5 per mille

Dress Code 14. Anonimato

21 Giugno 2025

I mascheramenti servono a spettacolarizzare le performance, ma anche a esprimere dissenso per la troppa attenzione riservata all’immagine degli artisti, alle fattezze estetiche.

E allora, cosa succede quando si sceglie di non mostrarsi? In un’epoca in cui la corporeità è tutto – biglietto da visita, moneta social, pass per l’attenzione – scegliere di nascondersi equivale a un gesto radicale. Le maschere, in questo senso, non sono solo travestimenti da palco: sono dichiarazioni di guerra contro la pornografia dell’identità, contro l’ossessione per il corpo-esibizione. Sono una forma di protesta contro la personalizzazione forzata dell’arte, come quella attuata dal duo svedese The Knife che, nel 2006, con l'intento di mimetizzarsi completamente con la propria musica, indossava la maschera a becco di volatile dell'era della peste. In questo modo la maschera diventa azione pura e supera la categoria semantica umano/non umano per permettere all'artista di fondersi con la sua opera. A volte, questo gesto sfocia nella preservazione dell’anonimato.

Penso ai Daft Punk, in attività fino al 2021, che hanno nascosto il volto per circa 18 anni: prima con adesivi, poi calze e maschere di Halloween, infine con i celebri caschi da robot. La loro fama non si è costruita sull'estetica personale, ma sulla qualità delle performance e sulla musica elettronica perché le "peculiarità fisiche" pertengono, secondo il duo francese, ad altri ruoli dell'entertainment.

Anche in Italia vige l’anonimato spettacolarizzato. Myss Keta, regina mascherata della Milano da bere, indossa la mascherina dal 2013: un gesto queer, post-pandemico ante litteram.

E poi c’è il mio preferito, il napoletano Liberato, rapsodo contemporaneo, sarto di canti che, come ho già scritto su Doppiozero, cuce insieme pezzi di presente e passato, cantando e interpretando il sentire di una città.

Liberato ha conquistato fan da tutta Italia nonostante (o grazie a) il dialetto e il volto coperto. Inizialmente era bandana e cappuccio in stile Ultras – tra le sue estetiche di riferimento – poi è arrivata l'elevazione dell'ultimo live del 31 maggio 2025 al Circo Massimo di Roma, che, a mio modesto parere, ha rivoluzionato il panorama musicale italiano, lanciando un messaggio potente all'intero sistema artistico del Bel Paese.

Se la musica è di qualità, si vadano a far fottere social media, corpi da copertina e storie d'amore: un napoletano qualunque vi riempie il Circo Massimo e poi, nel 2026, pure il Maradona, senza che si sappia nemmeno il suo vero nome.

Paradossalmente, come ha fatto notare Selvaggia Lucarelli nella sua newsletter "Vale Tutto", l'Italia vive un momento infame per i live degli artisti autoctoni, gettati negli stadi senza riuscire a riempirli. Dopo le bagarre per aggiudicarsi il "pit oro" (la zona sottopalco), combattimenti con scalper (bagarini di Internet) e fan, i biglietti vengono venduti a 10 euro per evitare l'horror vacui.

Nell'era di Spotify, dove gli introiti derivano da live e merch, scommettere su grandi venue è economicamente promettente. Ma se l'estetica è posticcia, valida solo a mo’ di filtro su Instagram, e la musica è pensata solo per diventare virale su TikTok, non basta.

E così torniamo a Liberato, un progetto solido, le cui fondamenta sono l'indubbia genialità dell'artista, ma anche un team eccellente che ha sposato una visione per esportare la napoletanità come modo d'essere.

Se Napoli oggi vive un periodo d'oro – che si spera non sia una moda – è anche merito di Liberato, del regista Francesco Lettieri e della stylist Antonella Mignogna. Insieme hanno costruito un universo iconografico e vestimentario che amplifica il non-volto del cantante.

L'assenza di connotati di Liberato è resa ancora più marcata dall'universo di senso creato da Lettieri con film e videoclip – da considerare una vera e propria “serie” – e popolato da Mignogna, che nel live al Circo Massimo ha complessificato il gioco, passando dal nero del non-essere con un'identità menzognera, al bianco dell'essere, del voler secretare la fisicità per dare spazio all’essenza.

