Dress code 17. Scuola: torna il buon costume
Qualche tempo fa, per scherzo, un amico mi ha chiamata “scostumata” perché ho provato a intromettermi nelle lamentele sul degrado di Roma di alcune signore incontrate al parco. In quel momento non ci ho fatto caso; più tardi, da sola in macchina, ho iniziato a riflettere su quella parola e su quanto mi riportava all’infanzia.
Mio padre e i suoi familiari la usavano spesso come rimprovero. Bastava che non rispettassi l’etichetta con gli ospiti, che rispondessi con tono aggressivo o “supponente”, o che manifestassi il desiderio di indossare abiti ritenuti arditi: gonne corte, scollature, vestiti aderenti. Tutto ciò che strideva con lo stile inglese impostomi per almeno dodici anni.
Il mio essere scostumata era veramente così contrario alla morale, al pudore e alla buona educazione? O piuttosto era una deviazione dai codici familiari? Per capirlo ho ripercorso la storia stessa della parola.
Il prefisso s- ha valore privativo o peggiorativo di costume, la cui etimologia rimanda al latino consuetudo – abitudine –, trasformato dal volgare in costumen, anche per via dell’influenza del francese “coutume”, poi confluito anche in inglese come “custom”. La connotazione morale di condotta acquista corpo e materia tra il Seicento e il Settecento, quando costume caratterizza un certo modo di vestire, per affermare identità e appartenenza, in quanto segno più visibile di una cultura. Corrompere il costume, o addirittura privarlo del suo nucleo di senso, vuol dire intaccare un’abitudine morale e violare le norme del ben vestire, con indumenti giudicati spudorati o volgari. Un atto maleducato che può addirittura suggerire lo scarso rispetto per la sensibilità altrui, intesa come etica del senso comune. Non a caso, nel Codice penale l’offesa al pudore e alla pubblica decenza si riferisce a gesti abietti e lascivi relativi alla sfera sessuale, oppure, in ambito religioso, riguarda i riti indecenti svolti in pubblico. La legge tutela il sentire della collettività rispetto alla categoria bene/male dove l’adesione alle regole sociali è detta buon costume, per quasi cinquant'anni denominazione del corpo di polizia femminile incaricato di vigilare sulla pubblica moralità e sui reati previsti dalla Legge Merlin. Oggi le competenze sono confluite nelle squadre mobili che si occupano di reati a sfondo sessuale e sfruttamento della prostituzione, ma nel linguaggio comune la vecchia espressione continua a circolare. L’articolo 527 del Codice penale tutela la moralità pubblica, e appunto, il buon costume, dagli atti osceni visibili in un luogo pubblico e percepiti come offesa al pudore collettivo. Nel 2012 la Corte di cassazione ha depenalizzato l’esposizione della nudità, anche integrale, non necessariamente un atto osceno perché lede la compostezza e non il pudore. Un atto osceno deve essere necessariamente attinente alla sfera sessuale e compiuto in luogo pubblico abitualmente frequentato da minori. Negli altri casi i reati subentra la fattispecie della pubblica decenza (art. 726), dove a essere leso non è il pudore, ma “il naturale senso del riserbo”, limite posto alla libertà individuale in base al contesto storico e sociale.

La legge, del resto, non specifica i criteri di valutazione dell’offesa al buon costume perché la società muta costantemente ed è giusto che chi la interpreta traduca i canoni in relazione allo spirito del tempo. Dal Codice penale passiamo alle pene patite sui banchi di scuola, dove, ancor più che in famiglia, il “buon costume” si è sempre presentato come norma non scritta ma onnipresente. Non basta studiare o comportarsi correttamente: bisogna vestirsi “in modo decoroso”, non parlare a voce alta, non assumere posture considerate poco femminili, non mostrare troppa confidenza con i compagni maschi. Un intero sistema di regole implicite che disciplina i corpi molto più delle teste, definendo quali gesti, abiti o parole fossero accettabili e quali no.
Il paradosso è che nessun regolamento scolastico ha mai specificato davvero cosa fosse questo decoro: tutto veniva lasciato, così come per il Codice penale, all’interpretazione del corpo docente, alla sensibilità del momento, alla consuetudine. Così il “buon costume” diventa un dispositivo flessibile, pronto a colpire ogni deviazione dalla norma: una gonna troppo corta, un trucco troppo evidente, un linguaggio non allineato al tono istituzionale. Un campo minato morale che nella contemporaneità ipersuscettibile si è materializzato in circolari e opuscoli dell'abbigliamento ammesso nelle scuole italiane.
I dress code scolastici, i populismi transnazionali, gli orribili negazionismi – più gli altri -ismi – e la manipolazione dell’informazione mostrano, seppur su piani diversi, che la civiltà rischia di cadere in una nuova barbarie. Vico parlerebbe di corsi e ricorsi storici; Eco, più secco, del passo di gambero, cioè un’inversione di direzione del senso che traccia orizzonti dai colori foschi come il grembiule nero indossato nei licei dell’Italia anni Sessanta, quando perfino la conversazione tra ragazze e ragazzi durante la ricreazione era regolamentata.

