Addio Martin Parr, maestro del cliché

8 Dicembre 2025

Cliché è una voce onomatopeica della grafica: corrisponde al rumore di una matrice che cade nel metallo in fusione. Ma per tutti indica lo “stereotipo”, qualcosa privo di originalità, di ripetuto e di banale. Forse era proprio questo che all’inizio degli anni Settanta un giovane street photographer di nome Martin Parr, scomparso ieri a 73 anni d’età, aveva intenzione di fare inquadrando con l’obiettivo della sua macchina fotografica la gente che incontrava ai party, nei pressi dei fast-food, lungo le spiagge, nelle chiese, nei ritrovi collettivi. Era la gente normale, quella che si vede in giro e a cui, fino a quel momento, nessun reporter badava troppo. Non che la gente non fosse stata oggetto d’attenzione. Se si pensa al neorealismo, si capisce subito che la fine della guerra aveva portato al centro dell’attenzione la vita di tutti i giorni, le persone normali, insomma la scoperta della cosiddetta “realtà”. Ma d’allora erano passati più di trent’anni e la gente non era più la stessa. Era accaduto qualcosa di diverso: era nata la vituperata società dei consumi. Chi si soffermava a inquadrare una signora mentre morde un hot dog o un’altra sdraiata su un piano di cemento a prendere il sole? Era la working class e poi la middle class, presto fuse insieme. 

Lo sguardo di Parr era a sua volta ordinario, non artistico, o almeno non di quella artisticità che colpisce per la sua eleganza e raffinatezza. Non c’era nulla di specificamente attraente in quelle foto, che somigliavano agli scatti di famiglia messi negli album sotto una pellicola di plastica al fine di mostrarle negli incontri coi parenti, per ricordare cosa si facesse, dove e con chi. Somigliavano, ma non erano proprio così, perché Parr metteva qualcosa di diverso nelle sue immagini, qualcosa che era decisamente suo e che a molti apparve carico di cinismo. Come si permette di farci vedere gente così dozzinale? Che cosa ha di così interessante? Eravamo allora entrati nei mitici anni Ottanta, nell’epoca in cui il kitsch era uscito dai luoghi in cui se ne stava acquattato, prima di diventare qualcosa di colto da citare, qualcosa anche di divertente e di divertito. Ma non era neppure questo l’intento di Parr, dei suoi ritratti dell’usuale e del consueto: la gente priva di qualità, o almeno non dotata delle qualità che comunemente si cercano negli altri e per sé. Così Parr è diventato il perfetto descrittore delle norme sociali, delle consuetudini, delle abitudini, nel senso dell’“abito”, di ciò che normalmente si chiama il costume, qualcosa che in ambito estetico non ricopre nessun particolare valore, per quanto sia sotto il nostro sguardo ogni giorno. 

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Fotografia di Martin Parr.

Con il senno di poi, si può dire che abbia semplicemente anticipato le fotografie dei social media, i vari Facebook, gli Instagram e anche Tik Tok. Non lo ha fatto per svolgere una critica sociale, ma solo per mostrare come eravamo, o meglio come era quella middle class oggi in via di scomparsa così conformistica e insieme pacifica, beata di bersi una birra in un pub o sfoggiare un costume da bagno su un arenile, e lui era lì e fotografava un piede femminile in primo piano, uno solo, con le unghie coperte di smalto rosso, o una signora con il suo cagnolino in braccio, o ancora una famigliola con tanto di infante e passeggino a farsi uno spuntino davanti a un cestino che trabocca di cartacce. Lo stile adottato è quello del fotografo di strada, quasi del paparazzo, solo che il suo obiettivo non inquadrava i divi della Dolce vita, ma la gente qualunque. Ecco forse dove sta il senso del suo sguardo sociale o sociologico: porci uno specchio in cui riconoscerci, sia che abitiamo a Brighton o a Palermo, a Pisa o ad Amsterdam. Sono tutte persone, ma sono allo stesso tempo “tipi”, nel senso del carattere, della figura e del modello. Tipi da spiaggia s’intitola non a caso un suo libro che raduna scatti molto inglesi, se vogliamo, ma in cui possiamo ritrovare quel cliché dominante ovunque. Sono immagini ridicole, a volte persino comiche, come è stato scritto, ma mai sgradevoli, spiacevoli o antipatiche. Semmai c’è sempre una forma di bonomia, non di accondiscendenza, bensì di umano, nel senso del riconoscere nell’altro qualcosa di proprio, di personale. 

