Fabrizio Sinisi e l'Apocalisse immobile

12 Novembre 2025

Siamo in una metropoli italiana di una ricca regione settentrionale, la vita in apparenza scorre, seguendo il solito ritmo impazzito della produttività. Gli abitanti rincorrono se stessi, o meglio, la propria immagine riflessa nell’apparenza di uno status sociale, di una posizione lavorativa, di un qualche genere di presenza all’interno dei meccanismi che governano questa società. Proprio allora, mentre il capitalismo procede silenzioso, appare il Volto, un segno inerte nel cielo senza altra consegna di decodifica, un tratto nelle nuvole che sembra dare l’idea di un volto e che tutti, o quasi, interpreteranno come Il prodigio, simbolo divinatorio e titolo del romanzo d’esordio, per Mondadori, dello scrittore e drammaturgo Fabrizio Sinisi.

Luca è un sacerdote giovane, insegna all’università, scrive libri e viene interpellato spesso in TV, allo stesso tempo però rinforza la sua missione evangelica gestendo un ricovero per padri separati; la sua notorietà sembra in ascesa, eppure una crepa c’è nella sua vita, si chiama Marta, una giovane di cui è innamorato e che considera un po’ la sua fidanzata segreta. Marta, dal canto suo, porta in sé una sofferenza antica e presente, il suo fascino riverbera nella sua inafferrabilità, appare e scompare come se fosse un’illusione nella vita di Luca, la proiezione di un desiderio inconfessabile e, per questo, temuto, irrinunciabile. La loro relazione nasce da un incontro come tanti, ma presto si trasforma in una dipendenza che coinvolge entrambi in modo diverso: Marta ha bisogno di fuggire, di coltivare la propria natura tormentata perché Luca accorra a salvarla, crearle un nido, comprarle dei vestiti, curarla e vezzeggiarla perché lei possa sentirsi di nuovo accolta nel mondo; il meccanismo, se da un lato vizia entrambi della stessa compromessa impurità, dall’altro è di entrambi il complemento, la giunzione di una forma sferica in cui essi combaciano.

A partire dalla notte in cui appare il Volto, quel certo sotterraneo tumulto della città in movimento perde la cadenza dei propri ingranaggi abituali, salta un gancio e cresce repentino un sentimento prima di curiosità e stupore, poi via via una sempre maggiore inquietudine si insinua tra la gente, emergono personaggi fin lì sopiti che cavalcano l’apparizione per finalità individuali che travestono da esigenze collettive, capitani del popolo capaci di interpretare la brama segreta delle masse e farla propria, tradurla nel proprio obiettivo di potere. A forzare la tenuta istituzionale del Comune – e per estensione dello Stato – sono due spinte opposte ai cui vertici estremi sono due personaggi emblematici: da un lato il santone Folker, già tra i più in vista della città, che condensa in sé l’estetica dell’arte e l’essenza dello spirito, che mira a un futuro di fluidità androgina in cui il genere sarà indistinguibile e gli esseri umani saranno sostituiti da androidi privati delle esigenze mondane; dall’altro è invece il Generale Capogrosso, equilibrista della parola, perfettamente a suo agio nella confusione, in grado di rivolgersi alla pancia della gente con i proclami contraddittori del populismo e una non troppo velata tendenza fascista; in lui affiorano tratti dei politici di estrema destra (generali o capitani che siano) assieme all’affascinante trasformismo di un Ėduard Limonov, ma in cui probabilmente è più riconoscibile il generale Antonio Pappalardo, sedicente politico e animatore di piazze, passato dal Movimento dei Forconi a quello dei Gilet Arancioni, agitatore dei movimenti no-vax e no-pass. A definire la distanza tra i due personaggi accomunati dalla imponenza mediatica è un’opposta maniera di aggregare masse: da un lato l’investimento tommasiano del Generale sulla verità evidente, da mostrare come vessillo urlante di una grazia impossibile, dall’altro la labirintica ossessione per il mistero di Folker, che, fino all’estremo, avvolge e sconvolge nella messa in scena. Nel mezzo tra di loro – nello spazio melmoso in cui emerge l’intreccio sempre più stretto tra religione e politica, l’una per motivare l’altra, in superficie come in profondità, l’una a fare da balia e scudo all’altra, salvo poi tradirla al primo rintocco di una campana dissonante – spuntano in ogni angolo movimenti ultrareligiosi, confessioni sghembe, adorazioni di messia improvvisati, tutto quanto il Volto si crede abbia mosso nella cittadinanza che sembra come impazzita: organizza rapimenti e saccheggi, roghi, sacrifici umani, spinge per entrare nella città dell’apparizione che giura essere divina, sventolando cartelle cliniche per meritarsi il miracolo e guarire da ogni male.

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Fabrizio Sinisi.