Il concerto di Liberato è un'esperienza catartica: nessuno sgomita per toccare il simulacro di fama e successo. A Roma Mignogna compie il salto definitivo con un’estetica che non distrae per incanalare le energie in un’armonia cosmica, veicolata dai visual di Weirdcore.

Il live del 31 maggio 2025 non è stato solo un concerto. È stato un dispositivo semiotico perfettamente orchestrato, dove la moda ha agito come codice e filtro in nome di una stratificazione simbolica “neo-misterica/astro-urbana”.

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Ogni capo d’abbigliamento, ogni tessuto, ogni drappeggio diceva: «Non guardare me. Vivi il momento.»

Il volto coperto di Liberato è uno schermo opaco, una maschera per metà di maglia metallica e per metà di tessuto rifrangente, la quale opera come segno che rifiuta di essere carne per diventare struttura. Liberato evoca l’alienazione dell’anonimato metropolitano – essere una persona persa in mezzo a tante – e il folklore misterico dei riti arcaici parte integrante della storia napoletana e delle sue commistioni con l’Oriente. Infatti, cappucci, veli e gli outfit delle coriste e del corpo di ballo richiamano una mistica cyber-orientale, che ammicca al nomadismo metropolitano e alle feste techno dove la perdita dell’identità individuale è, ancora una volta, mezzo di catarsi collettiva.

La giacca rigida, i pantaloni vissuti, i drappeggi dorati raccontano un corpo disposto a cancellarsi per proteggere il mito di Partenope, un guerriero post-apocalittico, sospeso tra eroismo distopico e sacralità, che vive in un immaginario a metà tra Dune di Villeneuve e un qualsiasi film di Jodorowsky girato nei Quartieri Spagnoli, nei pressi della “Sposa”.

Nel guardaroba simbolico di Liberato la parte principale è recitata dal, nomen omen, capospalla, elemento più visibile di un total look e, per la cui confezione, come ricorda il dizionario Devoto-Oli, è richiesta “particolare cura e competenza”. La prima giacca, in fibra ottica, è fulgida epifania: illumina senza rivelare, materializza l’aura di Liberato che si fa medium. La scritta LIBERATO ritagliata sulla schiena marca l’affrancamento dalle regole dello star system, dove il nome non serve a vendere un’immagine, ma a riconvertire la celebrità in relazione. Una rete neurale dove artista e pubblico si incontrano per affinità elettive, al di là dei generi, al di là delle geografie.

L’altro elemento cardine della grammatica del nascondimento vestimentario è la giacca biker in pelle iridescente realizzata da Francesco Bevivino su progetto di Mignogna. È nella rosa ricamata sul retro che l’oggetto cambia statuto: il fiore, ricamato in bianco e azzurro SSC Napoli a firma del brand Vienmnsuonn1926, non è solo decorazione né semplice riferimento calcistico. Il suo tratto grafico, netto e stilizzato, richiama esplicitamente l'estetica del tatuaggio che sembra parlare della diaspora affettiva di chi porta Napoli impressa sulla pelle anche da lontano. In questo gesto stilistico si condensa una forma implicita ma potente di resistenza estetica: una napoletanità diasporica che rifiuta l’omologazione, si afferma attraverso il segno, e rivendica il diritto a brillare, anche – e soprattutto – da lontano.

E poi c’è il colpo di scena. Al buio del concerto, la rosa si accende e si trasforma in costellazione: il dettaglio ornamentale della struttura diventa evento. Qui l’indumento diventa utopia, promette un altrove, una visione celeste (il Maradona?), come se il dress code dell’anonimato disegnasse un oroscopo urbano, in cui chiunque possa riconoscere il proprio segno affine. Liberato non indossa un costume, ma un firmamento – e il fandom, raccolto sotto quella luce, diventa galassia.

Una galassia fatta di voci lontane e corpi sparsi, dove si rinnova la verità più semplice e più potente della sua poetica: “nessuna persona è sola, se ascolta Liberato”.

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