Ikarien / Uwe Timm, Un mondo migliore

20 Marzo 2019

Icaria prima dell’alba

 

Nel 1896 esce il dramma naturalista di Gerhart Hauptmann Vor Sonnenaufgang (Prima dell’alba). Racconta la decadenza di una famiglia di contadini arricchita grazie alla scoperta di un giacimento di carbone. Molti membri della famiglia, infatti, e primi fra tutti il contadino e la figlia Martha cedono all’alcolismo, che nel dramma viene rappresentato quasi come una diretta conseguenza della ricchezza. Simbolo estremo di questa idea critica è la tragica fine prematura del figlioletto di Martha, che piccolissimo già è dipendente dall’alcol e si ferisce a morte con i cocci di una bottiglia. Helene, una seconda figlia, cresce in maniera diversa: la madre, che muore di febbre puerperale, desidera che lei venga educata in maniera diversa e così la bambina viene inviata in un collegio pietista moraviano, il che la allontana dalle abitudini e dai costumi della famiglia. La giovane Helene si innamora poi del promettente studente Alfred Loth, con tanto di idillio che ricalca da vicino la scena del giardino di Marta nel Faust di Goethe evidenziandone la carica ironica e pretragica insieme. Non appena però Loth viene a sapere della tendenza all’alcolismo nella famiglia di Helene, la abbandona nella convinzione che l’alcolismo sia una tara ereditaria, e la giovane si toglie la vita. Loth ha una visione del mondo particolarmente chiusa che si intreccia con un singolare idealismo e un’idea di sé come uomo di principio, che lo rendono un personaggio indefinito, ma caratterizzato dalla tendenza a “usare” gli ideali come alibi per una sostanziale aridità dell’animo. Gerhart Hauptmann modella il personaggio di Loth sulla figura del dottor Ploetz, amico di gioventù del fratello Carl, e vicino ai due fratelli per l’adesione alle idee del “comunismo utopico”, in particolare nella visione di Etienne Cabet. Nel periodo delle fantasie utopistiche comuniste, infatti, il politico socialista aveva pubblicato un romanzo intitolato Voyage en Icarie (1840), in cui ipotizzava la concretizzazione di una società perfetta mettendo a sistema l’ideale dell'uguaglianza, che procedette poi a praticare trasferendosi negli Stati Uniti e tentando di costituire una società di questo tipo. 

 

Questi eventi sono raccontati in una delle linee di Un mondo migliore di Uwe Timm, e danno il titolo tedesco del romanzo: Ikarien, con un riferimento ancora più diretto al fulcro dell’universo ideologico fittizio intorno a cui si innesta la rievocazione storica. La storia degli amici che credono nell’utopia di Cabet è infatti una delle sezioni narrative interna del lungo romanzo, che si presenta come una complessa composizione di voci narranti e punti di vista, con un gioco di focalizzazione e intertestualità interna ed esterna che sfiora il pastiche e che si rivela, come è logico che sia, innanzitutto nella gestione particolare dei registri linguistici e stilistici. Gli eventi storici vengono resocontati in quattordici lunghe sedute da un amico e un tempo collaboratore di Ploetz, di nome Wagner, il quale nonostante la deriva nazionalsocialista del collega scienziato, ha mantenuto con lui i contatti fino alla fine, e incastonati in una cornice tanto semplice quanto efficace: Michael Hansen, un ufficiale statunitense di origine tedesca, dalla città di Wuerzburg viene inviato a Coburgo per raccogliere la testimonianza di Wagner. Gli episodi, talvolta dal sapore aneddotico, che si dipanano nei suoi sette mesi nella Germania Ora Zero costituiscono un movimento narrativo spaziale e temporale che si interseca con le lunghe tirate di Wagner in una narrazione a due fuochi, che riesce a rappresentare da una parte una sorta di dialogo extradiegetico con il lettore, dall’altra il pieno conflitto interiore che allude anche al conflitto generazionale. Ai due fuochi in questa ellisse si aggiunge la cornice della narrazione a focalizzazione esterna delle giornate di Hansen che intanto riprende contatto con la Germania in cui è nato, cercando risposte e trovando domande. 