Da “ragazza del secolo scorso” ho fatto esperienza diretta della divisa stagionale alle elementari. Frequentavo l’Istituto Sacro Cuore di Casalnuovo di Napoli, dove d’inverno ci era imposto un grembiule azzurro con cravattina bianca a pois rossi, alternata alla tuta nei giorni di educazione fisica. Con la primavera l’outfit migliorava: potevamo indossare completi coordinati ma “veri”, non più celati dal grembiule-camicia di forza. La gonna blu con la maglia a mezze maniche col logo dell’Istituto ci faceva sentire quasi a Carnaby Street, tanto era percepita come “liberazione” del corpo. In età infantile si ha una percezione precisa dello stile, all’epoca vissuto sul continuum libertà/prigionia rispetto all’autoespressione, correlata a poche tendenze sorte dal basso, tra cui le scarpe, gli unici oggetti di moda su cui avevamo potere decisionale. Oggi, proprio le sneakers sembrano essere il pomo della discordia, anzi della discriminazione scolastica, perché triggerano atti di bullismo se non appartenenti alla gamma di modelli in voga, vera e propria ossessione di infanti e adolescenti, che le usano per stabilire gerarchie e assomigliare ai loro idoli. Me l’ha confermato la comunità studentesca di Scienze Semiotiche del testo e dei linguaggi AA 25-26 del CoRiS Sapienza, memori delle loro esperienze e di quelle dei componenti della famiglia. In mancanza di ruoli tematici professionali solidi, capi e accessori subentrano come modalità ostensiva dello status sociale, tanto che in alcune realtà si è implementata la divisa proprio per attenuare tali dinamiche. In genere il set è anonimo, gender fluid, monocromo e, in alcuni istituti comprensivi i colori servono a distinguere i gradi scolastici, per cui l’apice di vivacità e lucentezza – come, ad esempio, il rosso – è riservato alla scuola dell’infanzia, per poi virare su colori più seriosi per l’età che avanza, come il blu e il nero per la Primaria e la Secondaria di primo grado. A questo punto non sarebbe più utile adottare i modelli asiatici o anglosassoni, graditi poiché presenti negli immaginari di film, serie, manga e anime? Da Harry Potter a Mercoledì, passando per Sailor Moon, o per Gossip Girl e True Beauty, le uniformi sono diventate oggetti del desiderio, simboli estetici e narrativi. Non a caso, al Lotte World di Seoul si possono noleggiare divise scolastiche anche se si è ormai fuori età, realizzando il sogno di replicare quegli outfit, tra nostalgia e fascinazione.

Mi chiedo se le gonne stile manga sarebbero troppo corte per il dress code “sobrio, decoroso e consono” mappato da Viola Giannoli su “Repubblica” in una rassegna delle norme diffuse nelle scuole italiane, dove – manco a dirlo – il cruccio massimo resta il buon costume. La dignità si manifesta nelle giuste lunghezze al ginocchio, o ai fianchi, perché la pancia di fuori è ancora esclusiva delle “scostumate”. Bisogna privilegiare volumi larghi, non aderenti e – per amor di Dio e della Patria – assolutamente non mostranti. Proprio come per l’articolo 527 del Codice Penale, anche qui le interpretazioni abbondano e assumono significati diversi, spesso giustificati sotto l’etichetta della sicurezza. Così le zeppe e i tacchi vengono banditi in quanto fonte di pericolo in caso di evacuazione: parola del liceo Cantone di Pomigliano d’Arco, mitico luogo dove la sottoscritta e Gigino Di Maio abbiamo frequentato lo stesso liceo classico, il Vittorio Imbriani. L’invariante delle scuole del buon costume è la morigeratezza, direttamente proporzionale alla morale, termine derivante da mos, moris, per l’appunto “costume”, come ci insegna Cicerone. Decoro significa non trasbordare, non oltrepassare i limiti. Anche quelli più surreali, stabiliti a Varese, dove la lunghezza massima delle unghie è fissata a 0,5 cm.

Io, al liceo, nel mio periodo metal, portavo un braccialetto con borchie da almeno 3 cm. Avrebbero dovuto chiedermi il porto d’armi?
Il periodo scolastico serve, più di ogni altro, a sperimentare estetiche, a provare diverse versioni di sé. Porre dei paletti non fa che ritardare un processo naturale di scoperta che inizia proprio in quegli anni. La scuola stessa è un’estetica – college, dark academia, Lolita – che assume davvero senso solo quando si contamina con altri stili – il grunge, il dark, il punk – la cui ragion d’essere è ampliare le competenze e la coscienza di chi, attraverso una maglietta, un paio di scarpe o degli orecchini, inizia ad avvicinarsi a generi musicali, letterari, artistici.
È lì che si impara a leggere il mondo per segni, a trasformare il corpo in medium e l’abbigliamento in grammatica identitaria.
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