Cosmologia dell’invisibile

29 Luglio 2023

A chi avesse voglia di una lezione d’umiltà, basterà farsi un giro per i territori della fisica contemporanea. A dispetto dei radicati convincimenti di fine Ottocento, secondo cui la fisica aveva raggiunto un’invidiabile completezza, i rissosi strepiti di inizio Novecento ruppero ogni illusione. È probabile che, a loro volta, le nuove generazioni, a lavoro per colmare le insospettate lacune, credessero di trovarsi a un passo dal compimento. Eppure, a cento anni di distanza, più si va avanti in questo campo più cresce la percentuale di dati che ci mancano: il 95% circa, secondo le stime dei modelli ad oggi più accreditati. E il problema più grande è che non si sa dove guardare. Se non fosse bastata la ridda di misteri che ancora annebbiano il territorio della meccanica quantistica – e di lì tutti i paradossi, di gatti vivi e morti, e di monete che a grandissima distanza puntualmente si accordano sulla propria condotta – pare al momento che una delle chiavi per la comprensione del nostro universo sia un tipo di materia che nessuno degli strumenti attualmente in uso sarebbe in grado di rendere percettibile e quindi misurabile – non fosse per le sue relazioni ambigue con qualcosa che invece conosciamo piuttosto bene, la forza gravitazionale. Si tratta della cosiddetta materia oscura, la quale, in base alle stime odierne, rappresenterebbe più dei cinque sesti di materia complessiva disponibile nel nostro universo. 

A fare il punto su tutto questo è un recente libro di Ersilia Vaudo, Mirabilis (Einaudi 2023). Il testo offre una ricostruzione sintetica, in uno stile che aspira all’autoriale, degli snodi più rilevanti per la definizione degli attuali modelli astrofisici e cosmologici. Tra questi: lo sviluppo della meccanica newtoniana e la conseguente equiparazione dei moti celesti e terrestri; la pubblicazione nel 1905, a firma Albert Einstein, dell’articolo Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui il principio di relatività galileiana e il postulato di invarianza della velocità della luce vengono combinati in una teoria, la relatività speciale, che ha come principale conseguenza la caduta del concetto di simultaneità; la sua successiva intuizione, nel 1907, del principio di equivalenza, secondo cui essere vincolati al suolo in presenza di gravità è equivalente a muoversi nello spazio in una navicella che accelera, e viceversa trovarsi in caduta libera all’interno di un ascensore che precipita è equivalente a viaggiare in una navicella che si muova nello spazio a velocità costante; la formalizzazione di tale intuizione, nel 1915, attraverso la pubblicazione di quattro articoli, successivamente raccolti con il titolo Le equazioni di campo della gravitazione, in cui il campo di gravità viene identificato con lo spaziotempo (quest’ultimo ripensato quale struttura elastica, opportunamente modulata dalla presenza di materia ed energia); la messa a punto, a partire dagli anni Venti del Novecento, sulla base dei tentativi e delle riflessioni dello stesso Einstein, dei primi modelli cosmologici, sino all’ipotesi del Big Bang, suggerita da una serie di osservazioni sperimentali, come l’espansione delle galassie e la radiazione cosmica di fondo; la “spectacular realization”, nel 1979, a opera di Alan Guth, di un’ipotesi utile a risolvere alcuni dei problemi aperti dallo scenario del Big Bang, vale a dire il modello di inflazione cosmica, secondo cui l’universo, nelle sue primissime fasi di vita, avrebbe attraversato una fase di espansione rapidissima in grado di spiegarne la vastità e l’omogeneità rispetto alle condizioni prossime al Big Bang; le bizzarre conseguenze che l’equazione di Dirac, introdotta dall’omonimo fisico britannico nel 1928 come punto di congiungimento tra relatività speciale e meccanica quantistica, sembrava implicare circa l’esistenza, accanto a ciascuna particella di materia sino ad allora nota, di una “gemella” di antimateria dotata di pari massa ma carica opposta.  

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Come si anticipava, l’impressione che se ne trae – al di là dei meritevoli sforzi di attori e attrici che hanno ricoperto un ruolo cruciale negli sviluppi di tale branca di ricerca della fisica contemporanea – è che la messe di dati, formalismi, ipotesi, modelli accumulati non consente di sciogliere un complessivo senso di spaesamento: “Nella storia che ne emerge, l’invisibile è la regola. Ciò che possiamo osservare, solo un’eccezione […] Siamo quindi immersi, più o meno consapevolmente, in una realtà cosmica che non si manifesta, che non possiamo vedere” (p. 132). Ed è in effetti un problema di visione quello che attraversa gli sviluppi più recenti della disciplina, se è vero che le osservazioni astrofisiche finora raccolte, perlopiù basate su tecnologie (telescopi, rivelatori, strumenti) utili a misurare la radiazione elettromagnetica nello spettro inaccessibile a noi esseri umani, nulla possono dirci su quel 95% cui sopra si faceva riferimento, mentre una qualche risposta potrebbe forse giungerci dalla gravità. 