 

 

Cultura, civiltà, idillio

 

Uno dei filoni tematici è la rilettura delle interrogazioni e riflessioni su Kultur e Zivilisation, che tanto hanno interessato gli studiosi e su cui si restringe il focus proprio negli anni tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale: le prime riflessioni sistematiche sociologiche sulla creazione e concezione dello stigma e dalla tradizione dell’utopia, i concetti di pulsione, società, giustizia, legalità, equità, si riverberano sull’idea di possibile formazione di uno “spirito tedesco”. Mentre Hansen volentieri si perde nei racconti di Wagner, i suoi “committenti” sembrano solo fingere interesse per il rapporto tra la psicologia delle masse e l’individualità, senza però comprendere fino in fondo quello che giorno dopo giorno viene rivelato ad Hansen dal racconto di Wagner, ed esprimendo in maniera superficiale e sprezzante il giudizio su un uomo che va sottoposto al tribunale della storia con visioni categorizzanti e a loro volta sottilmente razziste e semplicistiche:

 

It would be paradise here, if it weren’t for those reports, dichiarò George, che poi gli toccava leggere, relativi agli esperimenti sul congelamento umano, se non ci fossero stati i medici dei campi di concentramento che poi era costretto a interrogare. Ma come hanno fatto quelli che vivono qua, in un paesaggio che Dio deve aver creato in un momento di particolare allegria, come hanno fatto a diventare così barbari arrivando a uccidere, assassinare, far morire di fame, a compiere sistematici esperimenti sugli esseri umani torturandoli a morte? Come hanno fatto con tutti quei loro eroi, di cui vanno tanto fieri, con tutti i vari Goethe, Kant, Schiller, Lessing, con le loro università e le loro scuole, i licei classici con tanto di greco e latino, con tutti quei loro adagi: “Nobile sia l’uomo, soccorrevole e buono”, com’è stato possibile arrivare a questi misfatti? […] Hansen disse che non era d’accordo, la maggioranza si era comportata così, certo, ma non proprio tutti. Per questo motivo il nostro divieto di fraternizzare è così ipocrita. […] A queste parole George replicò sostenendo che lui, essendo emigrato dalla Germania, seppur da bambino, aveva ancora tracce di comprensione e non voleva riconoscere l’orrore in quanto persona direttamente coinvolta, uomo di buona volontà, certo, ma direttamente coinvolto, come molti di coloro che pure erano stati direttamente coinvolti. 

 

Così la piccolezza delle vicende di Hansen, la cornice del racconto, si sistema su una sorta di rullo scorrevole, come su un palcoscenico, su cui alcuni pannelli scenografici (esempio su tutti le descrizioni dei paesaggi idilliaci della Baviera) somigliano a quadri borghesi dell’Ottocento e stabiliscono un contrasto con le macerie di Monaco su cui Hansen è costretto ad arrampicarsi quando visita la città. D’altro canto anche palazzi e architetture straziate (non a caso uno dei primi luoghi toccati dalla narrazione è Wuerzburg, città-simbolo della distruzione del cuore europeo), dagli edifici urbani fino alla Königsplatz di Monaco, alle vie cupe e povere di Coburgo, evidenziano la presenza di un’utopia anche di spazi umani di fatto annientata. Quando però questi sipari si chiudono, Hansen si trova catapultato in un passato in cui non riconosce più alcun tratto stabilizzante. La ricerca e la ricezione del narrato lo trascinano in una singolare nebbia di valori, in cui non gli sono sufficienti né gli insegnamenti e la fiducia della democrazia americana, né le riflessioni della scienza e della filosofia “europee”, e di certo non le sue competenze linguistiche che agli altri appaiono mirabolanti ma che noi sappiamo comunque essere vacillanti e frammentarie.

 

 

Alle domande scarne di Hansen, Wagner oppone una fluenza narrativa inarrestabile, che a tratti stordisce il lettore: lui stesso si chiede cosa sia Storia, cosa sia cultura e come e se sia possibile rileggere la “Storia” in maniera da comprenderla, ma difende nell’affastellamento di eventi e psicologia la possibilità di giustificare atti ingiustificabili con una consapevolezza a posteriori. L’ironia critica è accentuata anche dalle autocitazioni, che ridefiniscono continuamente il possibile alter ego dell’autore. Ad esempio, nel passo che segue, Wagner fa riferimento al colonialismo tedesco in Africa, già trattato da Uwe Timm in Morenga, romanzo che negli anni Settanta fece molto scalpore.

 

[Wagner] All’inizio la mia proposta non venne tenuta in debita considerazione, ne preferirono un’altra secondo la quale i socialdemocratici nelle colonie avrebbero dovuto contribuire all’opera di acculturazione. Le poche volte in cui era venuta a trovarmi aveva potuto rendersi conto di quanto la cosa mi provocasse malumore, agitazione, rabbia, indignazione. La sistematica brutalità delle truppe coloniali tedesche, abbondantemente dimostrata nel 1904 dalla repressione della rivolta nella colonia dell’Africa Sud-Occidentale. I tedeschi, portatori in apparenza di cultura e civiltà, erano in realtà i veri selvaggi, non gli Herero, non i Nama. Loro si limitavano a difendere la propria libertà, la loro umanità contro i bianchi divenuti selvaggi. E quel loro spadroneggiare del tutto privo di controllo li aveva completamente abbrutiti. Un abbrutimento del genere era tipico delle colonie europee. 

