Gradus. Passaggi per il nuovo

3 Ottobre 2025

Gradus. Passaggi per il nuovo, volume curato da Florian Borchmeyer, è l’itinerario di un viaggio iniziato nella primavera del 2024. Il libro raccoglie memorie, suggestioni e prospettive dell’omonimo progetto, promosso da Reggio Parma Festival, le due città socie, Parma e Reggio Emilia, e le tre Istituzioni teatrali che lo compongono, Fondazione Teatro Due, Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, con l’obiettivo di “favorire e stimolare un passaggio/scambio di saperi e di percorsi che sia d’impulso alla consapevolezza creativa delle nuove leve dello spettacolo dal vivo”. 

Gradus, si legge nell’introduzione, vuole essere “una presa di parola condivisa sul presente e sul futuro del teatro. È la scelta di attivare un laboratorio di pensiero e di pratiche che, a partire dalla ricerca artistica, interroga i contesti istituzionali, le forme della produzione, le traiettorie della formazione e i modi di abitare il teatro oggi”.

Il titolo rimanda al latino grădŭs, al passo e al gradino (con identica declinazione al plurale, quindi anche i passi, i gradini), e segna un procedere in avanti, un andare in ascesa per gradi, il proposito di avviare un cammino insieme, contando sulla guida e sullo sprone di coloro che hanno aperto la strada.

Anche il sottotitolo, “Passaggi per il nuovo”, suggerisce un transito, un moto, uno scambio (di vedute, di prospettive, di consegne) e sottintende che i passi si dirigano fuori dall’ordinario e dal passato, “allude insomma all’inevitabile innovazione, al cambio di metodo che spesso, se non sempre, si rivela l’unico ponte capace di varcare il fiume del presente per raggiungere la riva del futuro” e contiene anche “il nostro desiderio di muoverci proattivamente verso quel futuro”.

Il progetto Gradus ha preso il via con un avviso pubblico e l’invito rivolto ad artisti, scenografi, autori, compositori, librettisti, coreografi, light designer e costumisti under 35 e residenti in Europa a presentare una propria originale idea progettuale.

Nel giugno 2024 il cantiere di Gradus si è aperto, con 14 progetti selezionati e 32 artisti partecipanti – i “Protagonisti” –, affiancati da diciannove “Maestri”, figure internazionali del settore delle arti sceniche e intellettuali e studiosi italiani attivi a livello internazionale. Gli incontri si sono articolati nelle due sessioni di Parma e di Reggio Emilia, organizzate con lo spirito dell’“officina”, di un cantiere vivo “in cui il confronto tra generazioni ha prodotto scontri, convergenze e riverberi inaspettati” e “la visione panottica e transdisciplinare ha consentito di approfondire la riflessione e ampliare il campo di ricerca”, di muovere i primi passi per superare “steccati culturali ed esistenziali” schiudendo gli auspicati “passaggi per il nuovo”.

“Ma come potremo arrivare a questo quasi mitico “nuovo” e come troveremo i “passaggi” per arrivarci? Trovare la rotta marittima per un arcipelago pieno di pericoli, avventure o, rivendicate da Paolo Cantù, follie. Come nel bolero “La Barca” di Roberto Cantoral: “a cruzar otros mares de locura” (a varcare altri mari di follia), che soltanto pochi, i migliori, sanno attraversare?”

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Gradus, Prima fase, Parma, ©Andrea Morgillo.

La domanda è di Florian Borchmeyer, drammaturgo, regista e studioso di letteratura, curatore di festival cinematografici e teatrali che, dopo le presentazioni, in apertura, delle istituzioni organizzatrici (a firma di Luigi Ferrari, Paolo Cantù, Paola Donati e Luciano Messi), avvia il diario di bordo di questa traversata, dichiarando di essere stato chiamato a coprire, oltre al ruolo di maestro, anche quello di cronista per un progetto che si è svolto come programma “esoterico”, (nel senso originario di Aristotele, opposto agli scritti “exoterici”, diretti a un pubblico vasto e generico, e quindi destinato, almeno per il periodo del suo svolgimento, solo al circolo ristretto dei professionisti coinvolti) e che adesso, una volta concluso, vuole raccontarsi e portare fuori la propria voce.

