Giacomo Ceccarelli: il volo delle cornacchie
Un giorno qualunque, dentro il cuore della foresta di Bowland, nel nord-ovest dell’Inghilterra, un gruppo di cornacchie vola intorno a una roccia. Planano nere contro il tramonto e poi, una a una, atterrano per posare i fili d’erba secca che tenevano nel becco in una piccola cavità della pietra. La cornacchia più grande, l’unica che non vola, picchietta sulla roccia con un piccolo stecco, schizzano scintille dorate, poi si accende il fuoco. Le cornacchie lo contemplano in un cerchio di piume nere mentre il sole muore dietro la boscaglia.
Il video dura solo settantacinque secondi, ma le immagini si moltiplicano uguali innumerevoli volte, dietro schermi di tutte le dimensioni a tutte le latitudini.
L’evento che un’ornitologa londinese è riuscita a catturare quasi per caso diventa una storia potente, che si fa strada attraverso migliaia di occhi e di bocche, si unisce ad altre storie, le risveglia, le feconda, le infetta.
Il libro d’esordio di Giacomo Ceccarelli (Cornacchie, Feltrinelli, 2025) mette insieme alcune di queste storie attraversate dal volo delle “Cornacchie Prometeo”, le dispone su una trama a maglie larghe, ne traccia i collegamenti, ne segue le diramazioni.
Si scopre rapidamente che il nero delle cornacchie aveva già macchiato alcune di queste storie in passato; l’ornitologa Olga Leffman, ancora bambina, aveva assistito all’agonizzante fine di una cornacchia precipitata nella sua camera da letto (“La cornacchia sbatte all’impazzata. Ogni colpo è una poesia di libertà negata, bruciata. Cancellata.”) e aveva ascoltato il gracchiare dei corvidi fuori dalla finestra durante i pranzi in famiglia, saturi di silenzio e di dialoghi immaginati.
Alberto Ronda, influente autore televisivo, scorge una cornacchia che lo osserva quando esce dall’ospedale in cui è morto suo padre, con il dolore che trabocca e il telefono muto; cornacchie nere come quelle del video virale infestano i sogni di Luca e tormentano il suo amico Enzo, appassionato di Smorfia napoletana, che con loro, ladre di attenzioni e di cura, è costretto a condividere le briciole dell’amore materno.
Pepo Dj, aspirante personaggio televisivo dal fisico perfetto e dal sorriso sempre spalancato, guarda le cornacchie attraversare il ritaglio di cielo sopra la casa del Grande fratello vip, come Jasmine, nel giardino della sua villetta nelle Filippine, guardava gli aerei passarle sulla testa mentre inventava per i suoi tre figli le storie dei passeggeri, cercando di proteggere la felicità della vita sua perfetta dal terrore di perdere tutto, pronta a scorgere la crepa, il “monsone” che ne minacciava la quiete.
Anche Girolamo, Conuro del sole dal piumaggio rubino, dalla finestra guarda le cornacchie volare senza pareti. Le osserva dalla sua gabbia insieme ad altri quattro parrocchetti, come lui “privati della loro natura. Della loro solitudine, della loro libertà”.
Queste storie si sfiorano, si intersecano, collidono, generando conseguenze spesso distruttive in uno schema di rimandi in cui ogni cosa è collegata e il punto di partenza della narrazione – un gruppo di uccelli che scopre il fuoco – pare generare una sorta di “effetto cornacchia”, accelerato e potenziato dalle leggi della viralità social, per cui se una cornacchia, nel cuore di una foresta sperduta nel Lancashire, con uno stecco dentro il becco accende un fuoco, in un altrove remoto un’altra vita devia improvvisamente, prende il volo, deraglia.
Il fil rouge che attraversa le storie e le tiene insieme è lampante: il racconto di ciascun personaggio tratteggia il perimetro della prigione che lo costringe, in una serie di amare declinazioni della cattività.
Nel libro si trovano gabbie di diversa foggia e dimensione, dalla voliera delle cocorite, ripudiata dal parrocchetto del sole, alla stanzetta di Jasmine nella casa italiana in cui prende servizio come domestica, fino alla casa del Grande fratello, spietato progetto di reclusione volontaria che lascia sui partecipanti “cicatrici difficilmente rimarginabili. Danni psicologici di entità severa che spesso durano anni”.
Ma sono gabbie anche le aspettative, i desideri, i bisogni, le paure, le attese a cui conformarsi, la fama, lo share, le relazioni, il dolore, la felicità, le scelte, il destino.
