hooks, Hall e il fascino della conversazione
Nei giorni immediatamente successivi al femminicidio di Sara Campanella, un gruppetto di studentesse di psicologia aveva manifestato una certa insofferenza rispetto alle modalità con cui, di riflesso all’accaduto, la tematizzazione della violenza di genere aveva fatto irruzione nei loro corsi di studio. A dire il vero, la forma delle iniziative promosse dal mondo dell’accademia aveva scontentato anche una parte consistente del movimento transfemminista, piuttosto insofferente alle cerimonie istituzionali. È stato a partire da questa insoddisfazione che ha preso corpo un gruppo che si è salutato, dopo il primo incontro, ripromettendosi di leggere il dialogo tra bell hooks e Stuart Hall: Improvvisazioni Funk. Un dialogo contemplativo, tradotto da Emanuele Giammarco per la casa editrice Tamu (2025). Una frase del volume mi pareva infatti rispondere alla stessa insofferenza delle studentesse: “Se penso alle conferenze o alla rigidità delle occasioni formali – aveva ammesso Stuart Hall – una delle cose belle del conversare è ovviamene questo suo carattere fluido” (p.22). Tirando fuori un simpatico aneddoto che la ritraeva nel bagno di casa sua intenta a conversare di ruoli, di genere e di omosessualità con un idraulico, bell hooks avvalorava la tesi dell’amico e collega, dichiarando che, dopotutto, a renderla veramente felice erano quel genere di incontri e di conversazioni, radicalmente estranei al contesto dell’università, in cui era “sempre più difficile riuscire ad avere questo genere di conversazioni”. Non sapevo esattamente in che termini ci saremmo potute servire di quel faccia a faccia, tuttavia, imbastita “su una comune determinazione a trovare modi d’agire politicamente intonati non soltanto ai principi femministi, ma anche a quell’ostinata insistenza tipica del femminismo nel voler trasformare la vita di tutti i giorni” – come rammenta Paul Gilroy nella prefazione – la conversazione tra bell hooks e Stuart Hall conteneva tutte le premesse necessarie all’avvio della nostra nascente iniziativa. Mosso dalla necessità di sciogliere non soltanto la “punta dell’iceberg” (Peroni 2025) – il femminicidio – ma l’intero blocco sociale e culturale che sorregge la violenza di genere, il gruppo di studentesse e attiviste aveva deliberato che si sarebbe ritrovato mensilmente per affrontare temi che difficilmente trovano spazio all’interno dei corsi universitari o nelle assemblee di movimento.
“Prima di leggere questo libro pensavo di essere la sola a vedere certe cose. Ma adesso so che non è così”. Oumoul, studentessa al primo anno di psicologia, aveva da sempre creduto che la “ritrosia” nei confronti della psicanalisi fosse un tratto di famiglia: una particolarità dei suoi genitori, emigrati dalla Guinea quando ancora era molto piccola. E se non fosse stato per questo dialogo non avrebbe mai immaginato di potersi spingere oltre ciò che riteneva essere delle semplici regole familiari. “Ora che ci penso, anche nelle nostre famiglie è difficile parlare di psicanalisi. Mia zia l’altro giorno ha esordito dicendo che la depressione è un male occidentale. Vi rendete conto?”. Alice, un’attivista transfemminista, era intervenuta per ribadire che anche all’interno della sua famiglia la psicanalisi non godeva di una buona reputazione, facendo intendere che il problema non si limitasse unicamente alle famiglie nere. Negli anni ’90, rivolgendosi a una platea di femministe bianche, bell hooks aveva provato a suggerire, senza successo, che la classe avesse un ruolo non del tutto marginale nel rapporto con la psicanalisi, poiché se all’interno dell’universo borghese questa pratica era stata valorizzata, “nella mia estrazione operaia – e sono convinta che questa cosa vada al di là dei confini razziali – non veniva mai dato alcun valore all’idea di esternare le proprie faccende private” (hooks p. 128).
