Il suo libro più recente / Elena Stancanelli. La femmina nuda

2 Luglio 2016

La femmina nuda di Elena Stancanelli è la confessione di un anno di follia, un altro studio ravvicinato di quel particolare tipo di dolore femminile causato dall'abbandono, tradizionalmente più pazzo, più affilato, devastante e autolesionista del corrispettivo maschile.

 

Anna, dopo cinque anni di convivenza, scopre l'infedeltà recidiva del suo uomo. Lui se ne va di casa, ma a intermittenza e lei non lo lascia andare via definitivamente, ci rimane attaccata, a lui e alle sue appendici digitali, alla sua pagina facebook, all'assurdità della vita di quell'uomo che continua senza di lei, nonostante lei.

 

La protagonista descrive gli avvitamenti del suo tormento in una lettera a Valentina, saggia amica e punto fermo nella tempesta della sua follia: è lei la seconda persona singolare che fa di quel liberatorio flusso di coscienza una professione di colpa e a lei Anna racconta di come ha iniziato a leggere la posta elettronica dell'ex, a seguirne gli spostamenti con la geolocalizzazione sullo smartphone, a spiare i suoi messaggi su facebook, a scardinare gradualmente la sua privacy fino a sconfinare in quella della sua nuova amante, fino a perdere la testa.

 

 

 

È una graduale e prevedibile disfatta, un progressivo autosabotaggio fino a far convergere la propria vita su una piccola velenosa ossessione, su una pallina blu che si sposta sulle mappe del cellulare e segnala il luogo che lui abita in quel momento e racconta delle vie che attraversa, dei civici in cui sceglie di restare notti intere, della distanza tra i luoghi in cui l'uomo bugiardo dice di essere e quelli in cui invece la sua presenza lampeggia. 

«Mi chiedo se sia nella nostra natura cercare di forzare l'intimità delle persone. Provare a entrare nei pensieri, nel corpo di qualcun altro, per scoprire se è diverso da noi», dice Anna, e quando scavare nella corrispondenza elettronica di Davide non basta più, si focalizza su Cane, nome fittizio della sua nuova donna. Anna la studia da lontano, analizza ciò che condivide con il mondo e con Davide, le scrive lettere, ne immagina i pensieri, i movimenti, la morte brutale, una malattia devastante che la sfiguri, ma soprattutto il sesso e gli amplessi con l'uomo che era il suo.

 

Sono meticolosi esercizi di odio e autoumiliazione, una via crucis dell'elaborazione del lutto che ormai prevede una straniante stazione virtuale, ma che sembra comunque non poter prescindere dalla verità del corpo. L'idea che alimenta il romanzo pare proprio far leva su questa ambivalenza, sulla distanza tra il buio e allucinato spazio mentale che Anna deve attraversare e il corpo a cui resta appesa mentre la mente si inceppa e comincia a girare a vuoto. E la salvifica solidità del corpo non è implicita né sottilmente suggerita nel romanzo, tanto che il corpo viene immediatamente e costantemente a galla, esposto e sovraesposto fin nelle sue pieghe più occulte come unico carnale baluardo di realtà nella monologante storia di una mente ferita.

 

«La differenza è il corpo, il corpo è l'unico principio di responsabilità che abbiamo. A chi rispondiamo se non al dolore fisico, alla morte, alla fame, alla sete, alla stanchezza?»: l'unica verità sta nella carne e la virtualità, aggirandola, rompe ogni oggettività e inibizione; si può violare l'intimità dell'altro senza subirne la vergogna e senza sperimentarla davvero.

 

Gli amplessi fantasticati da Anna sono misteriose allegorie di indicibile voluttà, quelli vissuti realmente sono liquidati come tristi incontri sbrigativi per svuotare il desiderio e tornare a fare altro. Immaginare la fisicità o sezionare la foto rubata di un corpo, inventarne fragilità e perdizioni serve a renderne inesauribile il fascino e dolorosissima la soggezione. La fantasia del corpo lo amplifica, lo erotizza e lo allontana incredibilmente dalla sincerità della carne calda, molle, chiusa nei suoi contorni di pelle, impietosa nella sua finitezza.

 

Così Anna, mentre rincorre le sue tediose chimere, smette di mangiare, perde chili e taglie, innaffia lo Xanax con il rum e si lascia crollare, sperando che un urto più forte annienti anche quel corpo che ancora, insospettabilmente, resiste.

 

Il racconto indugia su ogni più ignobile tentativo di mortificazione e per tutto il libro si aspetta l'exploit, il crimine vergognoso che Anna continua a promettere di voler confessare all'amica e che si rivela nient'altro che la resa al corpo, a quanto di più basso risiede nel nostro sangue, all'atto brutale, quasi banale nella sua fisicità. L'abbandono all'impulso viscerale, con la rinuncia alla trappola del pensiero, spegne l'incendio della mente, lo consuma e lo spoglia di senso e gravità. E così brucia anche tutto il resto, come dopo un'inutile battaglia dove restano corpi nudi, spogliati di retorica, di poesia, di significato.

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