Masiar Pasquali.