Appesa al filo delle complicazioni che ciascuna di noi sentiva farsi avanti nel rapporto tra Sé, le famiglie di origine, i movimenti e la psicanalisi, la conversazione cominciava a prendere velocità. Apparentemente in ombra rispetto alle tematiche della razza, del genere, della sessualità e della morte, la riflessione che i due intellettuali imbastiscono intorno al ruolo sociale della psicanalisi assorbe alcuni dei passaggi più sensibili di questo dialogo. Le disposizioni del movimento femminista in relazione al processo di messa a valore del proprio vissuto e della esibizione della propria intimità nello spazio pubblico costituiscono il vero baricentro dello scambio tra hooks e Hall. Fuoriuscendo entrambi dal “cerchio famigliare per parlare di questioni private” (hooks, p.128) secondo quelle modalità terapeutiche care al movimento femminista, essi avevano però, nelle parole di Hall, “oltrepassato quei limiti” (p.129) oltre i quali il danno che si può provocare a chi si ha accanto, alle proprie famiglie, può divenire incalcolabile. Stuart Hall attribuiva al privilegio della sua posizione di intellettuale esule la libertà che si era concesso nell’aver parlato pubblicamente della malattia della sorella. E sebbene il suo fosse stato un atto espressamente politico, poiché il male che affliggeva la sorella prendeva il nome di colonialismo, egli sapeva fin troppo bene che il danno che le aveva causato non era in alcun modo rimediabile, nemmeno politicamente.

“Certi discorsi mi triggerano, ma non so mai se sia giusto che io mi faccia avanti. Cioè, ho paura di passare per vittima se lo faccio, non voglio che le persone pensino che parlo solo perché sono nera”. Il rischio che Oumoul aveva esplicitato al gruppo è un tema ricorrente nel dialogo tra i due pensatori neri. Inquadrandolo all’interno di una “mitologia” che valorizzando l’idea “utopica, abilitante e romantica” della resistenza nera distoglie l’attenzione dalle ferite, la coppia fa vedere in che modo questo mito ha storicamente inibito l’analisi sullo stato di crisi mentale che affligge le persone della diaspora. Perché – si domanda bell hooks – “non abbiamo portato avanti il lavoro di Frantz Fanon? Perché in tutto il mondo non abbiamo centinaia di psicoterapeuti e psicanalisti pronti a raccogliere una conoscenza globale che possa abilitarci e renderci più forti?” (hooks, p.132). Thamy Ayouch, autore di La race sur le divan (Anacaona, 2024), appartiene a una minoranza di psicanalisti che ha ereditato dallo psichiatra martinicano l’importanza di documentare il ruolo della razzializzazione e del colonialismo nell’insorgenza di particolari effetti psichici. Per lo psicanalista marocchino residente in Francia, lo scopo del suo lavoro è quello di riuscire a elaborare una psicanalisi situata e intersezionale; capace cioè, di consegnare un’assoluta centralità agli effetti psichici generati da rapporti sociali ineguali nella pratica e teorizzazione psicanalitica. Sebbene “nella calda estate del ‘96” l’ipotesi sociologica del concetto di intersezionalità si fosse già affermata nel linguaggio giuridico statunitense (Crenshaw 1989), tuttavia, nel faccia a faccia tra i due intellettuali neri nessuna delle parole d’ordine dei femminismi contemporanei viene esplicitamente richiamata. Gilroy ci avverte: “la liturgia statunitense del discorso identitario”, in quel frangente, non è un “fattore in gioco”. Al contrario, “quel senso comune che proietta l’intersezionalità nell’ontologia politica viene (qui) implicitamente contestato” (p.10).
Su questo punto le mie interlocutrici avevano iniziato a dividersi. Ciò che per Oumoul si configurava come un potenziale rischio di vittimizzazione, per Alice rappresentava, al contrario, una rassicurazione. “Quando ho scoperto di non essere l’unica, che esistevano altre persone ADHD, per me è stato un sollievo. Credo che le etichette, le certificazioni, servano, almeno all’inizio, per sapere che non sei sola, che non sei pazza”. È evidente che posizionarsi nell’arena politica abbia dei risvolti positivi, tuttavia è necessario che “le guerre di posizione, diventino poi guerriglia”, aveva aggiunto Carolina. La conversazione aveva preso una piega scomoda, ma promettente per i nostri scopi. Le studentesse e gli studenti neri di bell hooks faticavano ad aprirsi a tutto ciò che li avrebbe potuti distrarre da quella guerra di posizione: letture, metodi e pratiche politiche dovevano rigidamente aderire alle regole e agli schemi del movimento nero. Che queste pratiche si rivelassero l’anticamera di una pericolosa essenzializzazione – l’“afrocentrismo” – era però tristemente chiaro a entrambi. Raccogliendo l’implicito invito a ragionare intorno alle ambiguità delle etichette, il gruppo si era interrogato su quanto i discorsi identitari e un linguaggio politicamente corretto avessero storicamente favorito o sabotato la creazione di possibili e inedite alleanze tra soggetti differenti.