A un certo punto, nel 1999, Parr si è messo a girare il mondo scattando degli autoritratti in vari stili, a seconda dei luoghi dove arrivava, magari su una spiaggia – luogo per lui topico – dentro una conchiglia, usando lo stile dei fotografi nativi, diventando il cliché di sé stesso, infilandosi negli abiti locali, divenendo parte di quella folla che ha fotografato anche da distante. Se c’è chi odia, o ha odiato, la società di massa, lui come una sorta di Mister Bean era parte della medesima idiozia collettiva, della condotta quotidiana da cui faticosamente e inutilmente molti cercano di fuggire. “Perché darsi tanto da fare per essere diversi da quello che si è?”, potrebbe essere scritto sotto a tanti dei suoi ritratti. Per questo a lungo non è stato capito, anzi persino osteggiato e disprezzato, e quando lo hanno fatto entrare nella mitica Magnum, grazie alla candidatura sostenuta da Henri Cartier-Bresson, c’è chi ha storto il naso, quasi schifato di cosa sarebbe diventata, o era diventata, la cosiddetta “fotografia umanistica” che ha dominato i primi sessant’anni del Novecento. Era la sua stessa fotografia, nel senso che era lo stesso modo di guardare, con il medesimo sentimento, la gente, solo che questa era mutata, almeno dal punto di vista estetico: aveva assunto le forme della società di massa, indossato i suoi abiti e mutato le proprie antiche consuetudini. 

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Fotografia di Martin Parr.

Forse proprio Cartier-Bresson, così colto e acuto, questo l’aveva compreso, e perciò l’aveva invitato a unirsi alla sua agenzia. Nella cultura visiva di Parr c’è persino traccia dell’arte concettuale che negli anni Sessanta e Settanta aveva dominato il linguaggio artistico mondiale, impronta che si vede già nel suo libro di debutto, Home Sweet Home (1974) per arrivare sino alle raccolte che un critico ha poi definito “vedute ravvicinate di ParrLandia” degli ultimi due decenni della sua produzione. Una caratteristica di questa fase del suo lavoro è l’avvicinamento del suo sguardo al soggetto-oggetto ritratto, una sorta di dettaglio ulteriore dell’ordinario, del cliché umano, calcando di più sui colori glamour e accentuando il tratto pastoso che possedevano già le immagini, sino ad arrivare a una sorta di tattilità, che rivelava il senso profondo del suo guardare che è anche un toccare. Mai lo sguardo di Parr è stato distante e distaccato, ma sempre coinvolto anche fisicamente con ciò che ritraeva. Più di una volta guardando i suoi scatti può capitare di provare un’incertezza e domandarsi: è sentimentale o è indifferente? Forse entrambe le cose, in modo alternato, perché in momenti diversi vien da dire che è emotivo oppure distante, ma senza mai poter escludere l’opposto. 

Forse si potrebbe concludere che le sue fotografie sono un perfetto esempio di sentimentalismo cinico, includono l’attrazione e anche la repulsione. Ci lasciano sospesi in quello stato di mezzo che è il vero spazio estetico della sua arte. Tuttavia se lo paragoniamo ai veri cinici della seconda metà del XX secolo – Andy Warhol in primis – possiamo concludere che Martin Parr non lascia spazio all’estetica, a quel sentimento del bello che nasce comunque dallo sguardo dell’artista americano, che usa il mondo delle cose e dei consumi come un oggetto per fare arte. Semmai in Martin Parr, forse proprio nel suo stile e carattere così inglesi, agisce un elemento romantico neutralizzato da un’ironia a bassa intensità, una linea sottile che però definisce la qualità specifica del suo modo di guardare e guardarci: niente epicità come nel neorealismo, niente liricità come nella fotografia umanista, niente disprezzo come nel kitsch postmoderno. Semmai c’è qualcosa del glamour e anche del vintage, intesi come aspetti sentimentali di un’estetica non estetizzante. Grande collezionista di cartoline del passato, fotografie dozzinali della modernità, che ha poi pubblicato in un libro intitolato Boring Postcard (Phaidon), Parr ha inteso istruirci sul fatto che il kitsch è un’eredità storica superata e superabile: basta cambiare il nostro punto di vista. Un pensiero senza troppi pensieri, qualcosa di libero, di quella leggerezza dell’essere che tanto sarebbe piaciuta a Milan Kundera. Lui, lo scrittore ceco, si muoveva però a suo agio nel mondo della pesantezza, dove invece l’allegro Ariel della fotografia contemporanea, spirito dell’aria, è passato con slancio e passo sottile, ridendo di sé stesso e di noi tutti.     

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