Claudio Giunta superpop
Scattiamo subito sull’attenti leggendo Il pop e la felicità di Claudio Giunta (Mondadori, 2025): quando un professore di Letteratura italiana si sporca le mani con la cultura popolare, ci diamo subito un contegno e ci prepariamo, stiamo per leggere qualcosa di molto serio su qualcosa di molto frivolo. Era già successo con Barthes e i Miti d’oggi (1957), un’operazione scandalosa per gli intellettuali del suo tempo: Barthes sottrae gli oggetti della cultura di massa – il wrestling, il vino e il latte, la plastica, la Citroën DS – al registro dell’ovvietà e li tratta come sistemi simbolici, degni dello stesso sospetto analitico riservato alla filosofia o alla letteratura alta. La sua mossa è una desacralizzazione al quadrato: desacralizza sé stesso come intellettuale, costringendosi a guardare in basso e, nello stesso tempo, desacralizza la cultura popolare, mostrando che anche lì agiscono poteri, ideologie, retoriche. Claudio Giunta, in questo suo libro brillante, smonta e rimonta come Barthes e si distanzia invece da un altro campione della critica alla cultura di massa, l'Enzensberger di Zig Zag – Saggi sul tempo, il potere e lo stile (1997), dove l'argomentare (sullo spreco, la moda, il progresso) si fa più politicizzato: Hans Magnus non solo interpreta la superficie del quotidiano, ma coglie le fratture, i sobbalzi, l’ironia interna del potere, non descrive semplicemente i fenomeni, li attraversa, li scompone, li reinventa attraverso un movimento intellettuale sinuoso, appunto "a zig zag". La cultura popolare non è per lui un feticcio da smontare, ma un campo di forze in cui stile, politica e tempo storico collidono e generano tensioni critiche. Giunta, meno "politico" di Enzensberger, pare guardare più a Umberto Eco e al suo Diario Minimo (1963). Anche Il pop e la felicità è una raccolta di articoli già pubblicati e, del metodo Eco, Giunta sembra far sua l'attitudine a non giudicare, bensì a isolare, definire, ingrandire, archiviare.
Ci si potrebbe chiedere, per esempio, cosa possa mai importare al lettore, probabilmente maturo, del Foglio o del supplemento domenicale del Sole 24 Ore (i giornali su cui Giunta ha pubblicato le sue riflessioni), di Taylor Swift. Cosa gliene importa di questa star globale della musica pop? Analogamente, ci si potrebbe domandare quale sia la motivazione che ha spinto Claudio Giunta a dedicare tre articoli e quarantadue pagine di libro a questa cantante. È autocompiacimento? È il professore che vuole mostrare, attraverso questa scelta, una forma di prossimità con i lettori giovani, un "sono uno come voi", capace di condividere gusti e riferimenti altrimenti considerati triviali? È la dimostrazione – proprio in questa apparente debolezza, nella capacità di immergersi nel pop senza snobismi – della sua padronanza di certi strumenti critici? È una scelta che mette in evidenza che la cultura popolare non è un territorio privo di strutture, di retoriche e di ideologia; al contrario, è un campo denso di codici da decifrare e di simboli da analizzare; praticamente Giunta fa con Taylor Swift lo stesso lavoro che fa con Dante, di cui è esperto: fornisce al lettore di giornale gli strumenti interpretativi che permettono di vedere ciò che da solo non avrebbe percepito. Credevamo che Taylor Swift fosse solo un’icona commerciale: nelle mani di Giunta diventa un prisma attraverso cui si rifrangono questioni di gusto, mercato, ideologia e racconto pubblico. Il professore, in questo gioco di prossimità e distanza, dimostra che la cultura popolare si merita il rigore dell'analisi, senza perdere un briciolo della sua fascinazione. Ma la domanda iniziale resta: perché lo fa? Una risposta può essere nel titolo Il pop e la felicità: la cultura popolare, secondo Giunta, dà felicità. Un'altra la ritroviamo nell'introduzione, dove Giunta dice che ha passato metà della sua vita "specchiando le