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Carine Krecké Nell’abisso di una guerra

6 Agosto 2025

Scriveva Nietzsche: «quando guardi per molto tempo l’abisso, anche l’abisso ti guarda». Ed è quello che è successo all’artista lussemburghese Carine Krecké durante la sua ricerca, durata dal giugno 2018 al 2024: entrare nell’abisso della guerra in Siria, fino a Perdre le Nord (“Perdere il Nord”), quella direzione sicura che guidava gli antichi naviganti. Vincitrice del premio “Lauréate du Luxembourg Photography Award 2025”, la sua opera è ora esposta ai Rencontres d’Arles (fino al 5 ottobre 2025), nella Chapelle de la Charité (catalogo co-prodotto dal Centre National de l’Audiovisuel, Lët’z Arles e Palais Book, francese/inglese, 2025). Le sue immagini non sono solo “indocili”, come recita il titolo generale del festival di Arles, Images indociles, ma si presentano anche come un inseguimento tenace, esposto all’incertezza, per capire, per conoscere, per arrivare alla “verità” di quanto era accaduto e stava accadendo in Siria.

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1 Carine Krecké, foto all'ingresso della Chapelle de la Charité, foto Gigliola Foschi.

Una guerra, quella siriana, che ha suscitato ben poca indignazione in Occidente, ma che è stata una catastrofe ininterrotta, dal 2011 al 2024, quando finalmente è caduto il regime di Bashar Al-Assad, succeduto a suo padre Hafez, quest’ultimo capace di spegnere sul nascere qualsiasi forma di dissenso grazie a una rete di controllo implacabile e crudele. Con Bashar e l’avanzata dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Syria)) avvenne una catastrofe: più di trecentomila morti e circa sei milioni di profughi, persecuzioni e torture, cancellazione d’interi paesi, distruzione di buona parte del patrimonio archeologico, come accaduto all’antica, stupenda città di Palmira… Questa guerra, insomma, avrebbe potuto e dovuto suscitare una forte mobilitazione internazionale. Invece no, ci fu (e c’è tutt’ora) una disattenzione generale. Una tra le molte ragioni di tale disinteresse (sottolineato anche dall’ISPI, Istituto per gli studi di Politica Internazionale) dipendeva dall’impossibilità di costruire e immaginare una chiara distinzione – per quanto manichea o discutibile – tra “buoni” e “cattivi”, tra popolazione “massacrata” e “persecutori”. Certo la presenza sempre più pressante dell’ISIS face paura, destò preoccupazione, ma le parti in gioco erano troppe e pressoché sconosciute, mentre gli interventi internazionali parevano altrettanto complessi e confusi: tra bombardamenti russi in difesa del regime, attacchi turchi, interessi dell’Iran, degli USA, resistenza dei Curdi… Il tutto reso ancor più complicato dalla molteplicità delle forze in campo: Esercito Arabo Siriano (SAA), Esercito nazionale siriano (SNA), Forze Democratiche Siriane (SDF), infine l’attuale sopravvento delle milizie jihadiste Hay’at Tahrir As-Sham (HTS,) che hanno in parte riconquistato il Paese. In sintesi una situazione difficile da comprendere e dipanare, cui si sono aggiunte persecuzioni e attacchi contro gruppi etnici-religiosi pressoché ignoti in Occidente: prima l’ISIS contro gli Yazidi (nord-est della Siria), poi il recente assalto delle truppe governative di Ahmed al –Sharaa contro gli Alawiti (gruppo religioso di cui faceva parte il clan degli Assad); e ora lo scontro armato tra Beduini e Drusi nel sud del Paese (per un approfondimento su Drusi e Yazidi, si può leggere l’affascinate libro di Gerard Russell, Regni Dimenticati. Viaggio nelle religioni minacciate del Medio Oriente, Adelphi, 2016).

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Carine Krecké. Sans titre #7, 2024, extrait de Prête-moi tes yeux (Le partisan), vidéo, 2025.
Avec l’aimable autorisation de l’artiste.

