L’autobiografia erratica di Giorgio Parisi

27 Marzo 2023

In Doppiare il capo (Einaudi, 2011), John M. Coetzee sostiene che qualsiasi autobiografia sia sempre al contempo una narrazione, come la scrittura sia sempre al contempo autobiografia. La descrizione della propria storia è quel momento in cui chi scrive si trae fuori da quella sorta di dedalo caotico che ogni esistenza inevitabilmente è per attribuirvi una qualche prendibile linearità. Così intesa, l’autobiografia è innanzitutto un’attività biografica, mediante cui la parola consente al soggetto di “ritrovarsi” in virtù di una selezione accurata del materiale di prima mano che ha a disposizione. Genere esistenziale prima che narrativo, sempre a metà tra fiction e non-fiction.

Questa pratica del prodursi via via di un soggetto attraverso una ridda ben scelta di fatti ed eventi riluce con forza esemplare in Gradini che non finiscono mai. Vita quotidiana di un Premio Nobel (La nave di Teseo, 2022) scritto da Giorgio Parisi assieme a Piergiorgio Paterlini. Eppure, ben più che autobiografia, il libro riesce in un’attività particolarmente stimabile: quella di “ritrovare” il soggetto non in una sua presunta unità, ma nella serie ampia e complessa di incontri che hanno costituito la sua identità. In effetti, quantunque offra un resoconto aritmico di un’esistenza sobria e ordinata (l’estate ad Anzio, la vigilia in famiglia, la settimana bianca sul Gran Sasso, le Scuole di Fisica a Cargese), il libro non si esaurisce in un memoriale puntinato e disorganico di episodi, avvicendamenti e ricordi. Piuttosto, gli autori si profondono nel costante sforzo di mostrare come la storia dell’individuo Parisi sia stata segnata in primo luogo da una innata capacità di farsi terreno d’incontri, spazio sempre fertile per un insieme eteroclito di attori mai riconducibile a un protagonista solo.

Si potrebbe in tal senso giocare Parisi contro sé stesso, allorché, nel presentare il dibattito dei primi anni Settanta su come concepire l’infinitamente piccolo e le sue dinamiche, si collocava nella schiera di quanti ritenevano di dover dare preminenza all’attività delle singole componenti – ovvero, quelle che allora venivano identificate come particelle elementari – e le relative leggi del moto, di contro a quanti andavano propiziando una fisica dei moti collettivi in cui la singola particella s’incastonava in un “tutto autoconsistente comprensibile nella sua interezza” (p. 118). Si potrebbe quindi chiudere già qui il presente scritto con un prorompente elogio della complessità, di cui, peraltro, il fisico romano è stato tra i promulgatori più risoluti e incisivi, non fosse che il testo presenta più di qualche dettaglio gustoso, che qui merita di essere segnalato. 

Anzitutto, un’infanzia e un’adolescenza tendenzialmente solitarie, senza significativi strappi o pungenti sofferenze, contrassegnate da lunghi pomeriggi di lettura ed esplorazioni al microscopio, eccezion fatta per un paio di peculiari frequentazioni estive. Il giovanissimo Parisi si accompagnava perlopiù a due anziani signori, un professore e un esperto giocatore di dama, cui nel 1955 si aggiunse una prozia trasferitasi da Palermo a Roma alla scomparsa del coniuge, così inscenando il siparietto di “una signora di 80 anni e un ragazzetto di 10 che giocano a canasta in un convento di suore” (p. 21). Segue poi il periodo di formazione vera e propria – una passione per la storia della matematica, prima, e per la storia della fisica, poi – che si concreta in un rapporto sempre più stretto, tra il primo e il secondo anno del corso di laurea in fisica, con i classici del Novecento, da Paul Dirac a Enrico Fermi, passando per Erwin Schrödinger, il tutto condito da frequentazioni via via più assidue con i colleghi di corso e da uno spiccato richiamo per la fisica teorica: “Eravamo o no gli eredi di Enrico Fermi ed Ettore Majorana?” (p. 69). Si fa allora strada una postura, di vita prima che teoretica, in cui gli incontri e gli scambi – che certo eccedono il solo campo della fisica, per toccare gli ambiti più eterogenei del cinema, dell’arte, della politica – assumono un ruolo preminente non soltanto nello sviluppo dei singoli studiosi coinvolti, ma soprattutto nella formazione di un gusto collettivo fatto di “libri da leggere, studiare, persone con cui lavorare, parlare, divertirsi anche” (p. 55).  

