Dare parola al trauma

28 Marzo 2023

«L’essenziale iniziò da lì, da quelle stanze afose e buie dell’ospedale di Pisa dove il mondo esterno assunse i contorni di un organismo gigantesco, sleale, imprevedibile, con cui dover fare i conti per forza», afferma la protagonista del romanzo autobiografico di Alice Cappagli, Ricordati di Bach (Einaudi, 2020, p. 7). Si tratta di una bambina di 8 anni che, dopo un incidente d’auto, si ritrova in ospedale con gravi lesioni al nervo della mano sinistra e che, nonostante questo, diventerà violoncellista professionista. Nelle sue parole una fotografia vivida di un’esperienza traumatica, il mondo che diventa “un organismo sleale e imprevedibile”.

Nell’ultimo film, guarda caso anch’esso autobiografico, di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio, due fratelli adolescenti apprendono dalle labbra asettiche di un medico di un ospedale di provincia che entrambi i genitori sono morti in casa per un incidente, una fuga di gas. Alla notizia, il più grande dei due replica: “È tutto qui?”. Altro fotogramma di un’esperienza traumatica, che, irrompendo all’improvviso nella vita di due giovani, lascia letteralmente “senza parole”.

A chi fosse tentato di relegare il trauma lontano da sé, confinandolo a una cerchia di vittime che lo subiscono e di terapeuti che se ne occupano e prendono cura, basterebbe accedere a una delle molteplici fonti di informazione oggi disponibili. Ogni giorno apprendiamo di madri che uccidono i propri figli, di stragi nelle scuole ad opera di adolescenti armati di fucili e deprivati di parole, di uomini, donne e bambini che affogano in mare per sfuggire alla guerra nella speranza, molte volte infranta, di raggiungere porti sicuri e l’elenco potrebbe continuare a lungo. “Ma questi non siamo noi”, capita talvolta di dire forse a ciascuno, magari nel segreto della nostra individualità, quando veniamo a conoscenza di tali accadimenti. 

Invece, come scrive Clara Mucci «ai confini dell’irrappresentabile, sul bordo dei buchi del tessuto traumatico, narrare il trauma può riparare il dolore e dar voce al silenzio» (Trauma e perdono, Raffaello Cortina Editore, 2014, p. 222).

E allora, alle volte sono proprio le “finzioni” artistiche a permetterci di abbattere le nostre difese e a farci riconoscere che il trauma, che sia per incidente o per violenza, per maltrattamento o abuso, su singoli o su collettività, è da sempre intrecciato alla vita umana, ci riguarda tutti. Assumersi la responsabilità di un tale riconoscimento, nella misura per ciascuno possibile, è pertanto compito etico del singolo e della collettività.

Declinazioni del trauma. Esiti destrutturanti e tentativi di simbolizzazione (FrancoAngeli, 2023), della psicoanalista lacaniana Laura Porta, è dunque, in questo territorio scabroso, un saggio prezioso, innanzitutto perché animato dal desiderio di far chiarezza sul tema in oggetto, il trauma, parola che, entrata ormai pienamente nel linguaggio comune, rischia di perdere la propria specificità. In verità, come afferma l’autrice, non di trauma, bensì di traumi si può e si deve parlare, a sottolineare la necessità di abbracciare una dimensione la cui pluralità e specificità va colta nelle storie dei singoli soggetti.

In linea con l’interpretazione che l’autrice dà della pratica psicoanalitica come di una via di ricerca, il suo libro è un approfondimento del tutto originale sul concetto di trauma. Come scrive Aldo Becce nella Prefazione «questo libro è un perforamento, trafigge e si rende ferita teorica indispensabile» (p. 11).

Partendo da alcuni concetti cardine della psicoanalisi lacaniana, Porta, mentre traccia la propria via sul trauma, incontra e accosta altri sentieri e teorie psicodinamiche, così come possibilità terapeutiche non analitiche, offrendo al lettore un panorama vasto e prezioso per la ricchezza degli spunti di riflessione.

