La Maddalena di Piero della Francesca

8 Novembre 2014

“Tu sei sposato, per la barba di Belzebù! Te lo rammenti sì o no di essere sposato?” insorse Piero strattonando il fratello per le spalle. “E tua moglie ti ha dato due figli” insistette al colmo dell’indignazione.

 

“Ma io …” balbettò Marco contrito, ciondolando la testa, quindi se la afferrò tra le mani e prese a singhiozzare. “Io non riesco a togliermela dalla mente. Quando la vedo passare, con quel suo incedere lieve e sinuoso, le tempie mi pulsano, tant’è forte il desiderio di stringerla tra le braccia. Il fatto che tu l’abbia presa come modella, poi, non migliora le cose. Ce l’ho sempre davanti agli occhi. È diventata un’ossessione, un’ossessione …”

 

Marco di Benedetto dei Franceschi, altrimenti detto Marco De la Francesca, fratello minore e procuratore del più noto Piero, aveva trentotto anni e fino ad allora la sua condotta era stata irreprensibile. Era ad Arezzo per curare certi affari del fratello pittore, dei conti rimasti in sospeso coi committenti di un lavoro che questi tardavano a saldare, quando aveva visto la modella e se ne era perdutamente invaghito.

 

ph. Maria Luisa Ghianda

 

Se Piero aveva scelto proprio madonna Bonanna Bacci come modella per l’affresco che stava eseguendo nella cattedrale di Arezzo, non era soltanto perché costei incarnava l’ideale di bellezza metafisica che lui perseguiva. Era, soprattutto, per una sottile rivalsa nei confronti del padre di lei – quel Luigi Giovanni Bacci, tra i più facoltosi mercanti aretini, suo insolvente committente degli affreschi nella locale chiesa di san Francesco – che aveva deciso di ritrarne segretamente la figlia in veste di Maddalena peccatrice nel luogo più frequentato della città. Ora il fatto che suo fratello se ne fosse incapricciato complicava le cose. Tanto più che la fanciulla, consenziente a prestarsi come modella, sembrava anche gradirne le profferte, cui corrispondeva con mutua scambievolezza. Se lui non fosse intervenuto d’urgenza sarebbe potuto scoppiare uno scandalo mandando a monte tanto l’affresco, quanto il suo piano di vendetta.

 

“Stasera stessa tornerai a Sansepolcro” ingiunse quindi a Marco in un tono che non ammetteva replica. “Devi consegnare subito questi disegni al carpentiere. Vi sono illustrati alcuni accorgimenti tecnici che potrebbero migliorare il processo di macerazione. Ma bisogna introdurli nella gualchiera al più presto, prima che il guado giunga a maturazione. E la stagione è alle porte. Perciò prepara i bagagli e parti immediatamente. Delle tue pene d’amore discuteremo un’altra volta.”

 

La famiglia dei De la Francesca era piuttosto facoltosa. Possedeva appezzamenti di terra a vigne e diverse case a Borgo Sansepolcro, suo luogo d’origine, di cui riscuoteva le rendite, più una gualchiera per il guado. La ricchezza le era derivata proprio dalla produzione di guadi maceri, ovvero dalla preparazione per la tintura di panni con l’indaco – impiegato anche dai pittori – in sostituzione di quello, costosissimo, importato da Bagdad. Il pigmento colorante era ottenuto per macero dal guado, appunto, una pianta a quel tempo intensamente coltivata sulle colline toscane, e Piero si interessava del lato tecnico del processo. Era anzi per merito dei suoi avveniristici progetti se gli affari di famiglia erano andati prosperando di tempo in tempo, al punto che i De la Francesca erano giunti a rivestire una posizione sociale piuttosto elevata in seno alla comunità borghigiana, divenendo anche membri autorevoli della locale Congregazione dell’Arte della Lana, di cui l’artista stesso era gonfaloniere.

 

Partito finalmente il fratello, non senza lagnanze, Piero si rimise all’opera. Aveva messo a punto, durante il ciclo della Leggenda della vera Croce, un sistema di pittura murale che gli permetteva di ottenere colori eccezionalmente vivi, saturi e splendenti e di raggiungere negli incarnati volume e luminosità mediante lievi velature chiare. Ancora qualche tocco e la sua Maddalena sarebbe stata ultimata, brillando quasi di luce propria sotto le buie volte del duomo.  

 

 

La santa, racchiusa in una nicchia aperta su un cielo di un tenue azzurro, indossava un abito verde piuttosto elaborato, dal cui collo spuntava una candida camicia di seta trasparente. Lo guarniva una cappa rossa, foderata di un colore bianco d’una tonalità più chiara rispetto a quella della camicia e stretto, un po’ sopra la vita, da una cintura anch’essa bianca, ma più scura. Reggeva in mano una pisside di cristallo, la cui trasparenza sembrava rilucere, come colpita da un invisibile raggio di sole. Parco nell’uso delle gamme cromatiche, com’era suo costume, Piero aveva ottenuto gli effetti del suo volume e della sua rotondità col solo impiego del bianco e del grigio-azzurro, applicandovi con estremo rigore le leggi della prospettiva. Era, questa pisside, un solido geometrico simile a quelli oggetto dei suoi recenti studi – condotti insieme all’amico matematico, e borghigiano come lui, fra’ Luca Pacioli – sulla “Divina proporzione”, i cui esiti avrebbero trovato collocazione nel trattato intitolato De prospectiva pingendi, ch’egli aveva intenzione di completare a breve.

