Piero della Francesca: Carlo Ginzburg indaga

5 Agosto 2022

Il “Piero” così confidenzialmente chiamato (come aveva fatto a suo tempo Roberto Longhi) è uno dei più grandi pittori del Quattrocento, Piero della Francesca; “indagini” è un termine dal sapore poliziesco, per nulla a caso nel percorso di studi dell'autore. Indagini su Piero. Il «Battesimo», il ciclo di Arezzo, la «Flagellazione» di Urbino di Carlo Ginzburg uscì per Einaudi nel 1981, e viene ora riproposto da Adelphi. In mezzo, sempre per la casa torinese, ci sono riedizioni (1982 e 1994) con cambiamenti e aggiunte. Così, almeno in parte, il libro ha cambiato fisionomia: quella che l'autore nel 1981 aveva definito l’“incursione” di un “non storico dell'arte”, ormai è diventata a tutti gli effetti una campagna militare di lunga durata, con nuovi riposizionamenti e alcuni ripiegamenti; le dimensioni e l’articolata struttura del volume ne sono una prova in più (quattro appendici e una postfazione).

Come mai si dovrebbero fare indagini su opere di Piero della Francesca? Perché – come accade anche ad altre opere d’arte del passato – ci sono diversi aspetti da chiarire, e su più piani; e poi perché un suo quadro, la Flagellazione di Cristo della Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, ha un soggetto – almeno per noi moderni – a dir poco enigmatico.

Indagini su Piero è dunque un libro di grande successo (lo dimostrano le riedizioni e le traduzioni in diverse lingue), ma anche di grande insuccesso: nei territori dell’“incursione”, quelli presidiati dagli storici dell’arte, pressoché tutti i punti chiave del saggio hanno provocato discussioni e critiche, rettifiche e confutazioni. Del resto, nella prefazione del 1981, l’autore non si augurava “incontri al vertice”, ma “scontri su problemi concreti”.

Il libro riproposto oggi si apre proprio con questa prefazione, tanto breve quanto agguerrita sotto il profilo metodologico: da un lato sul problema delle datazioni (come si arriva a fissare la data di un’opera?), dall’altro nella polemica con gli iconologi (gli storici dell’arte che nella seconda metà del Novecento, a partire dalla lezione di Warburg, avevano cercato di riannodare l’oggetto artistico al relativo contesto storico e culturale). Quanto al primo punto si sostiene che “ogni proposta di datazione implica la convergenza delle risultanze stilistiche e delle risultanze extra-stilistiche”, in particolare dei “dati iconografici”. Quanto al secondo, Ginzburg punta il dito contro “le allusioni, non di rado molto complesse, decifrate dagli iconologi nelle opere di Piero” e le loro “elucubrazioni” frutto di una “ridicola presunzione”. Ma proprio “il rischio di costruire catene interpretative circolari, basate soltanto su congetture” sarà la principale accusa che già dalle prime recensioni verrà rivolta a Indagini.

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Il Battesimo di Cristo della National Gallery di Londra è al centro del primo capitolo. La tesi è che non si tratti solo del Battesimo, ma di una serie di “allusioni” alla concordia tra la Chiesa orientale e quella d’Occidente raggiunta nel concilio di Ferrara-Firenze del 1439, e di un implicito omaggio ad Ambrogio Traversari, uno degli attori di questa pacificazione tra le Chiese.

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Gli affreschi di Piero in San Francesco ad Arezzo raccontano episodi della leggenda della Croce, ma – secondo lo studioso – alludono a un tema in quel momento all’ordine del giorno, la pressione turca sull’impero bizantino fino alla sua caduta nel 1453. Diversi aspetti del ciclo metterebbero in primo piano l’esigenza di una crociata contro i Turchi, in particolare – nella Vittoria di Costantino su Massenzio – la scelta di raffigurare Costantino con i tratti dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, il cui profilo è ben visibile in una medaglia di Pisanello del 1439. Compaiono in questo capitolo due personaggi che diventeranno i protagonisti di Indagini, Giovanni Bacci (membro della famiglia che finanziò questi affreschi di Piero) e Bessarione, un prelato della Chiesa orientale da anni impegnato in Occidente a sostenere l’urgenza di una riconquista cristiana di Costantinopoli. Bessarione stesso avrebbe chiesto a Bacci di cambiare il consueto “programma iconografico” delle storie della Croce e di inserire riferimenti all’attualità politica e religiosa.

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I due personaggi ricompaiono nel pezzo forte di Indagini, il tentativo di interpretare un altro capolavoro di Piero della Francesca, la Flagellazione di Urbino. Ben prima di Ginzburg, diversi studiosi si erano interrogati sulla singolare struttura del dipinto: a sinistra, sullo sfondo, Cristo viene frustato alla presenza di Pilato; a destra, più vicino allo spettatore, tre personaggi conversano tra loro, indifferenti alla scena violenta che si svolge alle loro spalle. 