Inoltre, la chiarezza espositiva di concetti complessi e l’intreccio costante tra la dimensione teorica e gli esempi tratti dalla pratica clinica dell’autrice e dalla letteratura fanno sì che il lettore, sentendosi un compagno di strada, sviluppi la sua stessa passione per il cammino.

Se la letteratura è generalmente concorde nel definire il trauma un’esperienza che sovrasta il soggetto, che lo lascia inerme e nell’impossibilità di rappresentare quanto gli sta accadendo e che quindi può essere ricostruita solo a posteriori – la Nachträglichkeit di Freud – Lacan inventa, per definirlo, un neologismo: troumatisme, modificando la parola francese traumatisme. Dove il Trou al posto del trau indica un buco, un vuoto, a significare che il trauma è incontrare un’assenza, qualcosa di cui è impedita la simbolizzazione.

In continuità con l’accurata ricostruzione etimologica della parola, da cui emerge la duplice radice di passaggio salvifico e di ferita mortale, la prima e fondamentale distinzione che Porta traccia è tra traumi “strutturanti” e “destrutturanti”, esplicitando che è sui secondi che verte la sua riflessione. «I primi sono necessari per il cucciolo d’uomo, come il trauma benefico del linguaggio […] Si tratta di traumi che umanizzano la vita, che rendono la vita umana abitata dalla mancanza e in quanto tale dal desiderio. I secondi invece sono i traumi che incontriamo nella clinica, possono avere una portata soverchiante e originare diverse forme di sofferenza psichica» (p. 13).

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A marcare la differenza, il registro del simbolico che se dai primi viene istituito (ad esempio, con l’acquisizione del linguaggio), viene invece negato dai secondi, che lasciano, come portato, silenzio e muta sofferenza. Si tratta, in particolare, di traumi di natura relazionale che vanno dalla mancata sintonizzazione emotiva della madre con il bambino nei suoi primi anni di vita, all’abbandono e alla trascuratezza infantile, agli abusi sessuali, fino ai traumi generati dall’odio personale o collettivo. La pratica psicoanalitica raccoglie dunque la sfida che il trauma porta con sé: «trasformare la tragicità dell’esistenza, dei suoi cattivi incontri e degli incidenti inassimilabili in desiderio» (p. 94).

Il libro si apre con una ricostruzione della storia della psicoanalisi, dalle sue origini fino agli sviluppi più recenti, alla luce del posto che il concetto di trauma occupa in ciascuna teoria. D’altronde, come non manca di sottolineare Porta, «la questione del trauma reale o fantasmatico sorge fin dalle origini della psicoanalisi e sembra legata […] anche al suo futuro» (p. 17).

Leggere le diverse declinazioni che a partire da Charcot fino alle più recenti svolte relazionali e neuroscientifiche sono state date al concetto di trauma, d’altronde, ci porta non solo ad avere un quadro d’insieme degli sviluppi della storia della psicoanalisi, ma anche a comprendere come psicoanalisi, storia, sociologia e antropologia siano sempre indissolubilmente intrecciate nel cammino dell’uomo. Se infatti le nuove teorizzazioni, come il metodo delle libere associazioni e il concetto di abreazione elaborati da Freud, hanno dato nuova e diversa dignità al paziente e hanno posto, per la prima volta nella storia della medicina, l’accento sulla relazione (tra medico e paziente) come fattore terapeutico, nondimeno gli eventi della Storia, ad esempio le due Guerre mondiali o la guerra del Vietnam, hanno “imposto” alla psicoanalisi e alla psicologia rielaborazioni concettuali per tentare di comprendere e curare i nuovi sintomi.

Senza per nulla sottovalutare il disastro provocato dal trauma reale e relazionale, che, come già Ferenczi aveva evidenziato, provoca la perdita della fiducia nell’altro e nel mondo esterno, l’autrice ci mostra come lo specifico della psicoanalisi, ciò che la rende una pratica “sovversiva”, è di essere un lavoro che si rivolge alla singolare risposta del soggetto, un lavoro teso ad attraversare e a modificare quella logica di funzionamento psichico che Lacan ha chiamato fantasma.