E quella che risuona tra le pagine è una voce composita, plurale, un coro di accenti che si accordano senza sommarsi, che si rispondono, si incalzano e si rincorrono, e la polifonia che è alla base di un progetto fondato sulla reciprocità e sulla propagazione degli incontri e degli incroci si riflette sulla struttura del libro, che alla presentazione del progetto e alla cronaca istituzionale del suo decorso, accosta il controcanto del suo rovescio, “la storia alternativa di tutto il personale a bordo: la loro visione dei Maestri e delle lezioni”, le voci dei giovani protagonisti, i loro progetti e il modo singolare in cui ognuno di loro ha attraversato l’arcipelago eterogeneo degli interventi alla ricerca di una strada nuova.

E da quest’arcipelago, o costellazione, di sguardi sul mondo delle arti sceniche e non solo, emergono ricostruzioni variegate degli incontri e di ciò che questi hanno acceso, con diversi registri, forme, linguaggi; ci sono interviste, ricostruzioni puntuali, derive, racconti, poesie, disegni, citazioni, domande aperte, e la scommessa del libro (e del progetto) è intonarle insieme per tracciare una rotta da seguire.

Il primo maestro a prendere la parola, nella prima sessione di Parma, è Peter Stein, figura centrale del teatro di regia tedesco. Il suo intervento scava nell’origine stessa della parola “teatro” (dal greco θεάομαι: vedere) e riconosce dentro i confini aperti dell’etimologia il perimetro di un luogo in cui “si vede insieme qualcosa”, e nelle origini del teatro greco, nato come forma collettiva, politica e rituale, la natura di una disciplina che non è solo arte, ma “fondamento della civiltà democratica occidentale, un’istituzione politica, morale e culturale”.

Compaiono, sin dai primissimi passi, alcuni dei temi che ricorrono lungo l’intero programma: l’aspetto sociale di una forma d’arte fondata sulla compresenza e sulla condivisione dell’esperienza teatrale, la dialettica con la tradizione, le radici, l’eredità, sono solo alcune delle direttrici che tracciano il percorso di Gradus, orientato a guardare al futuro delle arti sceniche, che “sembrano chiamate a un equilibrio instabile tra tradizione e reinvenzione, tra citazione e mutazione” e possono farsi osservatorio da cui guardare il mondo e terreno in cui sperimentare opportunità di trasformazione e nuove forme di partecipazione e democrazia.

Secondo il regista Romeo Castellucci, “il patrimonio non è più soltanto un museo da conservare, ma una materia viva da interrogare, distorcere, persino tradire”, talvolta una gabbia da cui evadere. Ma dove fuggire? “Quando mi trovo forzato a fare un lavoro, ho davanti a me due possibilità: il deserto o il grande archivio della tradizione” dice Castellucci nel suo intervento, riportato da Andrea Dante Benazzo e Marco Corsucci. In ogni caso si apre una zona di conflitto, il deserto che l’artista attraversa si sovrappone al palcoscenico vuoto e il deserto dell’opera “è un vuoto che ci scruta un paesaggio che ci espone. Di fronte a questo deserto, lo spettatore ha così la possibilità di riconoscere il proprio”.

È proprio da quel vuoto, dal non sapere, dallo spaesamento, che nasce la creazione, come sostiene nel suo intervento il coreografo Marcos Morau, che racconta la coreografia come una scrittura aperta, non lineare, “postdrammatica”, “che può iniziare da qualsiasi punto e si costruisce attraverso associazioni, collusioni, sorprese”.