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Dopo il conseguimento della laurea nel 1970, sotto la supervisione del fisico teorico Nicola Cabibbo (“quello che è stato il mio maestro”, p. 68) con una tesi su alcuni problemi connessi al bosone di Higgs, iniziano le peregrinazioni di Parisi: Frascati, New York, Parigi, Pechino, per rientrare a Roma solamente nel 1981, a Tor Vergata, e infine alla Sapienza nel 1992. Un nomadismo che ben si concilia con uno stile, pienamente rivendicato dal fisico romano, volto a raccordare idee, metodi e principi provenienti da più branche della fisica teorica, oscillando tra meccanica statistica e fisica delle alte energie. Oltre al diletto per queste contaminazioni tra ambiti del sapere affini, eppure spesso disgiunti, l’intento era soprattutto provare a offrire una visione più organica della disciplina, volta cioè a “ristabilire l’unità della fisica teorica, che spesso era invece frammentaria” (p. 117). Così si susseguono i progetti e le collaborazioni più disparate, tra cui: i lavori ai Laboratori Nazionali di Frascati attorno alla fisica degli acceleratori; gli studi in cromodinamica quantistica (la teoria che descrive le cosiddette interazioni forti), culminati nella formulazione delle equazioni Altarelli-Parisi (contributo decisivo per la fisica teorica, che aveva il compito di spiegare il rapporto tra una variazione dell’energia e un’associata variazione dei costituenti del protone); l’analisi del comportamento dei vetri di spin secondo il metodo delle repliche, l’apporto più originale, ad avviso dello stesso Parisi; infine l’esplorazione, a cavallo tra il 1980 e il 1990, assieme a Marc Mézard e Riccardo Zecchina, di temi quali ottimizzazione, comportamenti collettivi, sistemi disordinati, tutti riconducibili al più ampio ambito della fisica dei sistemi complessi. 

E, di Parisi, merita qui sottolineare il ripetuto elogio di una vita al plurale, quando ribadisce il pervicace convincimento per cui il nodo vitale di una esistenza, o meglio, dell’esistenza, sia il disordine; e assieme a questo, il tentativo di mostrare le somiglianze di famiglia tra concetti, tutt’altro che ossimorici, come disordine e complessità. Non c’è pezzo di mondo, qualunque sia l’ambito che s’incarica di studiarlo, che non si dia come interazione tra entità che cercano equilibri e al contempo sono sempre pronte a disfarli. E questo vale in primo luogo come richiamo, tanto minaccioso quanto alfine rinfrancante, a non cercare l’ordine a tutti i costi, a seguire piuttosto le tracce di quella congerie indisciplinata di elementi la cui condotta non si adatta alle previsioni più facili. Detto altrimenti, la complessità spiazza per scelta professionale, oltre che per istintiva proclività alla scapigliatura. Perché la proprietà più intrigante dei fenomeni fisici, biologici e sociali, spiega Parisi, è quella di procurarsi gradi di complessità, vale a dire, mettersi nella condizione di “poter passare velocemente da uno stato all’altro” (p. 240). 

Inutile pertanto ricercare trame semplici, buone forse a tirar su un racconto mediocre, ma incapaci alfine di dir alcunché sul mondo. E sembra una contro-teoria del romanzo senza trama, o meglio, di un romanzo che fa dell’inanticipabilità la sua caratteristica vitale. E allora, scrive Parisi, in ciò più vicino a Pirrone che a Epitteto, la dinamica della realtà ci esorta a rinunciare “alla possibilità di calcolare ogni singolo stato del sistema” (p. 240) – e su questo, nel romanzo, vale la lettura di Mario Lavagetto della Comédie humaine, sistema assai complesso, in cui ciò che più parla sono gli errori, le esitazioni e le incertezze. Seguire i fili dove s’aggrovigliano, senza la compulsione alla facile determinazione delle coordinate che la fisica newtoniana si accordava, perché credeva a Dio, massimo imbastitore di trame (cfr. pp. 271-272). La realtà rimane inosservabile dall’esterno e si lascia attraversare per sentieri che s’interrompono di continuo e si manifesta sotto forme la cui descrizione richiede linguaggi diversi, spesso inconciliabili: “[F]ormulazioni in cui esistono le onde, altri in cui esistono particelle” (p. 272).

Da tutto questo, certo, non emerge alcun credo scettico, ma un invito alla “fertilizzazione incrociata dei campi di ricerca, anche apparentemente lontani tra loro” (p. 241). Insomma, una molteplicità di ingressi alle stesse dinamiche per indurle a tradirsi, per cercare di strappare loro un frammento di confessione, ancorché involontaria, sul prossimo stato in cui intendono presentarsi. E da questa concezione della conoscenza si ricava persino una traccia della sua evoluzione: non si tratta di un progresso, men che meno lineare, ma di un allargamento dello “sguardo” (p. 241) quando riesce a comprendere quanti più nodi possibile negli intrecci che compongono il reale. Un’evoluzione, questa, che della conoscenza non fa puro rispecchiamento del mondo, bensì la trasforma in potenza, là dove “capire ciò che ci sta attorno significa anche non subirlo passivamente” (p. 267). Insomma, conoscere, capire, fare ingresso nelle cose, con uno sguardo che ne penetri i segreti – “Insight, dicono gli inglesi. ‘Vedere dentro’, comprensione profonda” (p. 292) – e di lì sapervi trarre un’energia che possa riversarsi in ogni campo, compreso l’impegno politico, che qui si è colpevolmente sottaciuto, ma che per Parisi ha costituito un fil rouge esistenziale. Ma forse l’insegnamento politico più perentorio e avvincente sta proprio in una teoria della conoscenza come allargamento intensivo di alleanze, di cui Gradini che non finiscono mai offre esemplificazione icastica raccontando una vita.  

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