La dimensione fantasmatica del trauma risulta centrale tanto in Freud quanto, seppur con articolazioni differenti, in Lacan e il secondo capitolo del libro ci introduce a questo tema.

Per Lacan, che definisce il fantasma “la logica (inconscia) di una vita”, ovvero la risposta soggettiva che ciascuno dà all’incontro con la mancanza dell’Altro, il fantasma rappresenta il punto di intersezione tra soggettivazione e trauma. Come scrive Massimo Recalcati «una biografia può essere costruita in termini psicoanalitici solo attraverso il fantasma inconscio del soggetto» (p. 53).

Se infatti il fantasma è un mito che protegge il soggetto dall’impatto con il reale del trauma, assolutamente indispensabile alla vita eppure passibile di degenerare in una chiusura che ne limita le possibilità creative, a sua volta il trauma può dare luogo a diversi sviluppi nella vita di un soggetto. Può essere occasione di trasformazione e quindi fonte di rinnovata vitalità, oppure, nel caso dei traumi destrutturanti, sui quali la ricerca di Porta si concentra, può far vacillare il fantasma con conseguenze potenzialmente fatali che minacciano la tenuta dell’involucro narcisistico del soggetto.

Gli esempi clinici che l’autrice ci offre riguardano l’odio, che nella storia ha preso tragiche forme collettive, dalle persecuzioni razziali, alle torture, ai genocidi, oppure i lutti quando riaprono esperienze di abbandono dei primi anni di vita, oppure ancora l’abuso sessuale e la violenza.

Ispirate da una sensibilità clinica raffinata sono le pagine che Porta dedica al tempo preliminare e all’attesa da parte del terapeuta rispetto alla diagnosi. In particolare, lunga e attenta deve essere l’osservazione clinica dei fenomeni dissociativi che spesso si presentano nelle persone che hanno subito gravi traumi, per non giungere ad affrettate diagnosi di psicosi. Tra la rimozione, che rimanda a una struttura di personalità nevrotica e la forclusione, che indica un funzionamento psicotico, la dissociazione può essere infatti letta come un meccanismo di difesa trasversale alle due strutture.

Un tempo preliminare, dunque, in cui «poter riconoscere e sostenere il silenzio» (p. 72) di chi è stato ridotto all’afasia dalla dimensione soverchiante dell’esperienza traumatica, un tempo preliminare intessuto di pazienza e gentilezza – l’analista “benevolo e soccorrevole”, diceva Ferenczi – per non ritraumatizzare una seconda volta, per allestire le condizioni psichiche e relazionali per poter cominciare un vero e proprio lavoro analitico.

Dal silenzio alla parola è anche la via che viene tracciata nell’ultimo capitolo in cui Porta apre a una possibilità di una dimensione terapeutica non analitica. Scrivere di sé e dell’abuso sessuale subito, come ha fatto la filosofa Annie Leclerc nel suo Della Paedophilia e altri sentimenti (Malcor D’, Catania, 2015), è un tentativo di superare il trauma, quell’impossibilità a raccontare sia a se stessi che all’altro. Una via che in modo simile percorre anche il premio Nobel per la letteratura Annie Ernaux in ciascuno dei suoi libri: testimonianze autobiografiche dei traumi subiti che nel momento in cui sono resi comunicabili, diventano anche riconoscibili da sé e dagli altri. E la testimonianza – che sia quella di sé con sé attraverso la scrittura o quella dell’analista – è la parola che unisce tutte le vie di elaborazione dell’esperienza traumatica. «Non c’è trauma che, per essere curato, non richieda una narrazione. Che sia un’epopea letteraria oppure il racconto che il bambino abusato riesce a fare (quando riesce) a un adulto affidabile, ogni trauma ha bisogno di una storia per essere elaborato» scrive Vittorio Lingiardi, ricordandoci con Montaigne che «la parola è metà di chi parla e metà di chi ascolta» (Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri, Utet, 2019, p. 22).

E, conclude Porta, «La cura di una persona traumatizzata avviene, in un certo senso, anche grazie a un atto di riconoscimento del suo dire» (p. 90).

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