Se pure ci si concentra sulla sola materia, si trova che appena il 15% di essa corrisponde a quella che forma l’insieme di galassie osservabili, con i loro miliardi di stelle, pianeti, comete, meteoriti e asteroidi. Il restante 85% costituisce a tutt’oggi una presenza invisibile. Le prime ricerche a dar credito all’ipotesi della materia oscura risalgono agli inizi degli anni Trenta del Novecento, quando l’astronomo svizzero Fritz Zwicky si avvide di alcune incongruenze sui calcoli relativi alla massa di un agglomerato di galassie a diversi milioni di anni luce dalla Terra (le cosiddette galassie della Chioma). La stima della massa di tali agglomerati venne effettuata secondo due metodi: il primo teneva conto della loro luminosità; il secondo, basato su un teorema della meccanica statistica, calcolava la massa delle galassie a partire dalla loro velocità. Zwicky si rese allora conto che la velocità di moto delle galassie risultava essere molto più significativa rispetto a quella compatibile con la quantità di materia visibile osservata. Fu così che, nel 1933, egli avanzò l’ipotesi secondo cui le galassie, e così lo spazio intergalattico, fossero permeati da un nuovo tipo di materia dalle proprietà affatto singolari, da lui denominata Dunkle Materie (materia oscura) – là dove il termine “oscura” sta a indicare che essa, oltre a non emettere né assorbire alcuna forma di radiazione elettromagnetica, sembrerebbe non interagire con la materia ordinaria, se non appunto attraverso la gravità. Tale ipotesi venne accolta con una certa diffidenza, fin quando, quasi quarant’anni dopo, l’astronoma Vera Rubin e il suo collega Kent Ford si accorsero di una seconda anomalia: mentre la relatività generale, e così le osservazioni registrate sul Sistema Solare, implicano che la velocità di rotazione delle stelle nelle galassie cresca in senso proporzionale dal centro alla periferia, i dati da loro raccolti sembravano indicare che, da un certo punto in poi, la velocità di allontanamento delle stelle dal centro rimanesse costante. Di nuovo, era come se ciascuna galassia fosse permeata da una componente non visibile ma gravitazionalmente attiva. 

L’ipotesi della materia oscura verrà infine accettata negli anni Ottanta, dopo la morte del suo primo fautore, sebbene ad oggi non esista un modello considerato soddisfacente, atto cioè a spiegarne l’origine e il comportamento. Ciononostante, come ricorda Vaudo nel capitolo conclusivo di Mirabilis, i modelli attuali offrono alcune importanti stime: estesa nello spazio intergalattico e nelle galassie stesse, conferirebbe loro la struttura che rileviamo, dacché si suppone svolga un ruolo decisivo nella formazione ed evoluzione dell’universo. Risulterebbe inoltre più stabile della materia ordinaria, poiché si ritiene non interagisca con il campo elettromagnetico, portando così alla formazione di strutture compatte più durature. La sua influenza gravitazionale, tra l’altro, avrebbe consentito alla Via Lattea e alle altre galassie di sopravvivere all’espansione complessiva dell’universo, impedendone la disgregazione. 

L’interpretazione della materia oscura è oggi al centro di un vivace dibattito, affidato soprattutto a chi lavora nel campo della fisica delle alte energie. Il modello cosmologico standard, che offre una sintesi di quanto sappiamo sulla formazione e l’evoluzione delle strutture cosmiche, propone di concepire la materia oscura come composta di particelle “fredde”, a bassa energia, debolmente interagenti. Ma non mancano proposte alternative, come i cosiddetti modelli di dinamica newtoniana modificata (cui ci si riferisce con l’acronimo MOND), che tentano di introdurre variazioni sul secondo principio della dinamica, quello cioè che lega l’effetto di una forza esercitata su un sistema al prodotto tra la sua massa e l’accelerazione impressa. Questi modelli provano così a rendere conto delle anomalie menzionate eludendo ogni riferimento alla materia oscura (per un’interessante discussione sul tema, si veda l’articolo dell’astrofisico e scrittore Ramin Skibba). O ancora, progetti avveniristici, quale quello avanzato dai fisici Lasha Berzhiani e Justin Khoury, che tentano di conciliare le due prospettive. 

Ma la partita su come si sia originato l’universo, su quale la sua evoluzione e sulle componenti che vi figurano, è tutt’altro che chiusa. A rendere la scommessa ancora più ardimentosa sta il fatto che, oltre alla materia oscura, sembrerebbe necessario, affinché i modelli cosmologici restituiscano dei parametri compatibili con le osservazioni sperimentali, postulare l’esistenza di una forma di energia oscura che agisce quale pressione negativa, favorendo l’espansione dell’universo. Questa forma di energia, che nell’ipotesi si ritiene mantenga la stessa densità nello spazio e nel tempo, oltre a permeare il cosmo nella sua interezza, costituirebbe il 69% circa della densità energetica totale. Insomma, la sfida volta a rintracciare l’origine e le proprietà di materia ed energia oscura è tutt’altro che completata, e questo tanto più perché “[l]e componenti oscure emergono dal cosmo mostrandosi attraverso i propri effetti, lasciando qualche indizio qua e là, ma nessuna prova della propria natura, finora” (pp. 145-146). Questo, va da sé, in parte solletica, in parte sgomenta. Con tutte le dovute discrepanze, vale quanto Julien Green sostiene in Parigi (Adelphi 2023, p. 14), allorché ricorda che “[p]er un romanziere ogni esistenza, foss’anche la più semplice, serba il suo irritante mistero, e la somma di tutti i segreti che una città racchiude ha qualcosa che a volte lo stimola e a volte lo schiaccia”.

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