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Giorgio Griffa, intelligenza della pittura

9 Giugno 2025

Quando più di un secolo fa, nel 1905, l’artista francese Maurice Denis recensisce la prima uscita di Henri Matisse insieme al gruppo dei Fauves, scrive con un po’ di malumore che la pittura di Matisse è “al di là di ogni contingenza, la pittura in sé, l’atto puro del dipingere”. Forse per capire Giorgio Griffa è utile partire da questa speciale dichiarazione di autonomia della pittura, anche se lo precede di sessant’anni.

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Non è un caso che Matisse sia uno degli artisti più amati da Giorgio Griffa. Una preferenza che si coglie bene entrando nella mostra in corso al Palazzo Ducale di Genova (Giorgio Griffa. Dipingere l’invisibile, a cura di Ilaria Bonacossa e Sébastien Delot, in collaborazione con Fondazione Giorgio Griffa, fino al 13 luglio, catalogo Silvana), in cui il nome dell’artista francese ricorre spesso, sia in opere specifiche (come Matisseria n. 2, 1984), sia nei confronti con interi cicli, come il celebre Océanie. Ma più che la singola ispirazione, Griffa sembra trovare in Matisse lo spunto per un modo di procedere, almeno stando alle impressioni di Denis in quel fatidico 1905: “Tutte le qualità del quadro che non siano quelle del contrasto di toni e linee, tutto quello che non ha deciso razionalmente il pittore, tutto quello che viene dal nostro istinto e dalla natura, insomma tutte le qualità della rappresentazione e della sensibilità sono escluse dall’opera d’arte”.

Il rimprovero di Denis, a leggerlo con un paio di speciali occhiali progressivi, ci permette di ritrovare lo stesso proposito di essenzialità in tutte le esperienze astratte del Novecento. Alla fine degli anni Sessanta anche la cosiddetta pittura analitica nasce con questo spirito e ne trae le conseguenze più radicali: gli artisti limitano volontariamente la propria capacità espressiva, riducono i mezzi a quelli che ritengono primari e concentrano su essi un’attenzione straordinaria, come se ne scoprissero i valori e le potenzialità per la prima volta.

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Giorgio Griffa, Matisseria n.2, 1984, acrilico su tela, 116 x 390 cm. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo.

A Griffa l’etichetta di pittore analitico non piace. “Il concetto di indagine”, scrive, “implica un comportamento attivo, di critica, di analisi o ricerca sui mezzi che si usano”. E lui invece si sente “un semplice esecutore, sullo stesso piano degli altri mezzi fisici che concorrono a far sì che ci sia un colore sulla tela”. Sarà per questo che a Torino Griffa si avvicina sin dal 1967 agli ambienti dell’Arte Povera, esponendo alle gallerie Christian Stein e Sperone insieme ad artisti come Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis e Mario Merz. Anche nelle loro opere si esprime una libertà progettuale in cui l’artista è un esecutore, un agente che offre la combinazione iniziale ai materiali (naturali e artificiali, dai cespi di lattuga alle serpentine frigorifere) ma poi concorre insieme a loro a rendere visibile un’energia. Come fossero apprendisti stregoni, i poveristi sollecitano ciò che Griffa chiama “l’intelligenza della materia” per mostrarne i processi in atto. Rispetto al loro utilizzo di spugne, rocce, carbone, neon e altre materie lontane dalla tradizione artistica, egli però rimane un pittore: “Analogamente, essendo io convinto dell’intelligenza della pittura, ponevo la mia mano al servizio dei colori che incontravano la tela, limitavo il mio intervento al gesto semplice di appoggiare il pennello”.

Ma questo dipingere, dipingere soltanto, che cos’è? Stendere del colore su un supporto non è, già, alludere a qualcos’altro?

Se la pittura riesca a essere solo sé stessa è una delle questioni principali che si pongono la pittura analitica e tutti gli artisti che le sono accostati, Griffa compreso. Il parere di Denis su Matisse inaugura queste riflessioni, raccontandoci che sì, quella di Matisse è “pittura in sé” perché è un’“astrazione” senza riferimenti alla realtà esterna. Naturalmente non è proprio così ma il presagio di Denis è illuminante, non solo perché definisce “puro” il dipingere dei rapporti di soli toni e linee, come avverrà in molta arte astratta a seguire, ma anche perché intravede dietro queste operazioni un calcolo iniziale “deciso razionalmente” dal pittore, a prescindere dai temi e dalla verosimiglianza naturalistica della rappresentazione. Cos’altro è, per esempio, Lo studio rosso (Atelier rouge, 1911) di Matisse se non la decisione di vedere una stanza secondo un’unica nota cromatica?