Ebbene, in questa ragnatela quasi inestricabile di forze combattenti in campo e di rovine generalizzate, Carine Krecké, pur senza muoversi da casa, si è gettata a capofitto dopo avere visto su Google Maps, nel 2018, una trentina di foto che documentavano le devastazioni e le distruzioni avvenute ad Arbin (nei dintorni di Damasco) e in altri luoghi di cui non conosceva neppure l’esistenza. Chi sono le persone che, di loro iniziativa, hanno messo in rete tali immagini? Quali erano le loro motivazioni? Perché hanno scelto di usare quella piattaforma web anziché i più tradizionali social network? – si è chiesta. Impressionata dalle immagini che vedeva, consapevole di avere scarse informazioni sulla guerra in Siria, ha intrapreso una ricerca quasi ossessiva: per sei anni si è immersa in reti mediatiche ufficiali e non ufficiali, è entrata in forum e piattaforme di scambio, ha aperto vari account, pur di raggiungere via web “guide locali” che potessero raccontarle e mostrarle ciò che i media ufficiali non rivelavano. Di fronte a una mole d’informazioni Carine Krecké indaga senza sosta, si coinvolge intimamente, non esita a esporsi al pericolo immergendosi nelle discussioni, infiltrandosi nelle reti e appropriandosi di strumenti investigativi e analitici. Sa che potrebbe entrare in contatto con i ribelli anti-governativi della Free Syrian Army (strenui difensori di Arbin), così come, tutto all’opposto, incappare in fanatici e violenti jiadisti legati all’ISIS, o addirittura a impostori… Ma lei accetta la sfida.

«Iperinformata senza mai perdere il suo senso critico, l'artista oscilla tra lucidità e vertigine, ipnotizzata da immagini e storie, intrappolata nella nebbia di una guerra in cui realtà e allucinazione si fondono», scrive il curatore della mostra Kevin Muhlen. Nel suo viaggio virtuale dentro l’abisso di questa guerra, trova infatti alcune persone che le mandano immagini, che le narrano storie e rispondono alle sue domande, ma tutto ciò che vede sullo schermo del suo computer è incerto, può essere reale o frutto di programmi generati da ignoti per veicolare informazioni fittizie. Il risultato finale è una mostra che diventa uno spazio di tensione tra realtà e rappresentazione, dove documenti, storie e frammenti visivi si concentrano in una serie di video inediti, che affascinano, disorientano, stordiscono i visitatori. Si tratta di opere concepite come una cartografia sensibile, dove gli spettatori sono invitati a orientarsi tra innumerevoli immagini che paiono più tracce incerte in un labirinto che non chiare rappresentazioni della realtà. Spostandosi di video in video, si sperimenta una forma di vagabondaggio in un groviglio d’informazioni e percezioni labili, al contempo feroci, drammatiche, ambigue, indefinibili. Percezioni rese volutamente ancor più vaghe dal fluire dei vari video, i quali, seppur con un andamento lento e quasi ipnotico, impediscono di fissare l’attenzione su singole immagini.

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3 Carine Krecké, Predre le nord, Le Partisan, foto Gigliola Foschi.

L’unica certezza sembra essere offerta dalla fotografia che campeggia all’ingresso della cappella, dove si vede un paesaggio cittadino di case sgretolate dai bombardamenti. Ma tale fotografia è al contempo anche il simbolo di ogni guerra contemporanea, dove – come oggi in Ucraina o a Gaza – l’avanzata contro il nemico consiste nel conquistare centri abitati, abbattendo case, scuole, ospedali, fabbriche. Ogni video creato dall’autrice e presentato in mostra nasce invece dall’incontro incerto, forse veritiero o forse falso, con qualcuno – che lei definisce una “guida locale” – a cui ha chiesto: «Ovunque tu sia, qualsiasi sia la tua motivazione, io voglio vedere attraverso i tuoi occhi la realtà che tu scegli di mostrarmi». Una di queste guide si fa chiamare Hezbii, cioè “il partigiano”. Si definisce un padre di famiglia di una cinquantina d’anni che vive una vita confortevole a Damasco, nonostante la guerra sia alle porte della città. Si vanta di essere un amico personale della coppia presidenziale, che lui definisce di grande bellezza. «L’umiltà è l’arma per conquistare i cuori», le scrive, e intanto vediamo ritratti reiterati di Bashar Al-Assad, che, con il suo sorriso apparentemente mite, venivano esposti sui muri delle città. Solo che, con le distruzioni avvenute, il suo volto “mansueto e rassicurante” pare decomporsi, disfarsi, sprofondare dentro gli innumerevoli spazi in cui era stato appeso, dalle piazze alle vie, dagli alberghi ai più umili negozi. Un sorriso, il suo, ingannevole e scostante, mentre il ritratto di suo padre Hafez (me lo ricordo bene), pur circondato da gioiosi festoni di rose, metteva i brividi, esercitava fascino e soggezione, tanto emanava baraka, una forza, un potere, un flusso di energia immobilizzante (ero stata in Siria negli anni del suo governo e mi torna ancora in mente il suo sguardo paralizzante, che pareva inseguirti ovunque andassi). Poi “il partigiano” manda a Carine Krecké un ultimo messaggio: «presto il mio mondo diventerà minuscolo... Un'isola appena più grande di una cella di prigione…». Quelle famigerate prigioni del regime che l’autrice ci mostra nel video ormai vuote, desolate e desolanti, ma con le tracce di chi lì veniva torturato e dove un semplice paio di scarpe consunte, abbandonate nella pozza d’acqua stagnante di una cella, suggeriscono un pervasivo senso di morte.