È così anche per l’artista Ettore Tripodi, attivo nell’ambito delle arti visive e dell’animazione grafica, che, intervistato da Maria Vincenza Cabizza, risponde con schizzi e note scritte a mano alle domande sull’origine e sull’evoluzione dell’ispirazione, parlandone come di un’idea senza confini posta a confronto con i limiti della materia utilizzata, un corpo a corpo in cui “un segno fuori posto mi suggerirà altri sviluppi”.

Anche per il regista teatrale Fabio Cherstich, il teatro è un’esperienza viva, in cui le categorie di Munari descritte in Fantasia, trovano perfetta applicazione, con “tecniche come capovolgimento, uso dei contrari, moltiplicazione degli elementi, cambio di colore, materia, funzione, luogo, dimensione, fusione di elementi diversi”.

Un terreno adatto per la “sinestesia”, concetto introdotto da Luigi Ferrari, musicologo, scrittore e presidente di Reggio Parma Festival: “l’arte può (e spesso deve) mirare a una saturazione sensoriale non violenta, che colpisce in profondità lo spettatore attraverso la combinazione equilibrata e suggestiva di più linguaggi” e la sinestesia può funzionare come strumento espressivo e creativo, un “metodo potente di narrazione e comunicazione” che permette di esplorare le infinite associazioni tra parola, immagine e suono.

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Gradus, Prima fase, Parma, ©Andrea Morgillo.

Parola, luce e suono sono alla base di numerosi interventi che indagano gli aspetti invisibili, impalpabili eppure cruciali nell’esperienza teatrale, dalla “voce incarnata” descritta da Adriana Cavarero, docente di Filosofia Politica all’Università di Verona (dobbiamo “liberarsi del linguaggio e del suo incanto”, “situarci a partire dalla vibrazione di una gola di carne”), al “suono dell’ineffabile”, cioè il tentativo della musica di esprimere ciò che la parola non riesce a dire, descritto da Ferrari, o all’esperienza sensoriale e artistica della luce, che Pasquale Mari, lighting designer e direttore della fotografia, paragona all’acqua, sfuggente e impalpabile (“lavorare con la luce è come cercare di trattenere il mare con un secchiello: un atto poetico e infantile”) e i lighting designer sono “capitani coraggiosi” che governano la luce come un vento.

Luce e suono attraversano lo spazio modellandolo, hanno latenza, eco, riverbero, “si legano alla materia per rivelarla. […] Il suono ha bisogno del silenzio per emergere, così come la luce ha bisogno del buio per esistere. La musica ci insegna che, in un certo senso, l’assenza (silenzio) non è mai una vera e propria negazione, ma una parte integrante del discorso sonoro, invito a pensare in modo sinestetico, a cercare ponti tra le arti, a interrogarsi su come ogni linguaggio possa tradursi in un altro”.

“Le isole hanno un silenzio che si sente. Di fatto, ogni silenzio consiste nella rete di rumori minuti che l’avvolge” scriveva Calvino negli Amori difficili, è i rumori minuti, “i rumori fisici che derivano da strumenti o oggetti quotidiani: suoni “nascosti” che normalmente non si sentono, come unghie sui tasti o il respiro dell’organista” sono parte, come spiega nel suo intervento il compositore e organista Francesco Filidei, di una visione della musica che coinvolge gesto, spazio, corpo e “scrivere musica per i suoni nascosti – il respiro, il fruscio, l’attrito – significa rinunciare all’ideale della perfezione e abbracciare l’errore come segnale, come voce del reale”.

La questione dell’errore, la paura di sbagliare tornano spesso, nelle conferenze come nelle domande dei Protagonisti: “Come ti relazioni con il concetto di “errore” nel tuo lavoro?” chiede Vincenza Cabizza nell’intervista a Ettore Tripodi, “sbaglio di continuo – risponde lui – può essere frustrante o illuminante, dipende dalle giornate”; “Dimentica la parola “errore” – risponde la scenografa teatrale Margherita Palli alla domanda di Josephine Capozzi – La scenografia è come un progetto di architettura: si costruisce uno spazio dove devono muoversi delle persone. […] Non si sbaglia: si progetta. Il progetto è vivo, cambia.”