 

Dato l’ultimo tocco di colore alle guance della Maddalena, l’artista smontò dal trabatello e lo allontanò dal muro per poter contemplare con agio il lavoro appena eseguito.

La pisside era così consustanziale allo spazio in cui era immersa, così vera, che pareva avanzasse verso chi la guardava, come sospinta dalla mano che la reggeva. L’intera figura della santa, poi, le cui misure erano quasi il doppio del naturale, collocata non già sulla soglia dell’arco in cui era inserita ma un poco al di là di essa, sembrava in procinto di attraversarla definendo così i gradienti di profondità in modo quasi tangibile. La sua monumentalità aulica, ieratica, per non dire liturgica, si stemperava nella pacata mestizia del volto, ritratto lievemente di scorcio e perfettamente costruito secondo il modulo delle tre parti – la lunghezza del naso presa a unità di misura – sul quale il realismo si combinava all’astrazione, la sensualità alla ragione, il concetto alla poesia. E sebbene il registro cromatico fosse, come d’uso in lui, volutamente basso, limitandosi al ritmo binario dei complementari – il verde e il rosso – creava, grazie al marcato contrappunto della luce con l’ombra, l’illusione di un colorismo diffuso e paradossalmente emozionante, animato dal frastagliato disordine delle ciocche dei capelli a serpentello, che aveva dapprima tracciate a compasso.

 

Se a colpo d’occhio la composizione poteva apparire misteriosa ed esoterica, ad una lettura più attenta essa si rivelava nella sua innocente trasparenza. Priva di sottintesi e di metafore, non celava enigmi né astruse sottigliezze, era pittura pura, pittura per antonomasia, espressa nel linguaggio diretto del colore, del segno, delle simmetrie e delle asimmetrie, della luce e dell’ombra, sul fondamento della prospettiva, così come piaceva a lui.

 

Abbastanza soddisfatto del risultato ottenuto, Piero radunò i pennelli, li ripulì dalle tracce di pigmento pittorico e, sistemati i vasetti dei colori nell’ampia bisaccia, si apprestò a fare ritorno a Sansepolcro. Prima di tutto sarebbe andato a controllare la gualchiera per verificare se vi fossero state apportate le modifiche che aveva suggerite. Ormai il guado doveva essere maturo. Era il tempo della raccolta e per nessuna ragione al mondo avrebbe mancato di assistervi. A recuperare i denari dovutigli dai Bacci avrebbe provveduto Marco. L’affresco era terminato e la modella era stata congedata, perciò il pericolo era cessato e suo fratello avrebbe potuto rimetter piede ad Arezzo anche l’indomani.

 

ph. Maria Luisa Ghianda

 

Quando, un’ottantina d’anni dopo, il pittore, architetto e scrittore aretino Giorgio Vasari celebrò, nel duomo della sua città, le proprie nozze con Niccolosa Bacci, pronipote di quella Bonanna di cui si disse e fu reso edotto sulla storia dell’antenata che aveva posato per l’affresco della Maddalena, rimase profondamente colpito dalla rivalsa messa in atto da Piero della Francesca contro i parenti ch’egli aveva testé acquisiti e subito meditò una contro-vendetta. Perciò, non appena ebbe fatto ritorno a Firenze, riprese in mano il testo del libro che stava per dare alle stampe – dedicato a “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori” – e apportò radicali correzioni alla menzione dell’artista borghigiano inserendovi così tante inesattezze sulle sue opere e sulla sua biografia da recar danno alla sua memoria per molti secoli a venire. Non pago, vi incluse alcune strofe che un tal Galasso Galassi, pittore-rimatore ferrarese (cui la notorietà avrebbe arriso solo in virtù di questi versi) aveva dedicate a Piero:    

 

Geometra e pittor’, penna e pennello

Così ben misi in opra; che natura

Condannò le mie luci a notte scura

Mossa da invidia: e de le mie fatiche

Che le carte allumar dotte & antiche,

l’empio discepol mio fatto si è bello.

(Giorgio Vasari, Le vite, Edizione Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550)

 

 

Nota: sembra incredibile ma l’opera di Piero della Francesca restò pressoché sconosciuta fino agli inizi del XIX secolo, quando Stendhal la riscoprì menzionandola nella sua Storia della pittura in Italia (Parigi, 1817); da allora  essa poté finalmente godere di una sempre crescente e meritata e fama. Che sia stato Giorgio Vasari a contribuire al suo oblio è una licenza narrativa piuttosto seducente.

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