mie idee e i miei sentimenti nelle immagini e nei suoni dei prodotti che in seguito avrei imparato a chiamare pop" mentre l'altra metà l'ha passata "a leggere libri e ad assimilare quel genere di conoscenza non-pop che è in prevalenza amministrata dalla scuola, e che è fatta soprattutto di cose che appartengono al passato, tanto più prestigiose e, si suppone, formative quanto più sono remote nel tempo". Si avverte come un velato rimpianto, soprattutto in questa frase, e la segreta speranza che gli articoli raccolti in questo libro vadano finalmente in mano ai lettori giovani, magari ai suoi studenti, dopo essere stati distrattamente giudicati dai lettori boomer dei quotidiani sui quali sono usciti. Il paratesto ci fornisce altri indizi: una bibliografia raffinata nelle note, e un esergo che costringe a interrogare ChatGpt: "Datemi le vostre stanche, povere, umiliate masse che sognano di respirare libere, i miseri relitti delle vostre coste affollate. Vengano a me i senzatetto, gli scossi dalle tempeste: e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata" (Emma Lazarus, Il nuovo Colosso). Un esergo che concentra in poche righe la tensione tra promessa e realtà, tra felicità annunciata e felicità raggiunta. La poesia fu scritta, nel 1883, per raccogliere fondi destinati alla costruzione del piedistallo della Statua della Libertà, immaginata non come simbolo di potenza, ma come "madre degli esuli", accogliente verso le masse oppresse che aspirano a una vita migliore. Ecco il gesto di apertura che diventa paradigma della felicità come diritto, come possibilità di riscatto, e fornisce al lettore un contrappunto morale alla cultura pop contemporanea. Lazarus offre un modello di mito fondativo moderno: un simbolo universale, capace di parlare a tutti, senza esclusioni. Il pop osservato da Giunta costruisce felicità seriali, effimere e consumistiche; la poesia ricorda che dietro a ogni promessa di felicità c’è un’istanza più alta, collettiva, etica. E Giunta solleva la sua fiaccola, scegliendo questi versi evidentemente per illuminarci e fissare il terreno di gioco del libro: la felicità è desiderio, promessa e avventura culturale, ma può essere ingannevole.

A lettura ultimata, l’esergo induce a una riflessione critica sulla discrepanza tra ciò che la cultura pop mostra e ciò che effettivamente realizza, suggerendo che il compito dell’analisi è decifrare questa tensione, riconoscere le illusioni e capire i meccanismi di costruzione dei miti contemporanei. Sarà sfidante, per gli studenti di Giunta, capire – leggendo questo libro – che anche Taylor Swift o il Tenente Colombo, Radio Deejay, il Festival del Fitness di Rimini e Matteo Renzi possono essere un campo fertile di studio: non perché siano "alti" o "bassi", non perché il professore voglia legittimare la qualunque, ma perché ogni oggetto culturale – se non viene preso alla leggera – rivela una trama di significati, di funzioni sociali, di dispositivi retorici che vale la pena interrogare. La cultura pop, in questa prospettiva, è un laboratorio pragmatico: un luogo dove si formano gusti, si costruiscono identità e si consolidano miti. E se per caso gli studenti, crescendo, scopriranno che un film di Almodóvar è oggettivamente "meglio" di una commedia di Abatantuono, impareranno che c’è un tempo per i capolavori e un tempo (da perdere?) per ciò che capolavoro non è: che la formazione culturale passa anche attraverso i film di serie B, i romance e le canzonette, perché non si può vivere ascoltando Bach h24. La cultura pop non sostituisce quella alta, né la banalizza: la affianca, a volte la disturba, la completa, altre volte la mette in discussione. Il senso delle forme culturali – ci dicono Barthes, Enzensberger, Eco e Giunta – non sta nella loro supposta nobiltà, ma nella loro capacità di farci vedere il mondo in modo più nitido, o più storto, che a volte è la stessa cosa.