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Installation view, Giorgio Griffa. Dipingere l’invisibile, Palazzo Ducale di Genova. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo.

Figlio di una stagione artistica che ha superato il bisogno della rappresentazione visuale, Griffa elabora un calcolo ancora più rigoroso che ammette solo segni minimi, regola la loro disposizione secondo precisi orientamenti, prevede tele grezze di iuta, canapa, cotone prive di telaio e stabilisce che i segni non le riempiano mai del tutto. Una specie di algoritmo, diremmo forse oggi, da cui discende una serie di azioni: “devo sviluppare i miei lavori nell’ambito ed in conseguenza di quella sola ideazione. Di modo che, posto l’arbitrio iniziale, il seguito ne sia il naturale sviluppo quale deriva dagli elementi che realizzano il lavoro, senza interventi ulteriori”.

Nel riconoscere che il punto di partenza delle sue opere sia sempre arbitrario, Griffa, in realtà, schiude un universo pittorico di straordinaria ricchezza. Se ne accorge nel 1969, mentre lavora al ciclo Segni primari e nota che dalla decisione di dipingere, poniamo, sette linee dello stesso colore, con lo stesso pennello e nello stesso ordine possono nascere “infinite possibilità”. È ciò che accade anche in Obliquo (1976). A un primo sguardo sembrano solo dodici bande diagonali, poi notiamo che il colore, più o meno diluito col bianco, tende ogni tre strisce al celeste oppure al turchese. Se accettiamo di sostare nell’immagine, notiamo che la prima e la terza serie di strisce hanno dei contorni frastagliati, dovuti a una stesura liquida, e che la seconda e la quarta, analoghe tra loro nel tono, fanno i conti con la brusca sospensione dell’ultimo elemento che introduce una difformità. Ci accorgiamo così che un’opera in apparenza monocorde è in realtà sostenuta da un ritmo delicato. Proprio la necessità di interrompere la serie, per esempio, si traduce nell’accorgimento formale del pennello che insiste su un angolo, aguzzando più del solito la parte terminale della striscia, così che questa ci appaia come non finita. Le strisce non sono lunghe uguali, talvolta non rispettano il “giusto” allineamento superiore o inferiore e il loro schieramento più o meno omogeneo si produce in base alla mano del pittore e ai suoi inevitabili tic. Anche le piccole macchie precipitate fuori delle fasce di colore ci raccontano il rapporto sempre dinamico tra la mano, il pennello e la tela.

Pur precisa e limitante, la regola non conosce mai un’applicazione uniforme. La pittura è ormai svincolata dagli obblighi dello sguardo prospettico, non ci chiede soltanto l’apprezzamento a distanza ma ci invita, anzi, a vedere quanto l’astrazione pittorica in apparenza fredda e ripetitiva riveli le sottili interazioni tra le materie, dalla saturazione cromatica ai tempi di assorbimento della tela.

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Giorgio Griffa, Obliquo, 1976, acrilico su tela, 104 x 141 cm. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo

Scrive Tommaso Trini in un testo pubblicato tra il 1974 e il 1975 che per Griffa dipingere è un atto quasi meditativo, una disposizione a regolare l’ingresso del colore nel supporto e nelle sue pieghe tramite “la tensione psicofisica di ogni pennellata”. Gli aspetti mentali (razionali, direbbe Denis) del suo lavoro devono perciò trovarsi in equilibrio con una fisiologia ampia che riguarda sia il corpo dell’artista sia quello delle materie adottate.

Non stupisce che Griffa chiami il dipingere una disciplina, proprio come accade in alcune culture orientali. In più di un’occasione l’artista sottolinea la concentrazione esclusiva e assoluta, da pratica zen, del suo gesto pittorico. A questo proposito uno degli aspetti più interessanti della mostra genovese è la sala dedicata alla proiezione del breve documentario Painting Disordine IR (Marko Seifert, Raphael Janzer, 2025), che mostra l’artista al lavoro sul monumentale Disordine IR (2024), presente in una sala successiva. Il film, girato in atelier, si sofferma sulle mosse di Griffa, sul premere e orientare le setole in molti modi, sui momenti in cui si distacca dalla tela, collocata a terra sopra un ulteriore strato cartaceo per favorire gli assorbimenti. A osservarlo vengono in mente le maniere con cui la tradizione giapponese consiglia di stendere i caratteri grafici: come ricorda Giangiorgio Pasqualotto (Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente), la mente dev’essere sgombra a sufficienza per consentire al corpo dell’esecutore di entrare in risonanza con gli spazi vuoti del foglio, così che il “pieno” del carattere sia costruito attraverso il vuoto del supporto. La stessa disciplina guida le pratiche pittoriche vere e proprie sin dalla realizzazione dei singoli tratti di un dipinto, anch’essi capaci di coltivare i vuoti grazie ai segni discontinui di una pennellata con poco inchiostro (kan pi), oppure agli spazi che affiorano nel segno stesso grazie a un certo schiacciamento delle setole (fei pai).