 

A mano a mano che si procede nella narrazione, in una trasmissione da Wagner a Hansen i confini tra delirio razzista e aspirazione idealistica di miglioramento del mondo si fanno più fluidi, in una sorta di adeguamento alle strutture del racconto stesso. Nell’amicizia tra Wagner e Ploetz male e bene hanno accezioni non così distinte, e il disincanto di Wagner dopo alcuni giorni di interviste raggiunge Hansen che si permette talvolta di ironizzare sulle connessioni tra corporeità e intelletto. 

 

 

Si tratta di una sorta fuga nell’orizzontalità e in alcuni passaggi Hansen ci sembra persino poco intelligente e troppo egoista. Un indizio dei mutamenti nella concezione delle relazioni è dato dall’amicizia tra Wagner e la seconda moglie di Ploetz (la pittrice Anita, chiamata però ripetutamente “la greca”), conosciuta dai due amici a Berlino al ritorno di Ploetz dall’esperienza negli Stati Uniti. Wagner si innamora di Anita, ma la pittrice sceglie Ploetz che per lei abbandona la moglie, per poi risposarsi. Nel frattempo le teorie e gli esperimenti procedono, e con i soldi della moglie Ploetz riesce a costruire un centro di ricerca sull’Hammersee, in cui conduce vari esperimenti con cavie animali, concentrandosi soprattutto sulla dimostrazione dell’ereditarietà dei danni dell’alcol. Una teoria in parte confusa tra cause ed effetti, che però esclude dall’idea di minorità i fattori sociali (e presta dunque il fianco alla strumentalizzazione nazista, così che alla definitiva ascesa al potere dei nazionalsocialisti Wagner descrive Ploetz felice di poter applicare le proprie teorie caldeggiando la sterilizzazione forzata compresa nella Legge per la prevenzione della prole geneticamente malata). In questi anni Wagner si distanzia sempre più dall’amico, e vive a Berlino in condizioni misere, lavorando come conferenziere e giornalista prevalentemente per testate di sinistra o vicine ai sindacati. Nel 1918, nello stato di prostrazione economica dell’intero paese, Wagner si ammala di polmonite e Anita lo preleva e porta sull’Ammersee per curarlo, impedendo un’aperta lite tra i due amici. Non del tutto guarito, però, Wagner parte per le battaglie della Repubblica dei consigli di Monaco, prosegue poi la sua attività giornalistica durante la Repubblica di Weimar per poi, all’ascesa dei nazisti, finire per diversi mesi nel campo di Dachau e infine passare il resto dei suoi giorni nascosto nella cantina di un antiquario, lì dove Hansen lo va ad incontrare. 

 

Gomme americane, alcol e emozioni preconfezionate

 

Alle nozioni acquisite sulla “barbarie” Hansen sembra dunque reagire cercando rifugio nella Zivilisation dei rapporti dubbiosi e superficiali con delle “Fräulein” e nei piaceri della cività dei consumi, simboleggiata dalle concessioni americane: gomme da masticare, fumo, alcol, libertà di movimento. Proprio il senso spaziale dei movimenti fa da contraltare all’ondeggiare verticale della narrazione bifocale (ed ellittica) dei due protagonisti, l’uno apparentemente sempre immobile e da tempo costretto prima alla prigionia in un campo e poi alla lentezza della vecchiaia e e l’altro solo apparentemente più libero, intrappolato in relazioni orizzontali in cui le emozioni sono poco più che uno sfondo al pari delle scenografie, e destinato a percorrere una strada lineare e preconfezionata. Anche la “mentalità” di Hansen è, almeno all’inizio, schematica, e la sua “formazione” nel romanzo, è innanzitutto decostruttiva.

 

 

Hansen proseguì, incerto se andare a trovare Wagner in libreria, ma poi si disse che non era una bella idea perché fra loro era venuta a crearsi un’intimità che non andava condivisa con Axthelm, proseguì lungo la Ludwigstrasse, passò accanto alla Biblioteca Nazionale con le statue dei filosofi greci scolpite nella pietra, che sembravano riflettere su ciò che si stava davanti, i calcinacci, i grossi blocchi di pietra spezzati, le colonne crepate, le travi bruciate, la strada spaccata. Proseguì e giunto a Odeonsplatz si mise a sedere in un caffè che aveva appena riaperto. 21 luglio. Sorprendente nei tedeschi è questa determinazione, quest’attivismo, questa fierezza nell’opporsi al destino. Forse è una conseguenza della Storia, di questa Storia così catastrofica, tutte le guerre che il paese ha vissuto e che ha anche scatenato. Non li vedo quasi mai indolenti, mai rassegnati, sempre, invece, determinati, volitivi, determinati e ostinati. 