Il professore di Letteratura fa continuamente capolino, a pagina 53 per esempio: "Pensavo di chiudere queste chiacchiere sull'Eurovision con i versi finali di 'Vento e bandiere', quelli in cui Montale contempla da lontano un villaggio che si prepara a celebrare una festa, mentre il sole sta per tramontare. Ma poi mi è sembrato un po' fuori tono, anche retorico, per una manifestazione che dalla retorica non è stata immune (i testi letti/recitati da tre presentatori sono stati per lo più insoffribili, con le loro pippe sulla fratellanza e l'inclusione, mancava solo la resilienza: diosanto è una gara!). Poi un amico mi ha ricordato un epigramma di Coleridge: 'I cigni cantano prima di morire: non sarebbe male se certe persone morissero, prima di cantare'". Alla ricerca del modo corretto – soprattutto che non appaia accademico – di parlare di canzonette, Claudio Giunta pattina su un ghiaccio sottile. Ma è bravissimo a schivare i trabocchetti, per esempio omette di citare la celebre frase di Marcel Proust sulle canzoni: ancorché profondamente vera, è talmente logorata che non la si può più né leggere né sentire. Ma il professore non resiste e, in chiusura del capitolo sul Festival dell'Eurovision, il Montale che non voleva citare gli scappa dalla tastiera del pc. Poi si pente, a pagina 75: "se non sono simpatici i professori che flirtano col kitsch con troppo trasporto, lo sono anche meno quelli catafratti nel pregiudizio scolastico, perciò maldisposti nei confronti di qualsiasi prodotto artistico che non rechi con sé l'aura della Tradizione o del sapere accademico". In Contro l'impegno (2021) Walter Siti dice che la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato, più si prova a piegarla per "veicolare un messaggio" più lei sfugge e porta in superficie ciò che nemmeno l'autore sapeva di sapere. E se accadesse anche per la cultura popolare? Se si cerca a tutti i costi di farle dire qualcosa di "pregnante" o "profondo" e lei si ribella, ricordandoci che il piacere e il senso non sempre coincidono? Orietta Berti intellettualizzata da Tommaso Labranca o Celentano da Edmondo Berselli non smettono di essere refrattari a ogni messaggio imposto: Celentano ha i suoi, di messaggi, che bastano e avanzano; alla Berti piace semplicemente cantare, con quella bella voce che si ritrova, senza alcun bisogno di essere interpretata e spiegata. Ma Giunta ci ricorda che, soprattutto quando è frivola, la canzone è uno dei mezzi in cui una società deposita i suoi modi di sentire. E che per questo, proprio per la sua volatilità, richiede uno sguardo che sappia attraversare ciò che passa per cogliere ciò che resta. Così, nel capitolo di questo libro che più sta a cuore all'autore, "Che cos’è successo alle canzoni", Giunta affronta il mutamento della canzone leggera con il passo del filologo che, forte dell’addestramento esercitato su Dante, prende sul serio ciò che per tradizione non si è mai preso sul serio. Nulla invecchia più rapidamente del pop, e dunque nulla è più arduo da interpretare a distanza di tempo: la canzone, dice Giunta, è linguaggio esposto alla corrente dei giorni, impastato di riferimenti immediati, di dettagli effimeri, di allusioni che evaporano non appena si spegne il clima culturale che le aveva rese trasparenti. Come accade ai passi più vernacolari della Commedia, anche la canzone pop ha bisogno di glosse, di note a margine, di una ricostruzione dell’atmosfera che la rese possibile. Giunta fa notare che un tempo la canzone aspirava alla chiarezza: voleva raccontare qualcosa, e lo voleva raccontare con parole che tutti potessero capire. Oggi, invece, la canzone sembra volersi sottrarre al regime della comunicazione: sfilaccia il senso, allude più che dire, si compiace di una certa oscura ambiguità (mi è parso strano che, a questo punto, non citi Battiato). Ed ecco il paradosso filologico: più la canzone si fa ermetica, più pretende di essere consumata come puro flusso fonico, meno diventa interpretabile per il futuro. L’opacità contemporanea, lungi dal conferirle una dignità poetica, la condanna a un’estinzione rapida, perché senza contesto il testo non regge. Dove un verso di Dante – anche oscurissimo – può essere riconquistato attraverso il lavoro di interpretazione, la canzone che accumula giochi fonetici, anglicismi casuali, spezzoni di slang di quartiere, diventa pressoché indecifrabile il giorno dopo la sua uscita. La promessa di immediatezza, che è la forza del pop, diventa così anche la sua condanna filologica. Il pop, insomma, non si limita a invecchiare rapidamente: si fossilizza, si pietrifica quasi subito, e richiede un lavoro di scavo che solo un dantista – con la pazienza dello specialista del testo – può tentare di compiere. Alla fine, ciò che Il pop e la felicità ci restituisce non è soltanto un panorama curioso di canzonette, fenomeni televisivi e icone del pop contemporaneo, ma soprattutto un modello di approccio al mondo culturale. Al di là del contenuto immediato, il libro mostra con chiarezza come si possa osservare, decodificare e comprendere ogni prodotto culturale con rigore, curiosità e perfino rispetto per le sue dinamiche interne. È il metodo Giunta, la sua intelligenza, la capacità di farci leggere il presente con strumenti analitici solidi e insieme attraenti, a rendere il libro prezioso: una lezione su come prendersi sul serio senza prendersi troppo sul serio, e su come il pop – anche il più effimero e frivolo – possa insegnarci qualcosa sul mondo, sui gusti, sulle ideologie e su noi stessi.