Eppure, la pittura di Griffa non è solo questo. Dipingere, per Griffa, è lasciare un varco aperto all’incontro di modelli molto diversi tra loro, talvolta persino opposti. La pratica meditativa vicina ai modi orientali non può fare a meno della tradizione delle avanguardie occidentali, di Matisse e di tutta la sua vivacità coloristica; il carattere anonimo dei segni convive con l’inevitabile riconoscibilità del soggetto che muove il pennello e con le sottili vibrazioni del suo corpo; la riduzione al minimo della visione, tipica delle culture figurative astratte, si accompagna al richiamo di una sensibilità sottile, della sensualità di ciò che è vivo (e anche la tela e la pittura lo sono), insomma del farsi delle cose.

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Giorgio Griffa, Lavagna Beuys, 1982, acrylic on canvas, 300 x 600 cm. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo.

Talvolta certe allusioni ricercate, magari ai nomi di altri colleghi, incontrano un modo di dipingere che ricorda quello dei bambini, una specie di inventario che cataloga i segni ma li lascia anche liberi di esprimere una loro indipendenza. Come in Lavagna Beuys (1982), dove le pennellate diventano bacchette, fili sottili o più spessi, dritti oppure attorti, arabeschi più o meno fitti, con le solite lievi ma visibili variazioni di toni cromatici, e sembra di assistere a quel tipico atteggiamento infantile che smette di usare un pastello o un pennarello colorato solo dopo averne dichiarato esaurite le potenzialità.

È così che la “pittura pura” di Griffa esercita la sua “intelligenza”, percorrendo in mille modi i confini tra limiti e libertà. Lo fa assegnandosi un principio generativo, un po’ come avviene con le intelligenze artificiali odierne, con la differenza che il prompt personalissimo e autoimposto è sempre interpretato dall’artista stesso in un numero praticamente infinito di varianti. Questa collaborazione alla pari tra procedure predefinite e arbitrio umano è forse l’apporto più interessante di Griffa ai nostri tempi ed è presente in tutti i tredici cicli pittorici che ha condotto finora, con qualche minimo arricchimento in senso decorativo rispetto al rigore dei primi tempi. È il caso dei lavori di Tre linee con arabesco, oppure dei Campo rosa, dal ciclo Segno e campo cominciato negli anni Ottanta, in cui la prescrizione di introdurre una larga campitura di colore apre a tutte le possibili avventure della realizzazione: quanto dovrà estendersi il campo? Quanto denso dovrà essere il colore al suo interno?

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Giorgio Griffa, Tre linee con arabesco n.1684 (dettaglio), 2023, acrilico su tela, 96 x 69 cm. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo.

Guardare la pittura di Griffa è anche fare i conti con una certa idea di tempo e di sviluppo. Per l’artista il concetto che più si avvicina ai suoi intrecci di calcolo e immaginazione è il canone aureo e in particolare il numero a cui esso corrisponde, quel numero irrazionale che non cresce, non aumenta, ma si estende all’infinito nei suoi decimali. Succede qualcosa di simile anche nei lavori di Griffa, che da pochi semplici spunti di partenza procedono per alterazioni minime ma innumerevoli, senza mai cambiare il volto al proprio gioco, senza mai finire davvero.

Giorgio Griffa. Dipingere l’invisibile, a cura di Ilaria Bonacossa e Sébastien Delot, in collaborazione con Fondazione Giorgio Griffa, Genova, Palazzo Ducale fino al 13 luglio, Catalogo Silvana editore.

In copertina, Giorgio Griffa, Campo rosa, 1985, acrilico su tela, 290 x 238 cm. Courtesy Fondazione Giorgio Griffa, ph. Federico Rizzo.

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