Altre “guide” mostrano all’artista foto aeree delle distruzioni di Douma (provincia di Hama), sede delle forze jihadiste di Jays-al-Islam che combattevano contro il regime di Assad. Il 7 aprile 2018 venne data la notizia che la cittadina era stata colpita da un attacco chimico di cloro da parte del regime. Ma di recente un whistleblower (un informatore segreto) sostiene invece che non ci siano prove attendibili di tale attacco. Cito quest’ultima vicenda un po’ per evidenziare come tale guerra, anche da parte di osservatori imparziali, fosse difficile da verificare in modo attendibile, ma anche perché un altro whistleblower diviene a sua volta una “guida” dell’autrice. Si presenta come un giovane che, nel 2018, sta tornando nella sua città d’origine: Arbin, nella regione martoriata del Goutha orientale (a pochi chilometri da Damasco), un centro abitato che per vario tempo era stato controllato dalle forze ribelli. Con orrore questa nuova guida scopre che i bombardamenti del regime e dei suoi alleati russi l’hanno praticamente rasa al suolo e le invia con coraggio foto aeree dei luoghi dove sorgeva l’ospedale, ormai ridotto a una distesa di calcinacci polverosi. E ancora le propone vedute aeree di case distrutte, scoperchiate: in un Paese dove criticare il regime significa essere arrestato, catturato, fatto sparire, lui insiste a inviarle immagini come un disperato gesto di rivolta.

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Carine Krecké. Sans titre #11, 2024, extrait de Prête-moi tes yeux (Le dénonciateur), vidéo, 2025.
Avec l’aimable autorisation de l’artiste.

Un altro personaggio inafferrabile è poi “Il nichilista”: un giovane che le si presenta come un affiliato dell’ISIS, quando ormai lo Stato Islamico sta collassando. Costui, tramite Google Street View, le manda anche una strana immagine da Al-Tabqa, a una cinquantina di chilometri da Raqqa (centro del Califfato di Daesh, dove c’era il quartier generale dell’ISIS). In una strada semideserta si vede un uomo barbuto, in apparenza esausto e impaurito, con in mano un coltello mentre attorno sembra non esserci nessuno. Che cosa vorrà mai dire tale immagine, cosa sta accadendo lì, chi lo minaccia? Perché quella posa difensiva e disperata? Nella sua enigmaticità, una simile “visione” rimane intrappolata nella memoria come se fosse stata creata apposta per sollecitare interrogativi. Già questa sua non voluta ambiguità rivela come le immagini finiscano spesso col “toccarci” là dove «non anticipano il loro significato né il loro effetto» – come scrive il filosofo Jacques Rancière (Lo spettatore emancipato, Derive-Approdi, 2018), là dove veniamo attivamente coinvolti nell’attribuzione di un significato che tuttavia ci sfugge. Certo, molte immagini contemporanee giocano volutamente su ambiguità e finzione (basti pensare alle opere e alle teorizzazioni di Joan Fontcuberta), ma in questo caso tutto si complica ulteriormente come in una spirale senza fine. Probabilmente “il nichilista” ha inviato a Carine tale immagine, perché secondo lui la figura dell’uomo col coltello trasmetteva un messaggio credibile e chiaro. Eppure non ne capiamo il significato: avvertiamo solo un senso di desolazione e di disperazione prive di certezze. Certamente tale fotografia non è stata manipolata, ma chi davvero l’ha inviata e da dove? È stata scattata davvero a Al-Tabqa? Quando? È la testimonianza di un momento preciso, ma quale? Chi stava facendo paura a quest’uomo fragile e ormai anziano, tanto da fargli impugnare un coltello? Tutto rimane incerto, in sospeso, eppure tale immagine crea un effetto d’angoscia che ci insegue, ci assilla.