Sebbene lo scopo iniziale del femminismo fosse quello di “inserirsi all’interno di una conversazione (quella accademica) in maniera destabilizzante (Hall, p. 30), tuttavia, “questo desiderio di limitare le possibilità espressive quando si parla di certe cose, questa specie di cappa oppressiva di correttezza politica” (hooks, p.319) aveva finito col generare delle profonde “fratture” interne al movimento stesso. La pensatrice si riferiva alle reazioni delle femministe alla sua dichiarazione su Oprah Winfrey, la quale, secondo bell hooks, era “troppo impegnata a succhiare i cazzi della cultura bianca”. Anche il famoso adagio di Stuart Hall non era stato accolto con favore dalle femministe. Come un ladro nella notte, l’irruzione del femminismo all’interno del mondo degli studi culturali si era tradotta, per lo studioso, nel gesto di chi entrando ha disturbato e “ha cacato sul servizio da tè”.
Sollecitato da un possibile ripensamento delle modalità mediante cui il movimento femminista, nel tentativo di sbarazzarsi delle logiche oppressive del patriarcato, avesse dato mandato al linguaggio identitario, il gruppo di studentesse e attiviste iniziava a dare voce alle proprie insofferenze. “Avete visto Queer, di Guadagnino? Ecco, a proposito di conversazioni, l’altro giorno ho visto il film con due amiche lesbiche e abbiamo finito per litigare”. Lucia aveva avuto modo di sperimentare personalmente la cappa oppressiva di un linguaggio che, facendosi discorso identitario, impedisce di andare oltre le aspettative costruite dal senso comune. La delusione delle amiche di Lucia – e di altre coppie gay con le quali io stessa avevo avuto modo di parlare – è sintomatica della tendenza con cui oggi ai linguaggi, quello cinematografico in questo caso, è demandato il compito di fornire rassicurazioni alle soggettività oppresse. Per chiarire lo slittamento semantico del termine queer all’interno della pellicola – e del romanzo a cui è ispirata – Damiano Garofalo, nella recensione apparsa su FM web (2024), si rifà direttamente alle parole del protagonista: “Non sono queer, sono disincarnato”, afferma Lee. Ma cosa si nasconde dietro quella soggettività che si racconta come disincarnata? Il “deragliamento vitale” che Garofalo evoca in chiusura, apponendo un sigillo all’opera che ha reinterpretato alla luce delle capacità del linguaggio cinematografico, è certamente un’ipotesi. Così come è plausibile che il disincarnamento sia la soluzione per tirarci fuori dalla materialità di un discorso che, elaborando rigorosi concetti di libertà (hooks, passim 108), ha inevitabilmente finito col fare deragliare i nostri sogni, i nostri desideri sessuali e tutta la “gioia del conversare”. Nicola aveva letto nel faccia a faccia tra bell hooks e Stuart Hall la possibilità di acquisire quegli strumenti di conoscenza e di lotta che da giovane studioso di psicologia gli apparivano necessari e prima di salutarci ci aveva interpellate: “Che possiamo fare adesso? Un genocidio è in corso e nessuno fa niente”.
Questa lettura è stata scritta grazie agli interventi e alla generosità di Oumoul, Giulia, Alice, Lucia, Francesca, Nicola e Carolina.
Bibliografia:
T. Ayouch, La race sur le divan, Anacaona, Paris, 2024
K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, University of Chicago Legal Forum: Iss. 1, Article 8, 1989
D. Garofalo, Nell’attesa di una dissolvenza, Fata Morgana Web, 4 settembre 2024
C. Peroni, Anatomia di un dibattito femminista: le ambivalenze del nominare il femminicidio, Studi sulla Questione Criminale, 17 aprile 2025
