COMPLEX TV / Unbelievable: odissea nello stupro

11 Gennaio 2020

Le serie televisive che si ispirano a un fatto storico o a un caso di cronaca sono le più difficili da scrivere e realizzare: penso alla polemica piuttosto manichea che si è scatenata recentemente su Chernobyl; i bias cognitivi ci spartiscono in modo netto tra coloro che non accettano che uno storytelling prenda strade originali sul sentiero della “verità”, e gli altri che invece apprezzano lo sforzo di attualizzazione e reinvenzione del plot che indirizzi a una riflessione etica o emotiva dell’accaduto: “se accadesse a me, oggi?”. Pensiamo a quei videogame che ci danno opzioni nello sviluppo della narrazione: giro a destra o a sinistra? Prendo questo jewel o quest’altro? Quest’arma o quest’altra? L’episodio unico degli autori di Black Mirror, Bandersnatch (2018) ha fatto il salto, concependo l’interattività delle svolte con la attitudine del programmatore del gioco; lì si arrivava addirittura a finali completamente diversi, che oltre il “divertimento” (letterale, di-vertire, cambiare strada) permettevano al giocatore-spettatore di farsi autore di catene causa/effetto alternative e sbalorditive.

 

Un’inchiesta realizzata nel 2015 dai giornalisti americani Christian Miller  e Ken Armstrong per “Pro Publica”, una newsroom indipendente, vinse il Premio Pulitzer per il giornalismo investigativo l’anno dopo: era la storia di una adolescente, Marie Adler, che aveva veramente subito anni prima uno stupro nella comunità dove viveva sola in una stanza; un uomo caucasico molto robusto, dagli occhi chiari, incappucciato, era entrato all’alba nella sua camera, l’aveva legata, bendata, minacciandola con un coltello da cucina prelevato in situ; con calma, per ore, l’aveva ripetutamente stuprata, con pause in cui la fotografava ripetutamente in mises “erotiche” che inscenava con alcuni oggetti fetish che aveva con sé in uno zainetto; infine, invitava la vittima a un lungo accurato bagno, accudendola in ogni fase dell’operazione. I poliziotti chiamati dalla vittima rilevarono che sulla scena del delitto lo stupratore aveva accuratamente ripulito ogni evidenza di proprio DNA: aveva indossato guanti, e sembrava conoscere accuratamente le procedure della scientifica.

 

 

Marie, sin dai primi interrogatori, si mostrò frastornata, “antipatica”, e la via crucis della vittima di stupro (primo interrogatorio del poliziotto di pattuglia, secondo interrogatorio del detective, terzo interrogatorio dei medici all’ospedale, nuovo interrogatorio alla stazione di polizia, dichiarazione autografa da firmare per il fascicolo della denuncia che apriva le indagini) diventò per lei una progressiva disgustosa iterazione dei flashback del trauma. Come si difese Marie, abbandonata da bambina piccola in orfanotrofio dai genitori biologici, sballottata poi negli anni in vari affidi, a volte con maschi abusanti? Richiudendosi progressivamente in una rinnovata sfiducia nei confronti di una rete politically correct del sistema democratico pubblico; ogni step garantisce alla persona socialmente sinistrata di avere tutela, ma in quella catena (che vediamo molto bene anche oggi qui in Italia, tra servizi sociali, nuclei di prossimità, sportelli di ascolto psicologico nelle scuole ecc), c’è un affastellarsi di documentazione burocratica che certifica che «noi abbiamo fatto quello che dovevamo fare», una ronda di paraculismi ufficiali che infine toglie al soggetto debole l’ultima chance: la speranza di essere veramente ascoltato, e amato, e protetto da qualcuno. 

 

Marie Adler aveva perso da tempo quella illusione, e nel distacco scettico delle procedure commise il fatal error di esporre in modo distratto i fatti, svogliata nel ripetere e ripetere, sino al paradosso: l’accusa che la portò clamorosamente a essere lei stessa incriminata per falsa testimonianza! Come finì la vera storia? Come finisce Unbelievable, la serie tv ideata, scritta diretta da un team di donne? Finì che, grazie a un mix di fortunati accadimenti, ma soprattutto grazie a due detective donne particolarmente tenaci nel non mollare la presa, si arrivò a scoprire che un ex militare che si era studiato bene un manuale di procedure della Polizia Scientifica aveva imparato a commettere il reato in diversi distretti di polizia, e poi diversi Stati, rendendo ogni caso di impossibile soluzione per mancanza di evidenti prove a carico e dunque da archiviare. Le due detective Stacy Galbraith e Edna Hendershot con difficoltà e diffidenza iniziali reciproche arrivarono infine a costituire un team investigativo intelligentissimo, e in un faticoso, ora entusiasmante ora frustrante, alternarsi di intuizioni di indagine e di binari morti riuscirono infine a sbattere in galera il criminale, e a vederlo condannato all’ergastolo.

 

 

 

La regista Lisa Cholodenko e la sceneggiatrice Susannah Grant negli otto episodi di Unbelievable (CBS-Netflix 2019) procedono con una lentezza che soltanto in produzioni eccellenti è possibile maneggiare: a poco a poco capiamo che empatizzare con Marie non è così semplice perché la sua vicenda di abusi l’ha resa ispida, respingente, sleale; a poco a poco capiamo che i poliziotti maschi che svolgono le indagini dietro il paravento della correttezza procedurale possono essere più o meno determinati nella soluzione del caso, e più o meno maschilisti nell’annidare la loro indifferenza alla gravità della violenza dell’abuso. Le due detective sono interpretate da due attrici (Toni Collette e Merritt Wever) che definiscono due personaggi diversissimi tra loro (una, madre di famiglia cristiana praticante e empatica; l’altra, donna di azione e “tough”) che progressivamente convergono sul punto essenziale; fare forza con l’unione, imporre a un apparato maschile infine meno ostile di quel che temono la questione di principio:  lo stupro è un reato criminale di enorme violenza morale e psicologica prima ancora che fisico e sessuale; svelare che anche nel maschio più empatico e open minded, nel suo cervello limbico, rettile, si annida ancora una qualche indulgenza verso la prevaricazione sulla donna come persona.

Kaitlyn Dever, che interpreta Marie, allunga la lista di nuovi straordinari attori teen allevati dalla complex tv: “impenetrabile”, antipatica, desertificata, depressa, si riscatta quando decide di ricominciare, aiutata per caso da un avvocato (maschio) affidatole a forza da una impiegata del Tribunale. Costringere il sistema “politically correct” a darle giustizia è il primo passo della sua nuova vita.

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