Speciale
Abitare insieme
Se l’alienazione dal mondo dell’uomo moderno ricostruita da Hannah Arendt in Vita activa ha a che fare con l’abolizione della distanza (per mezzo di ferrovie, navi transatlantiche, aeroplani) e dunque con la contrazione dello spazio, ogni riduzione della distanza terrestre può essere conseguita solo al prezzo di “porre una decisiva distanza tra l’uomo e la terra” o, per meglio dire, “di alienare l’uomo dal suo ambiente naturale”.
È come se la Arendt, parlando di contrazione del globo, con queste parole anticipasse il concetto attuale di globalizzazione, mentre “l’allontanamento dell’uomo dal mondo”, per lei, implica ciò che definisce il “consumo stesso del mondo” per opera della vocazione espropriativa del capitalismo. Premessa e condizione di un processo di accumulazione e produzione che può continuare solo a patto che nessuna “durevolezza” e “stabilità” del mondo – ancora la Arendt – possano interferire con esso. Questo ci fa notare Ottavio Marzocca, filosofo, nel suo libro intitolato Il mondo c’è ancora. Città, territorio, ambiente, (Edizioni Efesto 2025). Di qui il collegamento davvero pregnante che l’autore stabilisce con le forme e gli esiti della crisi ecologica che stiamo vivendo, ripercorrendo i processi storici di espulsione dalle campagne dei contadini poveri, i fenomeni di urbanizzazione illimitata del pianeta e persino le forme di estraniazione delle nostre società dalla complessità ecosistemica dei luoghi, da cui è scaturito – per esempio – il dilagare della recente pandemia. E forse lo stesso diffondersi della guerra in orribili versioni genocide e neo-imperiali.
Va precisato che l’alienazione dell’uomo moderno dal mondo, che Hannah Arendt pone all’origine della modernità stessa, ha a che fare poi, nello specifico, con il cosiddetto mondo comune inteso come condizione duratura dell’abitare insieme, ora patentemente in crisi. Ciò che – secondo Marzocca – porta a un conflitto fra l’ethos dell’abitare, in quanto pratica della prossimità del mondo, e l’oikos dell’economia del lavoro produttivo, causa prima della crisi ecologica.
Un conflitto che si è accentuato, nel corso del tempo, con l’estrema riduzione dello spazio urbano e non solo (vedi la crisi della città post-fordista) a puro supporto dello sviluppo economico sempre più teso a devastare i luoghi e contemporaneamente a delocalizzare (con il fenomeno della fabbrica diffusa) abusando forzatamente degli ecosistemi.

Come affrontare allora la questione ecologica? Prioritaria, da un punto di vista teorico, la questione se si intenda trattare la crisi ecologica semplicemente individuando modalità che consentano di continuare a “usare” il pianeta senza distruggerlo o se, al contrario, si interpreti questa crisi come un’occasione per ripensare il nostro rapporto col mondo, mediante un abitare irriducibile al semplice risiedere, che coincide piuttosto, secondo la lezione di Alberto Magnaghi, col prendersi cura di quel mondo. E dove il territorio dell’abitare è pensato come sistema vivente, prodotto dinamico del processo di coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente naturale (Il principio territoriale, Bollati Boringhieri 2020).
Ecco profilarsi un’idea di abitare in contrasto radicale con quei processi di despazializzazione e deterritorializzazione prodotti dall’economia globale (e già intuiti dalla Arendt) da attuarsi assumendo la patrimonializzazione del territorio come base per lo sviluppo di società ed economie locali: che siano imperniate su istituti di autogoverno e di democrazia comunitaria e finalizzate, secondo i principi dell’Ecoterritorialismo, al benessere sociale attraverso la formazione di sistemi socio-territoriali autosostenibili. Per quali vie?
Col riscoprire, anzitutto, una coscienza di luogo, concetto cardine della Società dei Territorialisti (di cui Ottavio Marzocca è il nuovo Presidente) così che il luogo, gravido di saperi e culture accumulati nei tempi lunghi della storia, riproponga, contro l’espropriazione del globale, un senso di appartenenza alla società locale: un “mondo comune” per l’appunto in grado di invertire il rapporto fra produzione e territorio.
Va da sé, di conseguenza, che la sola prospettiva dello sviluppo sostenibile in dimensione planetaria, anche quella posta da certi movimenti ecologisti, non è sufficiente perché tende a deterritorializzare la questione ecologica. Deresponsabilizzando il locale. Vanno immaginate – così Marzocca – senza per questo necessariamente scartare l’idea di cosmopolitismo ecologico, pratiche plurali. Dove l’abitare, inteso appunto come cura dell’habitat, valorizzi esperienze di comunità locali, associazioni, reti di produttori e di cittadini impegnati a riconnettere le loro attività alla specificità dei territori di appartenenza. Con pratiche di agro-ecologia, economia conviviale, accoglienza dei migranti, rigenerazione di borghi spopolati, gestione collettiva di beni e spazi comuni, conservazione della biodiversità agroalimentare. Senza dimenticare il turismo responsabile o gli ecomusei. E ciò al fine di riattivare relazioni sinergiche fra sistemi antropici, ambiente e mondi viventi e ristabilire processi di coevoluzione fra insediamenti umani e contesti naturali.
Con un paradosso, ma neanche tanto, in conclusione: proponendo che l’ethos di ognuno, di per sé necessariamente scomposto in ruoli diversi, privilegi l’ethos di abitante del “mondo comune” (soggetto civico in quanto tale) rispetto a quello di produttore/consumatore o, puramente, di governato.