Il fisico Piero Martin costruisce un’intera conferenza sull’errore, snocciolando un lungo elenco di aneddoti in cui “lo sbaglio si rivela non solo innocente, ma addirittura geniale” perché “oggi si tende a reprimere l’errore, a chiedere performance perfette, ma così si perde il senso dell’esplorazione”.

E l’esplorazione è alla base dell’esperienza artistica proposta da Gradus:

“Primero, dice / enamorarse del espacio. / Ir con curiosidad / a observar / antes de imaginar / quiénes cómo /  por qué / encontrarse con lo que / contiene / poner la mirada / en el detalle / en lo que ya existe” (Anzitutto, dice / innamorarsi dello spazio. / Andare con curiosità / a osservare/ prima di immaginare / chi come / perché / incontrare ciò che contiene / posare lo sguardo / sul dettaglio / su ciò che già esiste).

Sono alcuni dei versi con cui Giuliana Kiersz rilegge l’intervento di Gabriela Carrizo, fondatrice, insieme a Franck Chartier, della compagnia multidisciplinare Peeping Tom;

“Abbracciare
il materiale
i corpi
trovare
un movimento, un gesto
[…]
avvicinarsi
alle cose
per rivelarne altre
nascoste
sepolte”.

Fino al secolo scorso  il teatro è stato “il luogo dello sguardo, una finestra o una serratura buia da cui guardare il mondo”, osserva Gaetano Palermo in seguito alla conferenza di Carrizo, “oggi lo scenario si è ribaltato ed è il mondo che si fa teatro […] A differenza dei dispositivi digitali di comunicazione, che mediano e virtualizzano la relazione, il teatro e la performance convocano i corpi in una prossimità concreta, in cui chi guarda e chi è guardato condividono uno spazio-tempo comune, rinegoziando la distanza tra soggetto e oggetto”.

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Teatro Valli, fotografia di ©Andrea Mazzoni.

Il teatro è “presenza vera”, gesto di cura, lo sostiene anche Alfonso Cipolla, critico teatrale e docente di Teoria e Tecnica dell’Interpretazione, promotore di un “teatro piccolo”, “non per difetto, ma per preziosità”, come quello di animazione di figura. Il teatro deve “non solo “portare a sé” (sedurre), ma anche “portare con sé” (condurre)”, come nel teatro ateniese, in cui l’attore avanzava da fondo scena verso il pubblico in “un gesto di avvicinamento, di cura, umano. Per non smarrire la sua vocazione originaria, il teatro, pur sperimentando con le tecnologie, deve continuare ad andare incontro all’Altro”.

La centralità dei corpi e la relazione (o le molte relazioni possibili) tra chi si pone sul palcoscenico e chi guarda, elementi peculiari dell’esperienza teatrale, fanno dello spettacolo una zona di incontro e conflitto, un corpo a corpo.

Attraverso la gabbia del vostro corpo

– lo sguardo dello spettatore

– raggiungete la dimensione del teatro.

Voi scegliete. Ogni cosa è oblio. Nulla è importante.

Sotto la pelle, osservate qualcosa.

Guardare è un atto morale.”

(si legge nella rilettura di Marilena Katranidou della lezione di Castellucci).

Se guardare è un atto morale, l’ascolto è una forma di resistenza, lo ribadiscono le lezioni di Filidei (“oggi più che mai ascoltare è un atto politico. In un mondo sovraffollato di suoni e distrazioni, il silenzio è rivoluzionario. La sua musica richiede tempo, attenzione e pazienza”) o quella del coreografo Marcos Morau, “l’arte è sempre un gesto politico, anche quando non lo è in modo esplicito. È anche un atto di resistenza alla velocità e alla superficialità del mondo contemporaneo”.