Chi sono i tre, e che relazione hanno con la flagellazione? Con un serrato dispiegamento di dati storici e biografici, lo studioso ricostruisce la fitta rete di relazioni politiche e culturali che coinvolgono Bessarione, Giovanni Bacci e Federico di Montefeltro (e lo stesso Piero), fino ad arrivare alla conclusione: Giovanni Bacci (il primo da destra del terzetto) commissiona l’opera nel 1459; Bessarione (il primo da sinistra) tiene un discorso in cui paragona la flagellazione di Gesù alla violenza dei Turchi; tra i due sarebbe raffigurato Buonconte, il figlio del signore di Urbino, da poco scomparso. Bacci, infatti, avrebbe dedicato il quadro proprio a Federico di Montefeltro, con l’auspicio che volesse appoggiare il progetto di una crociata per riprendere Costantinopoli.

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Fin qui un riduttivo riassunto di Indagini su Piero. A che cosa si deve l’insuccesso del libro tra gli storici dell’arte (salvo poche eccezioni)? È difficile sintetizzare qui argomentazioni che hanno un taglio spiccatamente specialistico. Ma almeno una volta possiamo entrare nel merito, nell’unico punto cruciale accessibile anche a chi specialista non è.

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Vediamo come Ginzburg arriva a individuare il committente della Flagellazione. Secondo lo studioso, le somiglianze fra tre personaggi che compaiono in altrettante opere di Piero – chiamiamoli per ora 1, 2, 3 – sarebbero così strette da far pensare che si tratti della stessa persona, così sicure da permettere di dare nome e cognome al personaggio sull’estrema destra del quadro (cioè 2). Se 3 è Giovanni Bacci – è possibile che lo sia (ma non è affatto certo) – allora anche 1 e 2 sono due suoi ritratti. Il risultato è che la Flagellazione acquista un committente (2), ma poi non si capisce che cosa ci stia a fare l’aretino Bacci, se di lui si tratta, tra i devoti del Polittico della Misericordia di Sansepolcro (1) (che di sicuro ha altra committenza). Osservazioni già fatte negli anni ’80 da diversi studiosi, in particolare da Antonio Pinelli. 

Il sillogismo parte infatti da una premessa incerta (non è per nulla sicuro che 3 sia un ritratto di Giovanni Bacci), ma procede per una strada incertissima, quella del confronto fisionomico, oltretutto paragonando volti di profilo. Qui non è necessaria la competenza dello storico o dello storico dell’arte: nella fisionomia dei tre personaggi alcuni lettori (con le loro ragioni) vedranno somiglianze stringenti, altri (anch’essi con le loro ragioni) analogie di superficie. Un appoggio così precario può diventare un fondamento?

Del resto, per ammissione dell’autore, l’interpretazione della Flagellazione (ma anche del Battesimo e del ciclo di Arezzo) è “in buona parte congetturale”, cioè fondata su catene di ipotesi, sapientemente costruite e per nulla strampalate come quelle di certi iconologi di ieri e di oggi, ma pur sempre tali. 

Tanto è vero che, sul tavolo dello studioso (e del narratore), le ipotesi funzionano sempre abbastanza bene e, se qualcosa non va, lo si può aggiustare senza troppa fatica. Prendiamo il caso dell'evento che si svolgerebbe in primo piano nella Flagellazione: nella prima edizione di Indagini, saremmo a Roma il 23 marzo 1459, di mattina, ma nell’edizione successiva siamo a Costantinopoli, il 25 marzo 1440. Per il 1459 – avevano osservato alcuni recensori – il presunto Bessarione era troppo giovane, il presunto Bacci troppo ben vestito (rispetto al suo ruolo), Giovanni VIII Paleologo (nelle vesti di Pilato) già morto. 

Ecco che i pezzi del puzzle (è una metafora usata dall'autore) sono andati (quasi) del tutto a posto. Quasi, perché questa retrodatazione (dell'episodio, e non del dipinto) non è senza conseguenze: il destinatario viene invitato a muoversi sul piano diplomatico e organizzativo per la crociata e lo si vuol convincere con un dipinto che descrive un episodio vecchio di due decenni: invece di ricorrere a una “profezia ex post”, non c’era una scena più convincente, mettiamo, la caduta di Costantinopoli? E il giovane biondo tra il presunto Bessarione e il presunto Bacci, riconosciuto come Buonconte, figlio di Federico di Montefeltro? La sua presenza fantasmatica era un problema con la datazione al ‘59, lo è ancora di più se riferita al 1440, quando Buonconte non era ancora nato. Nell’interpretazione di Ginzburg, gli scarti cronologici sono dunque tre, ed è singolare che Piero abbia distinto il tempo della Passione di Gesù da quello della nomina di Bessarione (1440), ma non lo abbia fatto con Buonconte, inserito com’è nella medesima unità spazio-temporale degli altri due.