All’opposto le molte fotografie aree che la sua guida le invia grazie a Google Earth, pur mostrando segni inequivocabili di distruzioni, hanno qualcosa di cupamente affascinante, tanto appaiono simili a composizioni astratte, con linee serpeggianti, segni d’insediamenti incomprensibili e macchie scure che segnano un paesaggio dove l’arido deserto sassoso della regione degrada dal beige al rossiccio. La guerra, attraverso simili immagini, diviene qualcosa di lontano e illeggibile: ci troviamo di fronte alla difficoltà insormontabile di capire, di interpretare con chiarezza quel che si vede, nonostante esse puntino a un’iper-visibilità. La moltiplicazione delle immagini di Google Maps, che i suoi video ci mostrano, rivelano allora l’opacità delle immagini delle guerre aeree e paiono riprodurre quel senso di indifferenza che prova chi spara e uccide guidando armi telecomandate da lontano, senza vivere l’esperienza diretta del dolore e osservando solo dei segni ambigui nel terreno. Un’indifferenza, una disumanizzazione che però s’incrina, se si riesce – con uno sforzo richiesto allo spettatore – a “entrare” emotivamente nei video di questa autrice. E tanto più si incrina, anzi si trasforma in angoscia, soprattutto se qualcuno – come nel mio caso – proprio lì, tra Deir-el-Zor e Raqqa, ha vissuto esperienze che sono rimaste indelebili nei suoi ricordi.

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Nei primi anni Novanta stavo percorrendo la strada che unisce queste due città quando, con la coda dell’occhio vidi una fanciulla con un abito coloratissimo e fluttuante, ricamato in un intrico di fili d’oro, luccicanti al sole. Subito però la vidi nascondersi nell’umile casa del suo piccolo villaggio situato ai bordi della strada. Ma ormai in me si era acceso il desiderio d’incontrarla. In Siria, dove avevo visto soprattutto donne avvolte in abiti neri e grigiastri da cui, al massimo, potevo scorgere gli occhi, chi era mai questa apparizione dai mille colori sgargianti ? Feci fermare l’auto e, grazie all’ interprete, scoprii che il villaggio era abitato da beduini sedentarizzati. Diffusi sorrisi ovunque e altrettanti ne ricevetti, fotografai tutti quelli che lo desideravano, pur di ottenere l’incontro agognato con la ragazza splendente. Ma niente, l’anziano capo villaggio mi sorrideva e intanto scuoteva la testa: il loro “tesoro” doveva rimanere custodito e non poteva essere visto neppure da un’altra donna. Me ne andai un po’ frustrata senza avere capito il perché di tale rifiuto, ma anche felice del clima accogliente e festoso che il villaggio mi aveva tributato, quasi fossi una persona di famiglia. Poi iniziò la guerra e l’ISIS trasformò quella zona della Siria nella sua roccaforte. Sempre più in ansia per la sorte dei “miei” beduini passavo il tempo cercando notizie su internet. Alla fine ne notai una drammatica in cui si diceva che proprio i beduini di quella zona si erano rifiutati di obbedire ai divieti del califfato, per il quale erano legge le norme più restrittive della sharia. Si erano ribellati a tali regole lontane dalla loro cultura secolare, ed erano stati tutti uccisi. Così, nel mare delle enigmatiche fotografie aeree che scorrevano nel video di Carine, dedicato proprio a quella zona della Siria, io cercavo invano di vedere e scoprire le sorti di quel villaggio, ma non riuscivo a scorgere altro che strane composizioni geometriche. Così come non riuscivo a capire se l’antica città carovaniera di Rosafa (Sergiopoli) fosse stata pure essa distrutta; o se c’erano ancora tracce di Mari, gloriosa città stato del Terzo millennio avanti Cristo… Tutti luoghi in cui ero stata, che sono rimasti nella mia memoria e nel mio cuore per la loro bellezza e la loro storia. E ora, di fronte a tanta astratta, distanziante raffigurazione di irriconoscibili macerie viste dall’alto, che cosa dovevo pensare? Che cosa provavo?