Il teatro smaschera il nascosto, dice il mondo in cui viviamo o, ancora meglio, quello in cui vorremmo vivere e lezioni come quelle di Clara Mattei, professore di Economia al Dipartimento della New School for Social Research di New York e fondatrice del Center for Heterodox Economics Oklahoma, o del sociologo, saggista e analista del Groupe d’études géopolitiques di Parigi Raffaele Alberto Ventura, riconfermano il potere del gesto artistico e del linguaggio di agire sulla realtà (“il linguaggio, come la legge, ha un potere reale. Può costruire o distruggere, includere o ferire. Ed è proprio per questo che c’è ancora un rischio, un pericolo per l’ordine, quando il teatro si pone la domanda: in che mondo vogliamo vivere?”).

Dentro la crisi della drammaturgia aristotelica, della linearità, della coerenza causale, il teatro (come il nostro tempo) ha smarrito “la “grande narrazione comune che conferisce un senso alla vita, alla società e all’identità collettiva”, quella propria del teatro ateniese descritto da Stein, e racconta oggi l’esperienza frammentata, individualistica e virtuale del mondo moderno, con “strutture aperte, forme poetiche non logiche, costruzioni per immagini, ritorni e ripetizioni”, rinegoziando continuamente la relazione tra la narrazione e il contesto, lo spazio e lo spettatore. “Questo tipo di teatro si costruisce per approssimazioni, per attriti, per accumulo. Si tratta di un teatro del non-finito, del non-detto, dell’enigma”, che sembra aver abdicato a quel potere unificante dell’anfiteatro che raccoglieva l’intera polis, ma, nonostante ciò, è ancora “spazio pubblico, ma non armonico. Non è consenso, ma conflitto regolato”.

Le arti sceniche del futuro, verso cui il progetto Gradus ha tentato di tracciare una rotta, non sono più “isole autonome, ma territori porosi, in continuo attraversamento e relazione”, il teatro si frammenta nelle sue parti, suoni, materiali, luce, voce, dispositivi e diventa spazio di negoziazione tra i suoi elementi, “non è più solo teatro; la musica si fa gesto; la scenografia diventa spazio narrativo; il corpo del performer è al tempo stesso suono, immagine e memoria”.

Quello del futuro che queste pagine lasciano immaginare sarà un “teatro transdisciplinare ma radicalmente incarnato”, con una nuova attenzione per il corpo, lo spazio, la materia, l’errore e la presenza, un teatro che non sarà soltanto “grandi narrazioni”, ma “anche esperienze sensoriali, temporanee e relazionali, capaci di connettere spettatori e performer in un atto condiviso di attenzione e apertura”.

Un atto condiviso di attenzione e apertura è ciò da cui sembrano scaturire il progetto di Gradus e la sua narrazione, sin dall’iniziale reclutamento di artisti e professionisti (protagonisti e maestri) con un orizzonte internazionale e transdisciplinare e un’impostazione orientata allo scambio e alla propagazione, più che alla trasmissione di saperi e visioni, fino alla fine di questo racconto, che non si chiude ma apre la strada (e il sipario) al nuovo che ancora ha da venire, alle voci dei Protagonisti e ai loro progetti, i quattro destinati all’allestimento sui palcoscenici dei Festival di Parma e Reggio Emilia nell’autunno 2025 e a tutti gli altri che troveranno nuovi pubblici e nuove scene.

Un’apertura di sguardo e possibilità, che racconta un teatro nuovo, aperto, non finito, contaminato, ibrido, che innesta arti, tecnologie e visioni aliene, mette in discussione il ruolo e la posizione dei suoi elementi, del pubblico, di chi immagina e di chi calca la scena, con la speranza, non ancora arresa, che queste “tavole di legno che significano il mondo” possano ancora rappresentarlo, anche oggi, nella complessità e nella frammentazione di una realtà esplosa, convinti che il teatro sia ancora all’altezza della sua missione, che non è riprodurre la realtà, “ma mettere in crisi i suoi codici, disarticolare le sue finzioni, sospendere il senso per aprire lo sguardo”.

In copertina, Teatro Valli, fotografia di ©Andrea Mazzoni.

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