Insomma, rilette quarant'anni dopo queste catene di ipotesi hanno un’aria parecchio improbabile. Ad esempio, il meccanismo ricettivo immaginato per il Battesimo funziona solo se ci figuriamo spettatori speciali, appunto “un pubblico selezionato di spettatori capaci di coglierne le implicazioni” (p. 49). Infatti, non è realistico pensare che i fedeli di tutti i giorni nel gesto dei tre angeli che assistono al battesimo di Gesù cogliessero un riferimento al dibattito tra le Chiese e in particolare a Traversari. Oltre tutto, si tratta di una sequenza di movimenti (e non di un solo gesto), che non può essere ridotta a un solo significato (ammesso che i gesti abbiano propriamente un “significato”). E il pubblico dei fedeli davanti al ciclo di Arezzo, quelli che arrivano in chiesa appena smontati i ponteggi e quelli che vi entrano vent'anni dopo? Erano in grado, come facciamo senza fatica, di collegare iconografie analoghe in immagini che avevano diversa circolazione? A meno che non ci si immagini dialoghi del tipo “Che cos’è quello strano cappello in testa a Costantino?” “Ma come, non lo sai? è un indubbio rimando all'imperatore bizantino, basta dare un’occhiata alla nota medaglia di Pisanello!”.

A monte di queste ipotesi c’è l’idea che per capire un’“anomalia” iconografica (come quelle presunte nelle tre opere di Piero) sia necessario chiamare in causa il committente. Sotto questo aspetto, il libro è figlio del suo tempo, degli ultimi decenni del Novecento. Quando nel campo degli studi storico-artistici c’era (del tutto a ragione) un luogo comune da sfatare, l’“immagine di maniera del genio” (p. 154) e il conseguente rischio di una “pura degustazione estetizzante” (p. 21). Sono gli anni in cui si sperimenta l’analisi dell'opera d'arte nelle sue relazioni con il contesto culturale e con le circostanze storiche, privilegiando dunque la dimensione iconografica (tre anni prima di Indagini, Einaudi aveva pubblicato La Tempesta interpretata di Settis, un saggio sul soggetto del capolavoro di Giorgione). In questo momento, insomma, l'idea di un Piero che aggiunge o toglie o varia come gli pare non poteva avere una gran fortuna.

E il successo di Indagini, a che cosa è dovuto? Prima di tutto, il libro è un lungo racconto, con una trama che ha il suo lieto fine: la soluzione dell'enigma. Una storia su Piero che può essere letta come un romanzo (un romanzo molto colto, s’intende), una storia capace di generare altre storie, a cominciare da L'enigma di Piero. L'ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro (Milano 2006) di Silvia Ronchey (mai citato nel volume).

Poi c’è la qualità della scrittura, e l'abilità con cui l'autore cambia di continuo ritmo, lasciando spazio a osservazioni teoriche, a discorsi sul metodo, a riflessioni autocritiche sulla debolezza o la forza delle proprie argomentazioni; l’intera appendice II è dedicata a un “fallimento”, l’impossibilità di interpretare come insegna cardinalizia destinata a Bessarione la sottile fascia rossa che Piero ha dipinto sulla spalla dell’elegantone in blu nella Flagellazione: “ma la riflessione su un fallimento può essere altrettanto istruttiva (e forse più) della riflessione su un successo”. 

Pause che servono a ricondurre nell'alveo della saggistica un testo che sin dall’inizio ha preso la forma di una avvincente narrazione (“he is a very good story-teller” dirà di lui Eve Borsook commentando l’edizione inglese). Prendiamo l’apparizione del presunto Buonconte (p. 211): 

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Egli è a piedi nudi, coperto da una semplice tunica, tra due uomini calzati, che indossano elaborati abiti moderni. Non parla (come fa l’uomo alla sua destra) e neppure ascolta (come fa l’uomo alla sua sinistra). La solenne gravità del primo, l’attenzione del secondo non lo sfiorano. Nessuna emozione o sentimento riconoscibile increspa il suo volto bellissimo. I suoi occhi fissano qualcosa che non vediamo.

Il giovane è morto.

Il narratore scrive accanto – non assieme – allo storico. Tanto che, persino su punti specifici (p. 218), il primo è palesemente soddisfatto (“È un inserimento [quello di Buonconte] che dà luogo a un’interpretazione complessiva molto compatta e coerente”), niente affatto il secondo (“Ma la coerenza interpretativa priva di riscontri di fatto lascia sempre un margine di dubbio”). In fin dei conti, scrive Ginzburg nel ’94 (p. 261), è stata una “pretesa”, una sorta di “provocazione” quella di “rintracciare nella tavola di Piero, in assenza di esplicite testimonianze esterne, un intrico così fitto (e così minutamente ricostruito) di allusioni religiose, politiche, personali”.

Succede però che in questa sottile, perdurante trattativa tra lo storico e il narratore è quest’ultimo ad avere la meglio, perché il primo può usare fin che vuole l’indicativo, l’altro deve limitarsi al condizionale. Come quando (p. 109) si postula un incontro tra Bessarione e Giovanni Bacci col l’obiettivo di far “inserire nella decorazione della cappella di famiglia il ritratto del penultimo imperatore d’Oriente”: “un’ulteriore, decisiva circostanza che documentata non è (e forse non lo sarà mai)”.

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