 

In questo percorso di ri-formazione la presenza di un “femminile” è importante, anche se non troviamo nel testo vere protagoniste “in azione”. Le donne sono oggetto dei discorsi degli uomini, sia che si parli di una loro parità che di una loro reificazione. In questo la critica si evidenzia esplicita, in un percorso lineare che va dalla donna “del ricordo”, all’incontro con Molly (che porta un sacco di carbone sulle spalle, richiamando il dramma di Hauptmann), con lo specchio dei discorsi sulla parità raccontati da Wagner e al personaggio di Anita che emerge dal resoconto, intrecciandosi ancora una volta con gli scenari delle operazioni di “rielaborazione culturale” in senso paternalistico, e in cui si evidenzia la mancanza di un vero sviluppo e l’essenziale riduzione della ricostruzione al ritorno di uno stato di barbarie meno riconosciuta. Qui l’elemento architettonico è utilizzato per rafforzare la portata critica. La contiguità tra alcuni edifici evidenzia da subito la contraddizione, presente quindi anche nell’Ora zero, tra utopia di rinnovamento e staticità sociale, alludendo sottilmente non solo al mancato rinnovamento della condizione femminile, ma, regolarmente e insistentemente nel testo, congiungendo la narrazione “nuova” alla tradizione letteraria e culturale in particolare di lingua tedesca. 

 

16 aprile: Dopo cinque giorni ha aperto una piccola casa di tolleranza. È un hotel chiamato All’Ancora d’Oro. Un vecchio edificio, a graticcio, con davanti una facciata neoclassica in muratura. A Norimberga ancora si combatte. Qui invece le nostre truppe incontrano le donne. Comodamente seduti in osteria, sotto le corna impagliate dei cervi uccisi nelle foreste della Turingia. 

 

 

D’altro canto, tra i richiami letterari diretti o indiretti alla tradizione letteraria in diversi filoni sono molteplici e spesso chiaramente distinguibili. Ricalcano, forse, la schematizzazione di Hansen della cultura letteraria tedesca. Il brano sopra proposto subito richiama alla mente la letteratura criminale tedesca e la riflessione sulla psicologia del delinquente, in Germania già codificata, sistematica e isotopica almeno dalla metà del 1700 e evidenziata dalle ricerche di Schiller sulle anime belle e dal suo testo Delinquente per infamia, in cui proprio la geometria osteria – desiderio per la donna – uccisione dei cervi – barbarie diviene paradigmatica per il processo di discesa nello stato psicologico della colpa e nello stato sociale della stigmatizzazione. 

 

Il dubbio su Mefisto

 

L’interesse ossessivo di Ploetz per le sue ricerche non può non farci pensare al Doktor Faustus di Thomas Mann, ma forse ancora più evidente – e inquietante – è il richiamo alla figura di Henrik Hoefgen del Mephisto di Klaus Mann. D’altro canto il Faust e il faustismo – e la loro distinzione – sono pervasivi dell’opera: chi ci racconta la vicenda del terribile patto col diavolo del nazionalsocialismo è il “pedante Wagner”, abbadonato in una buia stanza colma di libri (proprio come lo studio di Faust). Questo richiamo al motivo faustiano e alla tradizione del romanzo tedesco dice più sul finale del romanzo di altri richiami, almeno tanto quanto dice dell’intreccio inevitabile e fecondo tra vita e letteratura, tra realtà storica e finzione letteraria. Il rapporto tra Hansen e Wagner, nel tempo, diventa reale e credibile, più di altri rapporti raffigurati: è il rapporto tra la cornice e il narrato, tra la generazione più giovane e più anziana, tra chi è fuggito in esilio e chi è rimasto e tra chi può vivere alla luce e chi è costretto all’ombra. Hansen, che troppo spesso agisce, pensa e parla in maniera ingenuamente paternalista – talvolta quasi fastidiosa per il lettore –, è costretto man mano a riconoscere l’autenticità della relazione data dalla partecipazione di una visione della storia e del mondo, e implicitamente, si dà la possibilità di comprendere l’accaduto come unica via per condannare con equità. È una grande responsabilità, i cui contorni e le cui possibilità di azione si sviluppano pagina per pagina fino alla fine. Al lettore è dato il compito di decifrarne i tratti e i richiami da trattenere tra le parole dei lunghi racconti e le immagini delle maschere di libertà. 

 

Uwe Timm, Un mondo migliore, Sellerio 2019, traduzione di Matteo Galli.

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