Luca è un narratore interno della vicenda, parla in prima persona, da un tempo successivo, di quanto l’apparizione abbia progressivamente modificato la vita comunitaria di quel particolare periodo, nidificando nei libri di storia in modo dirompente, decisivo. È un uomo che sa e non sa, come colui che veramente conosce l’inaccessibilità del sacro, la sua relazione con l’evento è basculante tra la rivelazione divina, a cui tuttavia si approccia con la solida razionalità che lo porta a non credere, e la conservazione del mistero in cui si situa e fonda il cattolicesimo nei secoli. Eppure il mistero, che la Chiesa voglia o no riconoscerlo, ha qui i tratti ben chiari di una faccia in mezzo alle nuvole: può essere altro che un dio? Può mai essere altro che il “nostro” Dio? La nefelomanzia, fin dai tempi più antichi, ha spinto l’umanità a intercettare i segni provenienti dalla forma delle nuvole, perché potessero dare risposte sulla vita, appunto, come si chiede a un dio; ma nel tempo contemporaneo del racconto, un presente distopico non troppo lontano dall’attuale, la richiesta non è più quella di conoscere il futuro, bensì di riparare il passato: guarire malattie, far ricrescere arti, far risorgere morti; questa moderna pratica divinatoria dunque non guarda più alla continuità della specie, chiedendo di preservare raccolti, bestiame, prole, ma rivendica unicamente per sé ogni preghiera, provocando il terremoto ossimorico di un individualismo collettivo.

Il Volto, nel frattempo, non muta la sua espressione e con essa il suo mistero che al contrario si amplifica: è in alto, ma si rivolge in basso, è astratto ma si riverbera nella più solida concretezza delle cose umane, viene percepito come un rimando all’invisibile pur essendo sempre e totalmente visibile, ma soprattutto la sua incombenza inalienabile, la sua presenza estrema, sembrano avere un legame con le più profonde e cavernose cavità dell’istinto, rimestando nelle bassezze dell’intimità quell’altro mistero, celato in ogni essere umano. Emerge tra le parole di Sinisi una forte critica all’idea stessa di attribuzione di valore a un evento ritenuto sovrannaturale: il Volto non parla, impone il proprio silenzio e così rende eloquente, nel suo nulla, la nostra esigenza di misurarci con l’assoluto, di sfiorarlo col pensiero ma toccarlo mai, vassalli di una vita donata, gestita, determinata da una divinazione contagiosa; ecco allora che la religione come “contenitore di misteri”, nel mondo nuovo in cui si manifesta in forma ipertrofica, da un lato sembrerebbe fuori dal tempo, dall’altro invece per converso stimola un ancor maggiore ricorso a una remota, ascetica spiritualità.

Nel ritmo incalzante della scrittura di Sinisi, la cui competenza drammaturgica affiora nella natura dei dialoghi, si nota prima di tutto che questo libro non è una action novel, non si muove attraverso una sequenza di avvenimenti a togliere il fiato, ha in contrario un avvenimento iniziale e iniziatico da cui scaturiscono effetti e reazioni, a sviluppare istinti, repressioni (in controluce è l’esperienza recente della pandemia), come se il segno nel cielo ne facilitasse la manifestazione; è dunque una narrazione riflessiva che tuttavia, pur passando tra i pensieri espressi o reconditi del protagonista, si muove attraverso uno scenario sempre più apocalittico che parola per parola trascina il lettore nel dissidio di Luca, sacerdote ottenebrato dal dualismo tra il Dio in cui ha così fortemente creduto e il dio fatto di carne, la sua Marta, che soffre e si fa emblema, in antitesi all’assunto della Genesi secondo cui l’uomo è immagine e somiglianza di Dio, mentre qui è l’esatto opposto. C’è forse posto, nel pantheon del sacerdote, per un nuovo dio che appare tra le nuvole?

Per un evento che richiama a una possibile trasformazione, si leva allora il netto contrasto che essa ha con la tradizione cattolica di assoluzione e perdono: l’umanità cerca una consolazione dal peccato, ponendo però uno sguardo rivolto esclusivamente al passato, dunque privo di una prospettiva. L’essere umano sembra in questo libro tornare a un approccio fideistico, in cui la ragione cede di nuovo il passo alla cieca fede, ma in una accezione che suggerisce – principalmente sul piano mediatico – anche un nuovo umanesimo, di tipo isterico, una spinta al rinnovamento dettata però dall’interpretazione di un segno vago, significativo proprio in quanto privo di chiarezza, perché il Volto è lì, muove tutto ciò che si muove ma lo fa da immobile, la sua staticità è anzi motivo del dinamismo altrui. Infatti tutte le congregazioni, i gruppi più o meno gremiti o organizzati, condividono opposte e nette posizioni: c’è chi si mette in adorazione e accoglie il Volto come segno di vita, c’è chi si mette in opposizione e accusa il Volto come segno di morte. Non c’è una via mediana, se non nello scetticismo impossibile di un religioso che vive il proprio paradosso come una condanna alla ricerca spirituale che sembra, per tutti, perduta. Sarà dunque il mistero, di nuovo, a rifondare la speranza nella possibilità di vedere un segno divino?

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