La libertà è un concetto inafferrabile, i protagonisti la cercano spostando lo sguardo oltre il margine delle prigioni che abitano, senza mai spostarsi davvero e, fatta eccezione per i parrocchetti, tutti paiono in qualche modo rinunciarci. L’essere umano è l’unico animale che si ingabbia da solo.

“L’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore. Dove / sparendo la foresta / e l’aria verde, chi resta / sospira nel sempre più vasto / paese guasto: “Come / potrebbe tornare a essere bella, / scomparso l’uomo, la terra”.
Nell’esergo del libro, Ceccarelli incastona alcuni dei Versicoli quasi ecologici di Giorgio Caproni e la relazione sbilanciata tra uomo e natura, tra l’uomo e gli altri animali, è al centro della domanda intorno a cui il romanzo si svolge.
È una relazione in larga parte fondata sull’arroganza dell’uomo, sulla convinzione della propria superiorità, sulla presunzione di poter dominare e piegare elementi ed esseri viventi al proprio volere. Il fuoco, dono di Prometeo insieme alla speranza e alla capacità di interpretare il destino e di ammaestrarlo, è simbolo e strumento di questa prerogativa umana, della sopraffazione e dello sviluppo dell’uomo ai danni dell’ambiente in cui vive.
Forse per questo, quando il mondo osserva le cornacchie – animali intelligenti, capaci di pianificare azioni, utilizzare strumenti e riconoscere i volti umani, ma considerati creature immonde, frequentatrici di cimiteri e campi di battaglia, divoratrici di carcasse e portatrici di funesti presagi – appropriarsi del fuoco, una fetta di umanità lo considera un tradimento, un affronto al privilegio di competere con dio e lo guarda con terrore.
Il numero 90 nella smorfia napoletana è il numero della paura, ma è anche il numero di Dio (“non a caso, pensa Enzo. Non a caso.”), ma se esiste un dio, questo abita le persone e nella paura le tiene strette e sole, in preda a un impulso di morte e autodistruzione.
Mentre per gli uccelli, nel libro, sembra naturale unirsi e collaborare per una causa comune, dalla descrizione dei protagonisti umani emerge, per contro, una tendenza all’isolamento (“perché il dolore rende invisibili gli altri”), uno sterile individualismo o un calcolato opportunismo, che sfociano nei tratti tipicamente umani di prevaricazione, spietatezza o resa.
Di ciascun personaggio scopriamo dapprima una cicatrice, una ferita aperta, un torto con cui la vita l’ha offeso (lutti, perdite, malattia, abbandono…), poi ne seguiamo, in parte, il percorso accidentato.
Si tratta per lo più di parabole scolpite con gesti netti e veloci, con brusche frenate e rarissimi indugi, e una ricerca di precisione e tempo della scrittura che sembra mirare al linguaggio poetico e compone una partitura dal ritmo rapido e sincopato, non planate larghe ma colpi d’ala secchi, una cornacchia che prende il volo, un parrocchetto domestico che sfida il vento per la prima volta.
Il fuoco rubato dalle cornacchie segna per ciascuna storia un punto di svolta che quasi sempre coincide con un declino, o con la fine.
Tutto in queste storie sembra dire che non c’è scampo né salvezza, ognuno è alle prese con le sue promesse disattese, con le proprie soffocate rivolte, come Pepo, che spalanca il suo sorriso anche di fronte alla sua fine, come Jasmine, che guarda il monsone travolgerla come se lo avesse sempre aspettato, come Enzo, che studia la smorfia e il suo patrimonio di numeri e significati con cui ricoprire le domande di un mondo che non si lascia leggere né decifrare, o come Olga che conta i punti vita che guadagna e che perde e li guarda scorrere via senza poterli arginare. E avanza il sospetto che il gioco sia truccato e che la libertà coincida con il suo rovescio, con la perdita e il sacrificio.
Sulla copertina del libro c’è l’illustrazione di una cornacchia in volo, le ali aperte, il becco proteso. Pare una serigrafia. Nero su sfondo rosso.
Il negativo di questa immagine, il suo rovescio, nel romanzo si trova in alcune delle immagini più nette e riuscite: il rosso acceso del parrocchetto del sole in mezzo alle ali delle cornacchie, un grumo scarlatto circondato, soverchiato, accolto dallo stormo nero.
E nel romanzo i colori non si mescolano mai, le traiettorie diverse rimangono separate, non c’è finale possibile in cui si realizzi l’unione, possono solo annullarsi l’una nell’altra, collidere e finire dentro uno schianto.