Anche Carine Krecké ha cercato e cercato di capire invano che cosa stesse vedendo davvero, prima di selezionare le sue immagini. Mi trovavo alla sua mostra proprio quando lei l’ha presentata. Da ogni suo discorso emergeva il suo coinvolgimento personale, la profonda e sincera partecipazione emotiva che l’aveva coinvolta durante quella ricerca poi sfociata in tali immagini inquietanti e dolorose, spesso solo aeree, distanti, e quasi sempre disorientanti. Immagino che lo stesso pubblico, guidato dalle sue appassionate spiegazioni, le abbia osservate come qualcosa di enigmatico, drammatico e al contempo affascinante. Quanto a me, le ho scrutate cercando, a mia volta invano, tracce di esperienze e di luoghi a cui mi sento tuttora legata. Ma forse solo io, per il fatto di essere stata un tempo laggiù, ho provato uno strazio particolarmente lacerante, precluso invece a chi osservava solo l’aspetto estetico, geometrico, di quelle macerie, di quelle forme misteriose. Questa differenza nella ricezione di tali opere pone in evidenza il tema dello spettatore. Spesso si è discusso su come scardinarne la passività, su come modificare i cardini del visibile per “far vedere diversamente” e creare fratture interrogative nella percezione. Poco, assai poco, si è riflettuto su come agiscano le opere sulla base di esperienze o non esperienze pregresse, se esse sollecitano o non sollecitano ricordi, legami profondi, conoscenze. Io cercavo ansiosamente qualcosa che laggiù avevo vissuto: la Siria non era per me solo un Paese fra tanti del Medio Oriente, ma un luogo amato, una parte della mia vita. Mentre per una buona parte del pubblico era probabilmente qualcosa di lontano, che “scopriva” adesso grazie alle opere di Carine. Opere in ogni caso coinvolgenti per chiunque, dato che immergono chi guarda in un mondo di tracce e frammenti visivi sconosciuti, di voragini e geometrie lasciate su un territorio visto come una cartografia dell’orrore, come una silenziosa scena del crimine segnata da violente ma indecifrabili cicatrici.

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Perdre le nord Losing the North. libro d'artista di Carine Krecké.

“Troppo lontano e si perde la vista. Troppo vicino, e si perde la visione” scrive Georges Didi-Huberman (Rimontaggi del tempo sofferto. L’occhio della storia. Vol.2, Mimesis, 2022). A partire da questa riflessione, Carine Krecké si chiede ansiosamente, nel testo introduttivo del suo video finale: «Quale è la giusta distanza, non solo per contemplare qualcosa, ma anche per essere convolti da un forte impatto emotivo?». Un video, quest’ultimo, dove le immagini sono ancora più ambigue, inquietanti, oscillanti come un vortice che precipita, o s’innalza, dal molto vicino al molto lontano, mentre i morbidi toni seppiati della terra trapassano in quelli grigi e poi neri di un suolo indefinibile, traversato da striature che paiono graffi violenti. Nell’opera immersiva di questa artista tutto appare pulsante come un flusso di echi e rimandi, in cui appaiono e scompaiono figure, frammenti di mondi, di storie, di segni appartenenti a una storia atroce. Ogni frame agisce come un’ipotesi visiva immersa in un silenzio carico di risonanze, dove lo spettatore a sua volta Perd le Nord, rimane cioè invischiato in una trama disorientante che emana violenza senza mai mostrarla direttamente. Questa mostra insomma non è una semplice narrazione: vuole essere un invito a ripensare il nostro rapporto con le informazioni e le immagini nei tempi terribili dei conflitti contemporanei.

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